17 giugno 2008
San Paolo un giudeo in Cristo. Intervista con Romano Penna (Lorenzo Cappelletti)
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San Paolo un giudeo in Cristo
Intervista con Romano Penna sull’attualità di alcune tematiche dell’Apostolo delle genti: la giustificazione, la conversione, la missione
di Lorenzo Cappelletti
Don Romano Penna non ha bisogno di presentazioni. Neotestamentarista (cioè studioso del Nuovo Testamento, in particolare del Corpus paolinum, e delle origini cristiane) di fama internazionale, è appena diventato professore emerito, dopo aver insegnato per 25 anni presso la Pontificia Università Lateranense. La sua ultima fatica è un nuovo commento alla Lettera ai Romani di cui sono usciti i primi due volumi (che hanno già conosciuto una prima ristampa) ed è prossima l’uscita del terzo.
Lo abbiamo incontrato nell’imminenza dell’inizio dell’Anno paolino che papa Benedetto XVI aprirà solennemente in occasione della festa dei santi apostoli Pietro e Paolo il prossimo 29 giugno.
Si è scritto polemicamente che il vero inventore del cristianesimo non sarebbe Gesù, ma san Paolo.
Romano Penna: È una polemica paradossale, ma sono comunque interessanti le ragioni che hanno indotto alcuni studiosi a definire Paolo in questo modo. La prima è che fra il Gesù terreno e Paolo c’è l’evento pasquale, che ha influito sul messaggio, sulla formulazione evangelica della prima comunità cristiana. Gesù nella sua vita non ha parlato molto della propria morte e risurrezione. Gesù predicava il regno dei cieli. Dopo la Pasqua, invece, il destino e la vicenda personale di Gesù sono entrati a far parte del cuore dell’annuncio dei suoi discepoli. I suoi discepoli si rifanno a Lui non soltanto come maestro, profeta, riducibile eventualmente al quadro israelitico del tempo (come fanno i nostri fratelli ebrei, ai quali fa piacere dire che Paolo è inventore del cristianesimo), ma inseriscono la figura di Gesù in questo quadro storico-salvifico ormai maturo, diciamo così, per cui la figura di Gesù diventa quella del Crocifisso risorto con una certa destinazione: per gli altri. Tra Gesù e Paolo poi c’è la Chiesa, la comunità cristiana primitiva. Già la prima comunità cristiana definisce Gesù come colui che è «morto per i nostri peccati». Paolo non inventa nulla, è anzitutto testimone della Tradizione. Non fa altro che riprendere una tradizione prepaolina, ad esempio, quando dice ai Corinti: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture…» (1Cor 15, 3ss). L’altra ragione che entra in conto per spiegare quella definizione di Paolo è la effettiva originalità, e diciamo pure la genialità di Paolo nella sua operazione di ermeneutica dell’evangelo.
Qual è la genialità di Paolo se la si potesse esprimere in una parola?
Penna: Paolo si contraddistingue all’interno delle origini cristiane essenzialmente per il messaggio della giustificazione sulla base della fede. L’uomo diventa giusto davanti a Dio, è considerato da Dio giusto e diciamo pure santo (ricordiamoci che Paolo, quando parla dei fedeli, li chiama santi per ben venticinque volte all’interno delle sue lettere) non per un autonomo apporto alla propria santità, ma per l’accoglienza umile e anche gioiosa di un intervento ab extra, l’intervento di Dio in Gesù Cristo. Questo è ciò che rende l’uomo giusto, cioè l’accettazione per fede di ciò che Dio ha operato per me. Questo, a livello delle origini cristiane, non era pacifico. Era pacifica la fede in Gesù Cristo come Messia e anche come Figlio di Dio. Ma soprattutto il cosiddetto filone giudeo-cristiano faceva coesistere la fede in Gesù Cristo con un apporto personale. Nella Lettera di Giacomo (Giacomo è esponente di questa corrente) si dice chiaramente che l’uomo non è giustificato solo mediante la fede. E viene portato come esempio il sacrificio di Isacco da parte di Abramo, invertendo però l’ordine delle pagine bibliche. Nella Genesi il sacrificio di Isacco lo troviamo nel capitolo 22, dopo che già nel capitolo 16 si dice che Abramo credette, che venne giustificato per la fede, cosa che Paolo cita nel capitolo 4 della Lettera ai Romani. Tale giustificazione dunque non è condizionata dall’esercizio fattivo di quell’obbedienza che poi è raccontata nel capitolo 22 della Genesi. Il punto di vista giudeo-cristiano consiste in fondo in questa inversione.
