27 settembre 2008
Card. Scola: "Albino Luciani pastore umile e obbediente, quindi libero" (Osservatore Romano)
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Albino Luciani pastore umile e obbediente, quindi libero
Senza compromessi per difendere l'unità
Si chiude venerdì 26 settembre a Venezia, presso l'Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, il convegno "Albino Luciani dal Veneto al mondo" organizzato in occasione del trentesimo anniversario della morte di Giovanni Paolo i. Pubblichiamo l'intervento conclusivo del cardinale patriarca di Venezia.
di Angelo Scola
Cardinale patriarca di Venezia
Le circostanze storiche mi hanno portato in questi mesi a dovermi chinare, in più occasioni, sulla figura dei tre patriarchi veneziani del secolo scorso che poi sono diventati Papi. Tutti e tre, in gradi diversi, sono ormai nell'orizzonte della santità canonicamente riconosciuta.
Debbo riconoscere che affrontare, come patriarca e nella città di Venezia, la figura del servo di Dio Papa Giovanni Paolo i a chiusura del presente convegno mi è risultata, tra le tre, l'impresa meno agevole e nello stesso tempo la più stimolante. E ciò anche perché diretti protagonisti degli anni, certamente complessi, del ministero patriarcale di Albino Luciani sono ancor oggi attivi nella vita veneziana. Ma soprattutto mi sembra di poter serenamente affermare che all'interno della nostra Chiesa veneziana continuano a convivere due atteggiamenti profondamente diversi verso la figura di Albino Luciani.
Da una parte esiste, e si va rafforzando, una memoria riconoscente e grata. La sua figura emerge spontaneamente nei ricordi della grande maggioranza dei fedeli quando li si incontra, ad esempio, in occasione della Visita pastorale. Sono assai numerosi tra il popolo quanti, con una punta di sano orgoglio, dicono, ad esempio, di essere stati cresimati dal futuro Giovanni Paolo i o menzionano episodi significativi di rapporto con Lui. Dall'altra non mancano, in qualche membro del clero e in taluni intellettuali, voci di critica, talora anche aspra, nei confronti del patriarca Luciani, che rivelano ferite non completamente rimarginate.
Non è mia intenzione, né peraltro ne avrei i mezzi, formulare un giudizio sintetico sulla figura e sull'azione di questo mio venerato predecessore. Vorrei tuttavia aprire queste mie riflessioni fornendo una chiave di lettura sul ministero veneziano di Luciani. Non nascondo di volerlo fare proprio in quanto pastore, con l'intento di pacificare lo sguardo di tutti i veneziani su questa grande personalità della ancor recente storia della Chiesa. Per far questo partirò proprio dall'episodio, assai noto, della difficile vicenda legata al referendum per il divorzio.
Erano gli anni della contestazione anche ecclesiale, anni difficili perché segnati da circostanze nuove, complesse e di problematica decifrazione. Nella sua qualità di pastore della Chiesa veneziana e di figura eminente della Chiesa italiana, Luciani dovette sovente esporsi. Fu soprattutto nell'aprile del 1974, in occasione del referendum sul divorzio, che prese posizione non nominando un successore all'assistente della Fuci, che si era dimesso, e sciogliendo la Comunità studentesca di San Trovaso che si era pronunciata a favore del mantenimento della legge. A esse aveva permesso sperimentazioni liturgiche e ricerche bibliche anche piuttosto avanzate per allora, ma non tollerò che si esprimessero pubblicamente contro la dichiarazione ufficiale dei vescovi italiani sul referendum. Si produsse in tal modo una "significativa frattura" che certamente segnò gli anni successivi della vita diocesana.
Come leggere oggi le scelte dell'allora patriarca?
Mi sembra di essere rispettoso dei fatti nell'affermare che le scelte del patriarca furono dettate dall'amorevole cura del pastore. Egli ebbe in primo luogo a cuore il bene di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei semplici. Pertanto non esitò ad assumere una posizione decisa e anche impopolare quando percepì minacciata l'articolata unità della Chiesa che gli era stata affidata. Non scese a compromesso con avanguardia alcuna, fosse profetica o meno, per evitare opposizione tra i fedeli e i loro pastori che si erano pubblicamente espressi. Prese con dolore una posizione chiara, ben sapendo di dover ferire taluni protagonisti. Una posizione che, nell'ottica classica dell'obbedienza cristiana, da Luciani sempre scrupolosamente perseguita anzitutto in prima persona, implicava precisi risvolti disciplinari.
Leggere questa scelta con le categorie sempre riduttive di conservazione e progresso non renderebbe, tra l'altro, giustizia a un tratto essenziale della personalità di Luciani. Mi riferisco al fatto che lungo tutto l'arco del suo ministero egli si impegnò incessantemente per affinare le ragioni delle sue scelte. Basti pensare al lavoro di riflessione e di studio nonché al cambiamento di posizioni teologiche che comportò per lui la partecipazione al Concilio vaticano ii e l'assunzione, che fu piena, di Humanae vitae.
