29 ottobre 2008

"Perchè credo", conversazione di Vittorio Messori con Andrea Tornielli: ampio estratto


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SINODO DEI VESCOVI SULLA PAROLA DI DIO (5-26 OTTOBRE 2008): LO SPECIALE DEL BLOG

Con grande piacere e gratitudine pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Vittorio Messori e Andrea Tornielli "Perchè credo", Piemme, 20,00 €, 434 pagine.

«QUI STO, NON POSSO NIENT’ALTRO.»

La prima domanda, all’inizio del nostro percorso, è semplice
e al tempo stesso impegnativa. Com’è avvenuto il
tuo incontro con la fede, dopo una prima giovinezza del
tutto lontana dalla Chiesa?


Questo dialogo – che, come ben sai, ho stentato ad
accettare – rappresenta anche per me il tentativo di rispondere
per la prima volta, in pubblico, a questa domanda,
riflettendo su ciò che mi è accaduto nella Torino
estiva del 1964.
Per arrivarci, dovremo prenderla alla lontana. Per
esempio, ricordando che tempo fa ho voluto fare con
Rosanna un viaggio nei luoghi di Martin Lutero. Abbiamo
girato per il Brandeburgo e la Sassonia, abbiamo trascorso
un paio di giorni a Wittenberg, dove furono affisse
le famose “tesi” che, con sorpresa di quel maestro in
teologia – le cui opinioni non erano originali ma liberamente
proposte da altri, nella Chiesa: un caso come
quello del sistema copernicano divulgato da Galileo, esso
pure liberamente discusso – diedero fuoco alle polveri.
Come sai, le idee non si impongono sempre e comunque,
ma solo quando trovano i tempi favorevoli. A
Worms, in Renania-Palatinato ho visto il monumento,
di cui tante volte avevo letto nei libri, che ricorda la convocazione di Lutero davanti alla Dieta imperiale, nel
1521, quando l’imperatore in persona gli chiese di rinunciare
alle sue dottrine, visto l’uso che ne veniva fatto.
Lutero avrebbe risposto con una frase che è diventata
talmente proverbiale da essere incisa sul basamento della
statua che lo raffigura.
L’imperatore, infatti, disse al
tempestoso religioso: «O ritratti, oppure ne traiamo le
conseguenze e ti consegniamo all’Inquisizione». Il frate
agostiniano (lo era ancora) rispose, stando alla tradizione:
«Qui sto, non posso nient’altro», aggiungendo subito:
«Dio, aiutami. Amen». Naturalmente, fior di dotti
teutonici si sono accapigliati per stabilire le parole esatte:
ma sono curiosità che non intaccano la sostanza.
Ovviamente, mica prendo Martin Lutero ad esempio,
né nel bene né nel male: come avviene, in fondo,
per tutti i personaggi davvero grandi della storia, e non
soltanto quella religiosa, più cerco di approfondire
quell’uomo e più comprendo perché Gesù ci abbia imposto
di non giudicare e di lasciare a lui il verdetto finale.
Le idee si possono, si devono vagliare e, se necessario,
condannare. Non è affatto vero che tutte le
opinioni siano da rispettare, come vuole la vulgata del
benpensante attuale, che desidera sentirsi gratificato e
buono. Ci sono idee, e molte, che è doveroso contrastare,
magari combattere duramente.
Ma che ne sappiamo noi, nel profondo, delle persone
che quelle idee esprimono e incarnano? Sai che sono
convinto che l’ecumenismo, per essere autentico e (a
Dio piacendo) proficuo, ha bisogno di verità e non di rimozioni
buoniste, ovviamente tutte a favore dei “fratelli
separati”, mentre dai cattolici ci si aspetta sempre e
solo dei mea culpa. Lasciami constatare, allora, che sul
piano della verità oggettiva, l’opera di quel frate fu sicuramente
disastrosa: spezzò per sempre l’unità non solo
religiosa ma anche culturale dell’Occidente; e se
l’Europa non è più una patria sola, come ai tempi della
christianitas medievale, lo si deve anche a lui. Provocò
cataste di morti, devastazioni, crudeltà nelle guerre di
religione che, per l’orrore causato in quasi due secoli,
furono il seme che portò all’agnosticismo e all’ateismo
dell’Occidente; proclamando di voler riscoprire la “libertà”
del cristiano, in realtà lo sottomise ai Prìncipi divenuti
al contempo vescovi e papi, distruggendo la liberante
distinzione di Gesù tra Dio e Cesare; scegliendo la
rottura violenta indusse l’irrigidimento della Chiesa,
mentre sarebbe occorso continuare nella purificazione
lenta, già in atto nel profondo, favorendola con la più
potente arma cristiana. La quale è la riforma continua,
certo: ma quella che ciascuno comincia da se stesso, il
desiderio e la ricerca di santità personale. Niente è meno
cristiano del rivoluzionario politico, che vuol cambiare
tutto e tutti, tranne se stesso. Molte altre sciagure
ancora portò con sé quell’uomo che sposò una monaca
come estrema provocazione al papa.
Questi frutti, però, può constatarli, nei fatti, lo storico,
su un piano oggettivo; sul piano soggettivo il cristiano,
in quanto tale, lascia al Padreterno il giudizio sull’uomo.
L’Aldilà sarà, in tutti i sensi, un luogo (o una
“condizione”, se vuoi, essendo al di fuori dello spazio e
del tempo) di sorprese di ogni tipo. Anche riguardo alla
distribuzione degli ospiti nei vari settori…
Ma non siamo qui per parlare di Lutero.