A proposito del rapporto coi giudeo-cristiani: da loro san Paolo risulta osteggiato come nessun altro; eppure è colui che più rivendica la sua origine giudaica e il suo amore appassionato per la sua stirpe.
Penna: Se si sta ai testi, Paolo non conosce l’aggettivo “cristiano”, che d’altronde non esiste ancora al suo tempo. Sappiamo da Luca che i discepoli furono chiamati cristiani ad Antiochia; ma Atti 11, 26 è anacronistico, anticipa la cosa agli anni 30. In realtà Paolo non conosce questo aggettivo. Lui si ritiene un giudeo, è un giudeo in Cristo. Ecco perché non usa mai il lessico della conversione. Paolo non è un convertito. Il giudeo non si converte. C’è una celebre frase del rabbino di Roma Eugenio Zolli, battezzato dopo la Seconda guerra mondiale: «Io non sono un convertito, sono un arrivato»; perché il convertito è colui che gira le spalle al suo passato, invece il giudeo non gira le spalle, va solo avanti. Certo, Paolo ha conosciuto un passaggio. Lo mostra in Filippesi 3, 7: «Tutto quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo». Il guadagno in cosa sarebbe consistito? Nella adesione farisaica (in senso non volgare) alla Legge, ovvero nella adesione totale, completa, alla Legge, tanto da considerarla come condizione del proprio essere giusto davanti a Dio. Paolo questo l’ha superato. Però Israele resta sempre il punto di riferimento. Basterebbe riandare ai capitoli 9-11 della Lettera ai Romani: i Gentili sono innestati su Israele; la pianta è santa se la radice è santa (cfr. Rm 11, 16ss). Noi viviamo di una santità derivata; non primaria, ma secondaria, e proprio dal punto di vista storico-salvifico. Dico sempre che il cristianesimo è semplicemente una variante del giudaismo, e mi fanno pena quelli che polemizzano con Israele o che, addirittura, come si legge nella cronaca, compiono gesti vandalici: costoro non hanno capito niente di cosa significa essere cristiani.
Mi ha sempre colpito il brano della Lettera agli Efesini 3, 6 in cui «il mistero rivelato» sembra consistere nel fatto che «i Gentili sono chiamati in Cristo Gesù a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo e a essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo del quale sono divenuto ministro». Sembrerebbe quasi che l’intero mistero cristiano abbia per contenuto la partecipazione dei Gentili alla stessa eredità promessa ai Giudei.