Ulteriore segno di questa obiettiva apertura di mente e di cuore fu il fatto che egli tentò poi, per come poté e seppe, un abbraccio costruttivo con tutti. Infatti il patriarca continuò a cercare il contatto con i preti in qualche modo coinvolti nelle vicende della contestazione, riconoscendone pubblicamente le competenze, affidando loro importanti servizi diocesani o chiedendone, anche da Papa, la collaborazione.
Preziosa conferma di questo atteggiamento profondamente pastorale si può trovare nel Messaggio urbi et orbi di domenica 27 agosto 1978 quando, appena eletto Papa, Luciani ritorna sulla necessità di superare le tensioni interne alle Chiese. Lo fa nel contesto della riflessione sulla responsabilità di tutti i "figli della Chiesa": "Chiamiamo anzitutto i figli della Chiesa a prendere coscienza sempre maggiore della loro responsabilità (...) Superando le tensioni interne, che qua e là si sono potute creare, vincendo le tentazioni dell'uniformarsi ai gusti e ai costumi del mondo, come ai titillamenti del facile applauso, uniti nell'unico vincolo dell'amore che deve informare la vita intima della Chiesa come anche le forme esterne della sua disciplina, i fedeli devono essere pronti a dare testimonianza della propria fede davanti al mondo".
Questa mia personale lettura della nota vicenda veneziana mi consente di identificare due importanti criteri della singolare immedesimazione di Luciani all'essenza del cristianesimo. Su di essi vorrei ora brevemente soffermarmi per lumeggiare ulteriormente il valore della persona e del ministero del servo di Dio. Mi sembra di poterli individuare in un affettivo ed effettivo senso di appartenenza alla Chiesa vissuto con profonda gratitudine e, in secondo luogo, in un'acuta consapevolezza della natura missionaria del popolo di Dio. La vicenda dolorosa relativa al referendum poteva incrinare, agli occhi di Luciani, sia l'appartenenza ecclesiale, sia la testimonianza missionaria dei cristiani nel mondo.
Quanto al primo criterio, l'appartenenza grata al popolo di Dio, altro non fu che l'esplicitarsi della coscienza del mistero della Chiesa, profondamente radicata in lui fin dall'infanzia. Il vescovo Luciani la comunica con sapienza catechetica straordinaria e, soprattutto, con amore incondizionato alla Sposa di Cristo nel suo magistero sia a Vittorio Veneto, sia a Venezia.
Sono tante le testimonianze in proposito: "È dunque una fortuna appartenere alla Chiesa: inseriti in essa, si diventa cosa così grande, che Cristo stesso si chiama felice di averci come suoi. Per Cristo, noi siamo un premio, un'ambita conquista, una sposa ardentemente desiderata e teneramente amata". Noi siamo una sposa, dice il patriarca.
Si può intravedere fin da questo passaggio l'uso del linguaggio nuziale - oggi finalmente più corrente - per descrivere i misteri cristiani che lo porterà a parlare di Dio come Madre già nella prima omelia in San Marco: "Dio è madre e tale madre, nei nostri confronti, che mai a nessun patto, dimenticherà il frutto del proprio seno". Come è noto questo tema e linguaggio fece scalpore quando lo riprese in un ormai celebre Angelus.
E passando dal tema sponsale a quello della Chiesa-corpo egli afferma: "Siamo Corpo, perché ciascuno di noi non sta alla Chiesa come una parte qualunque sta a un tutto qualunque, ma come un organo qualificato sta a un corpo animato (...). Un occhio (...), una mano, un braccio concorrono al bene di tutto il corpo e ciascuno in modo proprio, con risorse distinte. Così un vescovo, una suora, un padre di famiglia, un giovane impegnato danno alla Chiesa ciascuno un proprio apporto, particolare e diverso".
Ne consegue allora che la Chiesa è il luogo della comunione e dell'amore effettivo e "per questa comunione ognuno di noi sa di essere amato da Dio e dai fratelli, si sente impegnato a contraccambiare amore, a sviluppare le iniziative esterne di carità già nella Chiesa primitiva chiamate "segno di comunione"". Riferendosi a un'espressione di Paolo vi il patriarca sostiene poi che tale comunione, continuamente esposta al rischio di venire stravolta e strumentalizzata, può essere pienamente vissuta solo mantenendosi "nella filiale obbedienza".
Né si può sottacere che al tema dell'appartenenza ecclesiale rettamente inteso appartiene per Luciani il tema del mondo. La Chiesa non può essere spiegata se non in relazione al mondo e alla sua salvezza. A causa di questo aspetto dominante, la Chiesa appare come una realtà essenzialmente eccentrica, definibile solo in base a una duplice costitutiva relazione: a Cristo e alla sua missione, da una parte, e al mondo, verso cui è continuamente ed essenzialmente inviata, dall'altra. Da qui la profonda convinzione che la vita della Chiesa è viva nel cuore degli uomini, anche di quelli che non condividono la sua verità e non accettano il suo messaggio.
