27 settembre 2008

Mons. Fisichella: "Timore e tremore di fronte al gran libro del Dna" (Osservatore Romano)


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Scienza e conoscenza nell'incontro tra fede e ragione in un convegno di studi alla Pontificia Università Gregoriana

Timore e tremore di fronte al gran libro del Dna

"L'importanza della scienza oggi - fede e ragione sul banco di prova" è il tema del convegno promosso dalla Fondazione Carl Friedrich von Weizsäcker e dall'Ambasciata della Repubblica Federale di Germania presso la Santa Sede, in corso a Roma il 26 e il 27 settembre alla Pontificia Università Gregoriana. Pubblichiamo ampi stralci del discorso d'apertura.

di Rino Fisichella
Arcivescovo. Presidente della Pontificia Accademia per la Vita.
Rettore della Pontificia Università Lateranense

"Non posso non rivolgere una parola anche agli scienziati, che con le loro ricerche ci forniscono una crescente conoscenza dell'universo nel suo insieme e della varietà incredibilmente ricca delle sue componenti, animate ed inanimate, con le loro complesse strutture atomiche e molecolari. Il cammino da essi compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo, traguardi che continuano a stupirci. Nell'esprimere la mia ammirazione ed il mio incoraggiamento a questi valorosi pionieri della ricerca scientifica, ai quali l'umanità tanto deve del suo presente sviluppo, sento il dovere di esortarli a proseguire nei loro sforzi restando sempre in quell'orizzonte sapienziale, in cui alle acquisizioni scientifiche e tecnologiche s'affiancano i valori filosofici ed etici, che sono manifestazione caratteristica ed imprescindibile della persona umana. Lo scienziato è ben consapevole che la ricerca della verità, anche quando riguarda una realtà limitata del mondo o dell'uomo, non termina mai; rinvia sempre verso qualcosa che è al di sopra dell'immediato oggetto degli studi, verso gli interrogativi che aprono l'accesso al Mistero". Con queste parole Giovanni Paolo ii si avviava alla conclusione della sua enciclica Fides et ratio (n. 106). Quel testo può essere posto come scenario significativo nel momento in cui si affronta il tema della fede e della ragione dinanzi alla scienza. Quanto viene chiesto allo scienziato, infatti, è che si confronti con il filosofo e il teologo perché la scoperta raggiunta porti in sé un valore aggiunto quale l'istanza etica e la forma di umanizzazione.
La scienza per sua stessa definizione è conoscenza certa, è apertura di spazi inimmaginabili e come tale è conquista positiva dell'uomo. Da sempre egli ha fatto della sua conoscenza uno strumento per rendere la sua vita più umana, vincendo le diverse resistenze presenti nella natura e nel mondo. La scoperta del software, per fare un esempio, ha dato vita a una gamma di conoscenze che aiutano certamente a immagazzinare dati, a compiere analisi in pochi minuti, a conservare dati che prima era impensabile mantenere nella propria memoria; eppure, nessuno può negare che siamo dinanzi, per il momento, a una intelligenza artificiale. Essa è sempre soggetta alla logica di chi ha progettato il software. La scoperta del Dna apre spazi infiniti per quanto riguarda la salute dell'uomo, la sua longevità che si è prolungata rasentando i termini biblici; eppure, nessuno tra di noi potrà negare che la vita personale non è limitabile dalla scienza alla sola scoperta molecolare, delle cellule e delle loro composizioni. Tornano alla mente espressioni di un'intervista: "Quando si ha di fronte questo libro di istruzioni composto da 3,1 miliardi di lettere che porta in sé tutti i tipi di informazione e di misteri riguardanti l'umanità, non lo si può esaminare pagina dopo pagina senza un senso di timore. Non posso osservare quelle pagine senza provare la sensazione che mi stiano comunicando un riflesso di Dio". Chi scrive non è un teologo né un filosofo, ma Francis S. Collins, in una dichiarazione al Times. Il Direttore del National Center for Human Genome Research, l'uomo che ha diretto il "Progetto Genoma" fin dal 1990; "ateo di ferro" come amava definirsi, e che ora dopo aver ricoperto il ruolo di massimo prestigio per un ricercatore, dopo aver individuato i geni responsabili di malattie come la fibrosi cistica e altro, ora si apre inevitabilmente alla scoperta di Dio nel suo ultimo libro The Language of God. A Scientist Presents Evidence for Belief. Dovremmo tutti ammettere che il problema non è, in primo luogo, la scienza come tale, ma l'uso che si fa della sua scoperta. Non solo. La scoperta scientifica deve essere anche finalizzata. Non si può cadere nell'ingenuità di non pensare che anche gli uomini di scienza sono soggetti al limite, alla contraddizione, alla corruzione; se si vuole dobbiamo convenire che la conoscenza come tale, è segnata dalla precarietà che l'uomo porta in sé stesso. Fosse anche la persona più intelligente, con un'intuizione acuta e prospettive geniali, la sua conoscenza è segnata dal peccato. Anche lo scienziato, pertanto, nella sua scoperta non è mai neutrale; egli porta con sé, infatti, la sua storia e il suo modo di essere. C'è la necessità, quindi, che avvenga una sorta di purificazione che mentre allontana le tossine che avvelenano la ragione nella sua ricerca di verità e di certezza abilitino a guardare con maggior intensità all'essenza delle cose. Non possiamo negare, insomma, che la conoscenza, anche la più precisa, la più "critica" non può non porre l'uomo al centro del suo investigare. La ricerca della verità, che piaccia o no, è lo scopo di ogni ricerca scientifica. Sarebbe davvero patologico per la scienza se non ricercasse la verità piena sull'uomo, su ciò che egli è e su ciò che è chiamato ad essere.
Come ha ricordato di recente anche Benedetto XVI nel suo magistrale discorso al Collège des Bernardins a Parigi la cultura è sempre segnata da un quaerere Deum e questa ricerca si innesta nel linguaggio proprio dell'uomo, creando forme di vita personali e sociali originali e inaspettate. Potrebbe la Chiesa, a questo punto, essere contro la scienza? Davvero ancora oggi gli scienziati che siano veramente tali possono rimproverare al Magistero della Chiesa di essere contro la conoscenza critica? Non è, forse, il tempo di richiamare l'attenzione sulla lunga schiera di uomini di Chiesa che sono all'origine di grandi scoperte scientifiche che fino ad oggi appartengono ai libri di storia?