Penna: Ha citato la Lettera agli Efesini che secondo molti, e anche secondo me, non è del Paolo storico. Ma questo tema è comunque tipico e centrale nelle Lettere cosiddette autentiche di Paolo. Già lo troviamo in Galati 2, dove viene ricordato il cosiddetto Concilio di Gerusalemme. Lì è avvenuta una distinzione chiara: come Pietro, Giovanni e altri si rivolgono ai circoncisi, io – dice Paolo – e Barnaba ai Gentili. Paolo si caratterizza proprio per questo. Ha dato la vita per questo. Ha avuto incomprensioni essenzialmente per questo. È stato osteggiato – in quella stessa Lettera si parla di avversari – dalla parte giudeo-cristiana, non tanto dai Giudei, per questa sua apertura. «Noi non siamo figli della schiava ma della libera», dice Paolo in questa stessa Lettera (cfr. 4, 31) riferendosi alle due donne di Abramo; e i cristiani a cui scrive, i Galati, sono dei pagani, non dei Giudei. La cosa grande che fa Paolo non è di sganciare l’evangelo da Israele, ma di aprire a tutti gli uomini fuori di Israele le caratteristiche che sono di Israele stesso, di essere cioè il popolo di Dio, il popolo dell’Alleanza (dice proprio popolo). Tanto che in Romani 9, 25 Paolo cita un testo polemico del profeta Osea («chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo») e lo riferisce ai Gentili, ai pagani, a tutti noi, a tutti coloro che non sono di origine giudaica. Questa è l’operazione di Paolo: tanto sul piano ermeneutico che missionario; perché tutto questo poi significa dedizione fattiva, concreta a tutte le città fuori d’Israele in cui Paolo va. Paolo non predica in Israele. E ad Atene, per esempio, dove è che predica Gesù Cristo? Nell’agorà, nella piazza, e nell’Areopago, dove viene a contatto con la società viva del tempo, fuori delle atmosfere ovattate dei luoghi religiosi. Ecco, egli si interessa dei lontani, lontani rispetto a Israele, come si legge in Efesini 2, 13. Dice l’autore: «Voi che eravate lontani siete diventati vicini». I lontani, gli altri, quelli che per Israele sono gli altri, i diversi, il non-popolo, le gentes (in Israele era tradizionale distinguere “il popolo” dalle “genti”), Paolo si dedica a loro: questa è la sua grande operazione. Si potrebbe arrivare a dire che, agli occhi di Paolo, Gesù Cristo non rappresenta altro che l’eliminazione della distanza dei Gentili dai Giudei. San Paolo ha da dire molto su tutti gli steccati che si erigono.
È strano però che san Paolo non abbia conservato alcuna parola di Gesù relativa al mandato missionario, benché nella tradizione protocristiana ci siano molteplici attestazioni di questo genere.
Penna: L’inizio della coscienza missionaria della Chiesa è un problema complesso, perché innanzitutto c’è da chiedersi se mai il Gesù storico abbia enunciato un mandato missionario, mentre è molto chiaro il contrario: «Non andate se non alle pecore perdute della casa d’Israele», dice Gesù (cfr. Mt 10, 6 e 15, 24). E Gesù stesso, nella sua vita, è sempre rimasto entro i confini d’Israele, non ha mai fatto come Giona, che è andato a Ninive. Gesù non è andato né a Ninive, né ad Atene, né a Roma, né ad Alessandria d’Egitto che pure era vicina. Quindi c’è da spiegare come mai la Chiesa dopo la Pasqua, invece, si sia sentita investita dell’annuncio alle genti (non subito, bisogna dire, perché in Atti 10 Pietro si fa problema quando deve andare a battezzare il centurione Cornelio: questo non apparteneva alla coscienza apostolica primitiva, evidentemente). Non per nulla le parole che leggiamo alla fine del Vangelo di Matteo, «Andate in tutto il mondo, battezzate tutte le genti» (cfr. Mt 28, 19s), sono del Gesù risorto, non del Gesù terreno. C’è dunque l’ipotesi che siano parole redazionali, dell’evangelista o della sua Chiesa, una Chiesa giudeo-cristiana che ha conosciuto un travaglio per arrivare poi all’apertura della Chiesa antiochena, che in effetti aveva trovato questo varco. Paolo non poteva dunque citare parole del Gesù terreno circa la necessità della missione. Però, stando al