Per l’appunto: mi stavo giusto chiedendo perché ti
viene in mente fra’ Martino
.

Dovrai rassegnarti alle mie divagazioni, che spero
non siano gratuite ma che, in ogni caso, mi sono necessarie quando seguo una traccia di pensiero. Dopo tanti
anni a studiare, a riflettere, a vagliare, le idee sono per
me anelli di una catena che deve essere srotolata per
cercare la verità, inquadrandola nel suo contesto e cercando
pure così di sfatare miti e ricordare fatti oggettivi,
anche se sgradevoli al “teologicamente corretto”.
Per tornare a fra’ Lutero: se mi viene in mente è perché,
pur nella mia ignavia, so che – se fossi messo alle
strette – dovrei confessare anch’io: «Qui sto, non posso
nient’altro». Accettandone tutte le conseguenze,
anche quelle estreme.
Voglio dire che io non ho scelto niente, non c’è in
me nessun merito (o nessuna colpa: per i miei maestri
universitari lo fu…) per quanto mi è accaduto. Dunque,
posso fare mie le parole attribuite a quel frate fatale.
E lo faccio naturalmente con umiltà, lontano da
ogni presunzione, anzi con timore e tremore. Sono ben
cosciente che la fede è un dono misterioso ma che è al
contempo una proposta che salvaguarda la libertà
umana. Eppure – almeno è la mia esperienza – possono
esserci delle eccezioni, dei casi in cui sei messo
con le spalle al muro. Potresti rifiutare, certo, però con
la stessa irragionevolezza di chi chiude non solo il
cuore ma anche gli occhi e respinge, ostinato, l’evidenza.
E portandoti dietro un insopportabile peso di
coscienza. È quanto mi è accaduto.
Ci ho riflettuto molte volte e, dunque, con sincerità
e semplicità devo confidarti che, se si ripetessero condizioni
come, nel secolo scorso, quella spagnola o russa
o cinese o messicana o cambogiana e se qualcuno mi
puntasse una pistola alla nuca, intimandomi: «Riconosci
che il Vangelo è solo un coacervo di miti orientali,
giudaici ed ellenistici, che non c’è nulla di vero, che è
solo una grande illusione, un’alienazione durata sin
troppo; o ammetti questo, oppure tiro il grilletto», ebbene,
sarei costretto a dire, senza esitare: «Spara pure.
Mi spiace per te che ti accolli un omicidio e regali un
martire in più ai tuoi nemici, ma quello che pretendi
proprio non posso concedertelo».
Dico questo, te lo ripeto, in modo sommesso e, magari,
con un po’ di spavento. Non ho né ho mai avuto
alcuna intenzione di ergermi come un busto in marmo,
ho in uggia spavaldi e sbruffoni e ho gran timore dei
fanatici, anche se tra i doni che ho ricevuto c’è, credo,
un certo coraggio intellettuale che mi ha fatto impegnare
– magari da solo, o quasi, anche perché talvolta
in anticipo – per le prospettive ritenute giuste. Ma, in
questo caso, non saprei proprio che farci: mi sparino
pure, peggio per loro, non riuscirò a ritrattare nulla di
quanto afferma il Credo. Hier stehe ich, ich kann nichts
anders, come sta scritto sul monumento della Lutherplatz
di Worms. Sto qui, non posso nient’altro. E che,
appunto, Dio mi aiuti, per quel tanto di tempo che mi
resta, a essere meno indegno di questa evidenza.

Va bene. Tu non ritratti non perché non vuoi ma perché
non puoi. Quello, dunque, spara. E poi, che succede?