Spesso sono stati proprio i pensatori cattolici quelli che hanno prodotto un pensiero veramente degno di essere definito "laico". Una seconda considerazione mi sembra opportuna. Quando si pone il problema della fides et ratio non lo si pone in forma astratta, ma in maniera consequenziale con la storicità del momento.

Ciò significa che il tema deve essere inserito all'interno di un contesto che vede una differenziata comprensione sia della fides come della ratio a causa non solo dell'apporto scientifico che ha permesso una comprensione più profonda e adeguata dei due concetti, ma soprattutto del confronto multiculturale sotteso alle nostre società. Quando oggi si parla di rapporto tra fede e ragione non si può dimenticare che la relazionalità tra i due termini si è modificata nel corso dei secoli. Certamente la comprensione della fede si è venuta a sviluppare maggiormente alla luce di nuove conoscenze ermeneutiche che hanno permesso di accedere al concetto biblico, verificando come emeth non è in primo luogo in riferimento a una verità astratta, ma è fiducia e confidenza in una persona che si fa conoscere e che risulta credibile a tal punto da appoggiarsi a lei e trovare sostegno. Dove c'è emeth, ci si può lasciar andare e ci si può affidare. Avviene così la percezione di una duplice esperienza: da una parte, si conclude una tappa in quanto si mette fine all'incertezza indefinita del cercare; nessuno, infatti, può essere esposto oltre misura alla presunzione altrui o al sospetto e al dubbio. Deve venire il momento in cui alla condizione vacillante e ondivaga della ricerca si sostituisce l'oggettiva evidenza di uno stato di cose. Dall'altra parte, porre fine all'incertezza e alla sua pretesa di infinità coincide con un'apertura incredibile di infinite possibilità e reale fecondità di conoscenze. Insomma, la certezza della verità non rende immobili, al contrario; l'affidabilità alla verità raggiunta con la sua conseguente certezza permette di conquistare in una reale dinamica altre verità e altre certezze che sfociano nella insondabilità del proprio mistero.
La stessa cosa è per il concetto di ratio. Lo sviluppo scientifico di questi secoli ha modificato di gran lunga la concezione aristotelica o platonica della ratio e si è affidata particolarmente a Vico, Galileo; da qui la lunga schiera di pensatori che hanno immesso il concetto in uno spazio ben più largo di quello metafisico a cui si era abituati. È necessario che particolarmente oggi ci si chieda di quale ratio stiamo parlando quando discutiamo tra noi. A differenza del passato, con Vico si apre una nuova stagione; l'uomo diventa produttore di verità: il verum ipsum factum attesta con evidenza la progressiva tendenza che fino ai nostri giorni veniva a concretizzarsi non solo nell'ambito della filosofia. Il sapere aude, come programma di libertà e autonomia, era diventato ormai lo scopo di un'esistenza anche sociale. Progressivamente, però, il produttore di verità si è voluto sostituire a essa; ne è derivato un senso di sfiducia e di debolezza che ha esiliato la verità al solo giudizio individuale o al proprio sentimento, invocando il diritto come soluzione di ogni conflitto. Il relativismo di cui spesso si parla in questi anni è di fatto proprio questa condizione che ha avuto il sopravvento. Questa considerazione porta a concludere che la ratio con cui la fides si confronta oggi è sempre meno metafisica e sempre più tecnologica. Non è, comunque, solo questione di consapevolezza maggiore dei concetti in questione; oggi c'è molto di più. Questa problematica deve essere affrontata nel contesto più ampio del confronto interculturale. Il concetto di ratio che possediamo e che fa riferimento alla scoperta greca quale riscontro possiede nelle popolazioni dell'oriente? E il concetto di fides biblica come si rapporta con le altre religioni? Gli interrogativi non sono affatto ovvi, al contrario. Impegnano a trovare nuove strade da percorrere per cercare di comprendere che cosa unisce oltre le diverse interpretazioni concettuali. Certo la ratio è universale; eppure la sua concettualizzazione e la sua realizzazione storica assumono volti differenti; i concetti che hanno segnato la storia dell'occidente hanno bisogno di verificare la complementarità con altre scoperte che oggi sono più direttamente accessibili. Probabilmente, sarà la scienza con i suoi differenti volti dalla medicina all'economia, dalla chimica all'astrofisica... a chiedere alla filosofia e alla teologia di superare il momento di debolezza presente e di produrre nuovi linguaggi per permettere di approdare a delle ragioni che danno il senso della vita. L'uomo, alla fine, sarà chiamato a dare questa risposta perché il dolore, la sofferenza, il tradimento, la morte saranno sempre all'erta e chiederanno una risposta carica di senso e non una formula matematica. La ratio allora, consapevole dei suoi limiti, chiamerà in causa la fides perché dia una parola di speranza.

(©L'Osservatore Romano - 27 settembre 2008)

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