capitolo 9 degli Atti, il primo racconto dell’incontro sulla strada di Damasco, Gesù gli dice: «Tu sarai mio testimone davanti ai re, davanti ai potenti della terra…». È una vocazione personale la sua, condivisa da Barnaba e da una serie di collaboratori che lo attorniano: Timoteo, Sila, Apollo, Tito e tutti quelli che menziona nel capitolo 16 della Lettera ai Romani, «quelli che hanno faticato nel Signore», che si sono dedicati all’evangelo, alla missionarietà. Ma, insomma, che vuol dire missionarietà? Vuol dire aver preso sul serio la fede nel Risorto, perché è il Risorto che ha rotto gli argini, è la Pasqua che ha rotto gli argini e ha fatto un… exploit, ha spinto…
Sembrerebbe quasi di capire, da quello che lei dice, che il mandato missionario non può essere, come dire, esteso in maniera generica, come un “ordine di servizio”, a tutta quanta la Chiesa, ma che è legato quasi a una vocazione personale e all’approfondimento di una coscienza personale…
Penna: È così. Chi più percepisce il valore dirompente della Pasqua più lo sente. Questo è. Paolo non racconta nulla del Gesù terreno, ma solo del Crocifisso risorto. La cristologia di Paolo è tutta centrata sull’evento pasquale, sulla doppia faccia dell’evento pasquale, la croce e la risurrezione, dove lui ha percepito questa cosa dirompente, dicevo, che va al di là dei confini d’Israele. D’altronde, è diventata poi tradizionale anche degli scritti giudeo-cristiani non paolini la coscienza che Gesù è venuto ad abolire i sacrifici. Se è venuto ad abolire i sacrifici, vuol dire che la sua identità va al di là delle liturgie templari, è qualcosa che sta al di fuori della categoria del sacro, è aperta al profano – usiamo questa categoria –; e il profano si trova dappertutto, profano è soprattutto ciò che è fuori di Israele come popolo santo (quello che “gli altri” non sono). Ma è proprio per quegli “altri” che Paolo ha percepito la destinazione dell’evento pasquale.
Qual è, in conclusione, la maggiore attualità della figura e del messaggio di Paolo che, secondo lei, questo Anno paolino deve riproporre?
Penna: Un messaggio di essenzialità, la riduzione del cristianesimo a ciò che è essenziale: l’adesione personale a Gesù Cristo. Nient’altro; e in questo “altro” metta tutto e tutti, dagli angeli compresi in giù. Lo spazio tra l’uomo e Dio è riempito da Cristo e da nessun altro. Perché essere in Cristo (del resto questo è linguaggio paolino: «Essere in Cristo», o «nel Signore») significa essere in Dio. Una riduzione all’essenzialità, dunque. Il che comporta sfrondare varie cose, almeno nel senso del giudizio di valore da dare. Dire Paolo vuol dire Gesù Cristo. Anche a livello ecclesiale, istituzionale. Certo, al tempo di Paolo la Chiesa era agilissima come istituzione anche perché non c’era il carico portato dai secoli successivi. Ma la cosa era molto leggera soprattutto perché l’identità ecclesiale del cristianesimo era intesa come un essere tutti fratelli (termine che ritorna 112 volte nel Corpus paolinum!), tutti sullo stesso piano. E magari chi è dedito al servizio sta sotto. Nella Prima Lettera ai Corinti Paolo dice: «Cosa è Apollo, cosa è Paolo, cosa è Cefa? Vostri ministri… Tutto è vostro: Paolo, Cefa, il mondo, la vita. Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (cfr. 1Cor 3, 5ss). Non c’è una linea che va dall’alto in basso, ma dal basso in alto. «Tutto è vostro»… Voi siete sopra i ministri, nel senso che i ministri fanno parte della comunità. Certo, la comunità cristiana non è un mollusco, è vertebrata, ma l’importante, nella Chiesa, non sono i ministri, sono i battezzati; e i ministri sono importanti nella misura in cui sono anche loro dei battezzati. Non vorrei essere frainteso. Che l’esistenza di ministri sia importantissima, per non dire essenziale, è un dato che Paolo conosce bene. Basta ricordare quando parla della Chiesa come un corpo strutturato (cfr. 1Cor 12, 12ss).
© Copyright 30Giorni, maggio 2008
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