Che domanda! È così ovvio… Si apre la breccia nel
muro, che è più sottile di quanto tanti credono, e mi
inoltro – seguendo le orme dei miliardi di fratelli e sorelle
in umanità che mi hanno preceduto e dei miliardi
che mi seguiranno, sino al termine della storia – mi
inoltro nel mondo e nella vita veri, di cui questi che conosciamo
non sono che un prologo e una preparazione.

Una prospettiva impensabile, stando a molti, oggi. Viviamo
infatti completamente assorbiti dall’al di qua…


Impensabile? Non ho mai capito perché dovrebbe esserlo.
Come si chiede Pascal in uno dei suoi appunti:
«Che cosa è più difficile? Il nascere o il rinascere?».
Guarda che un passaggio simile, umanamente ancora
più improbabile, l’abbiamo già fatto “venendo alla luce”
– espressione significativa – dal buio di un ventre
femminile, dal chiuso di un sacco amniotico, dal legame
con un cordone ombelicale. Se già alla nascita abbiamo
fatto una “pasqua”(“passaggio”, appunto, in ebraico),
che c’è di strano nel credere che lo faremo anche alla
morte? Se il feto ancora dentro la pancia della madre potesse
capirci, potrebbe credere a ciò che gli descriviamo
di quel che c’è fuori? E invece, c’è proprio tutto ciò che
stiamo vedendo entrambi, guardandoci attorno. Cos’è,
razionalmente, più improbabile: la vita o la continuazione
della vita? Perché non stupirsi del parto e dubitare, al
contempo, della possibilità di andare verso un’altra nascita,
verso una luce che non conoscerà tramonto?
Guarda che siamo in numerosa compagnia: se l’archeologia
è, in gran parte, studio di tombe, è perché ogni
cultura, di ogni luogo e tempo, ha creduto nella sopravvivenza
dei defunti. Prima ancora che alle case dei vivi,
sempre si è pensato alle dimore per i morti: perché farlo,
se non erano ormai che carne destinata alla putrefazione?
C’è una “democrazia” su cui riflettere anche nella
storia: se la stragrande maggioranza dell’umanità (anzi,
probabilmente la totalità) ha sempre creduto che la morte
fisica non fosse la fine di tutto, non avrà forse seguìto
un istinto che le derivava da una realtà? Tutti concordano
sul fatto che ci sono delle convinzioni inestirpabili e
universali (il fatto, ad esempio, che il furto, l’omicidio, la
menzogna, il tradimento, sempre e ovunque, siano considerati
condannabili), convinzioni, dunque, che rinviano
a “verità naturali”, depositate dentro a ciascuno e non
create da consuetudini e tradizioni. È il caso pure della
convinzione universale in una sopravvivenza al di là della
morte, anche se concepita in modi diversi.
Quel che vediamo è solo la vita terrena e poi la sua fine,
mentre non scorgiamo – con gli occhi della carne –
coloro “che sono andati avanti”. Ma anche questo, che
significa? Prima del microscopio, come immaginare che
dappertutto vi sono un movimento e un brulichio incredibili,
anche se invisibili a occhio nudo? E prima del
telescopio, chi se li immaginava i milioni, forse i miliardi
di galassie che ruotano nello spazio infinito? Ciò che
fa girare il mondo moderno, che letteralmente lo mantiene
in vita, è l’energia elettrica che nessuno ha mai visto
e che per una serie lunghissima di secoli nessuno ha
mai neppure immaginato. In questo momento, ovunque
ci spostiamo, siamo attraversati letteralmente da
milioni di parole, di immagini, di segnali provenienti da
stazioni radio e televisive, da telefoni mobili, da telecomandi.
Tutto un mondo che è il nostro, ma che però,
senza appositi ricevitori, nessuno ha visto né vedrà mai.
E non erano considerati visionari o francamente matti
coloro che dicevano che, al di là delle Colonne d’Ercole,
alla fine del “Gran Mare Atlantico” non c’era la cascata
dell’acqua da una terra piatta nel cosmo, ma c’erano terre
immense, abitate da genti a noi del tutto sconosciute?

E com’è quel mondo al di là della Porta?