Nel Messaggio urbi et orbi Giovanni Paolo I si mostra ben cosciente della "insostituibilità della Chiesa cattolica" in ordine allo sforzo comune a tutta la famiglia umana di dare risposta ai problemi lancinanti del momento.
In questa prospettiva ecclesiologica, chiaramente alimentata al Concilio Vaticano ii che Luciani approfondì con la partecipazione, non comune, a ben tre Assemblee del Sinodo dei vescovi, emerge anche la forte sottolineatura della natura missionaria della Chiesa.
Scrivendo ai veneziani in occasione della giornata missionaria del 1971, il patriarca individua nella evangelizzazione, cioè nella diffusione della Buona Novella, il compito prioritario della Chiesa. Nel suo nucleo centrale, esso consiste nell'annuncio che Dio ci ha immensamente amato, da sempre, e ha preparato per l'umanità un efficace piano di salvezza, che si viene attuando nella storia, attraverso l'incarnazione del Cristo. La Chiesa non può non evangelizzare, ma per farlo deve essere particolarmente attenta alla realtà sempre storicamente determinata dell'uomo. Per stare all'azione veneziana di Luciani mi preme ricordare due dati. Lo stile della sua visita pastorale e il mandato ai catechisti.
In questo contesto, il patriarca sottolinea alcuni elementi problematici: il fatto che l'evangelizzazione porti con sé indirettamente influenza sociale e politica, civilizzazione e riti religiosi, richiede attenzione a non confondere tali aspetti con il Vangelo, ma anche a non credere che tra loro ci sia un abisso.
Allo stesso modo il rapporto con il potere politico va affrontato con grande equilibrio: la Chiesa deve insegnare, anche con i fatti, che l'autorità civile va rispettata, ma nello stesso tempo deve denunciarne gli eventuali abusi. Compito della Chiesa è, infatti, promuovere lo sviluppo integrale dell'uomo, di ogni uomo, proponendo la visione cristiana dell'esistenza, nella fedeltà alla Parola di Dio. Questo significa considerare anche l'importanza dei problemi legati alle diverse culture, di cui la Chiesa non può non tener conto, pena il trascurare l'uomo e mortificare il Vangelo. Gli verrebbe impedito di penetrare tutti gli ambiti dell'esperienza umana per sostenere la libertà nel compito di dare risposta ai grandi interrogativi dell'esistenza.
Come si può notare, le riflessioni del patriarca sembrano in qualche modo anticipare i contenuti della iii Assemblea Generale del Sinodo dei vescovi del 1974, dedicata all'evangelizzazione, e la conseguente, insuperata Esortazione apostolica di Paolo vi Evangelii nuntiandi, pubblicata l'8 dicembre 1975; ma anche il Convegno della Chiesa italiana del 1976 su "Evangelizzazione e promozione umana".
Lo stesso Luciani sarà, successivamente, uno dei più convinti sostenitori e dei più lucidi commentatori dell'esortazione pontificia. Nelle sue presentazioni del testo, il patriarca parte dalla consapevolezza che il cristiano ha il dovere di conservare nella sua purezza intangibile il patrimonio della fede, ma ha anche quello di presentarlo agli uomini del nostro tempo in modo non solo comprensibile, bensì capace di toccare davvero il loro cuore.
Appartenenza ecclesiale e coscienza missionaria vissute come l'esito, non privo di dramma, di due virtù che il servo di Dio esercitò in modo eccellente: l'umiltà e l'obbedienza. Lo si vede assai chiaramente ripercorrendo i suoi scritti, soprattutto quelli catechistici - come il suo grande predecessore sulla cattedra di Marco prima e di Pietro poi, Pio x, fu un grande catecheta - e quelli pastorali. E il cemento che tenne unite queste due virtù fu la libertà propria dei figli di Dio. Questa tocca il suo vertice nella decisione dell'amore oggettivo la cui essenza è il "per sempre". Non a caso, come ho già avuto modo di richiamare a Canale d'Agordo lo scorso mese di agosto, quasi al termine della sua vita, appena eletto Papa, Albino Luciani ce ne diede piena testimonianza: "Io ricordo come uno dei punti solenni della mia esistenza il momento in cui, messe le mani in quelle del mio vescovo, ho detto: "Prometto". Da allora mi sono sentito impegnato per tutta la vita e mai ho pensato che si fosse trattato di una cerimonia senza importanza".
(©L'Osservatore Romano - 27 settembre 2008)
Vedi anche:
«Io, salvato da Papa Luciani» Ecco il miracolo che lo farà beato (Andrea Tornielli)
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