La Chiesa ha sempre affermato senza esitazione che
quel mondo “c’è”, ma non ha mai preteso di spiegarci
“com’è”. Ciò che importa sapere è che vale la pena di
fare tutto ciò che possiamo per giungere allo stato di
gioia – infinita, eterna – che lì, se lo vogliamo, ci è donata.
E che, al contempo, dobbiamo essere consapevoli
che vale la pena di fare tutto ciò che possiamo per schivare
uno stato possibile di sofferenza altrettanto infinita
ed eterna. Paradiso, inferno e anche purgatorio – lasciali
dire certi nouveaux théologiens, tanto nuovi da scoprire
mezzo millennio dopo le tesi della Riforma – insomma,
i tre “stati” dell’Aldilà esistono, ne sappiamo
ragioni e funzioni nel piano che il Cristo ci ha rivelato,
ma non siamo in grado di descriverli. Dante è ammirevole
come poeta sommo e come grande credente, non
come topografo di Cielo e Inferi. Ciò che conta è che
continuiamo a desiderare la gioia infinita promessaci
dal Vangelo e a temere la sofferenza eterna, comportandoci
di conseguenza. Il resto è secondario. La Grande
Speranza non resterà delusa: questo è ciò che conta.
Tra l’altro mi fai venire in mente che, una notte ormai
molto lontana, da quei luoghi misteriosi eppure
così reali ho ricevuto, la telefonata di uno zio. Mi ha
rassicurato sulla sua sorte, ma non me li ha descritti.

Scusa, ho capito bene? Stai parlando davvero di una
telefonata dall’Aldilà? Ci mancava solo il Messori “medium”…


Me ne rendo ben conto, comincio male. Lo so che
adesso ti verrà il sospetto di avere sbagliato tutto, di
stare perdendo il tuo tempo con un visionario e non di
parlare con il collega che in libri e articoli ti era sembrato
lucido, informato. Diciamo, almeno, “normale”.
Lo so ma, qui pure, che posso farci?
Erano gli anni del liceo, a Torino, ero ancora lontano
dalla svolta che mi avrebbe “costretto”alla fede. I
genitori e il fratello, ancora bambino, erano andati a
Sassuolo, da dove veniamo, per il primo anniversario
della morte di Aldo, lo zio materno morto giovane per
un ictus cerebrale. Ero solo in casa, era notte, dormivo
del sonno pesante di quel giovanotto in salute che
ero, quando fui svegliato dal telefono. Ripresomi a fatica,
ebbi però modo di svegliarmi del tutto con una
piccola passeggiata, visto che l’apparecchio era all’altro
capo dell’appartamento. Sai com’era una volta, la
scatola nera appesa al muro, all’entrata… Alzai la cornetta:
un gran caos di disturbi elettrici, di fischi, di raschi,
i disturbi che c’erano allora sulle linee quando la
chiamata era interurbana e veniva da molto lontano.
Dopo qualche mio «Pronto! Pronto!» mi arrivò – chiarissima,
inconfondibile – la voce, che ben conoscevo,
di mio zio. Mi disse, affannato, parole che ancora
adesso ricordo come se le avessi udite ieri: «Vittorio,
Vittorio! Sono Aldo! Sto bene! Sto bene!». Subito dopo,
il rumore che annunciava la caduta della linea, la
fine del collegamento. Guardai l’ora. Come mi confermarono
poi i miei genitori, al loro ritorno, era quella
– esatta al minuto – della morte dello zio, giusto un
anno prima.
Ho esaminato ogni altra possibilità e ho finito con
l’arrendermi all’evidenza, non essendo come gli ideologi,
gli atei in primis, che fanno prevalere sui fatti il loro
schema aprioristico: era proprio zio Aldo, sua era la
voce, non reggono ipotesi di scherzi macabri, equivoci,
allucinazioni. Né mi è possibile pensare a un sogno, visto
che ero ben sveglio sia durante sia dopo la telefonata:
in effetti, quella notte non tornai più tra le coltri e
attesi in piedi l’alba.

Eri ancora lontano dalla fede. Ma un episodio simile,
indubbiamente impressionante, non bastò per provocarti
delle domande, per risvegliare in te interesse, o almeno
curiosità, per la dimensione religiosa?


No, non bastò. Passata la sorpresa, rimossi presto il
ricordo di quella notte, mettendo l’episodio tra le singolarità
inspiegabili in cui a tutti può capitare di imbattersi.
Come ricordi, Gesù stesso ci avverte, nella parabola
del povero Lazzaro, quando il ricco, ormai morto,
chiede ad Abramo di poter avvertire i cinque fratelli
perché non finiscano essi pure all’inferno. Ed Abramo:
«Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non sarebbero persuasi
neanche se qualcuno risuscitasse dai morti».
C’è un mistero di accecamento di cui io stesso ho
fatto esperienza. E ciò valga anche per quelli che si lagnano
del “silenzio di Dio”. Spesso non è Lui che è
muto, siamo noi che siamo sordi. È vero (ne parleremo
più avanti, come merita) che, per rispettare la libertà
delle creature, il Creatore ha scelto di praticare la
“strategia del chiaroscuro”. Ma – lo dice la parola
stessa – accanto al buio c’è anche la luce: ed è proprio
questa che spesso ci si ostina a non vedere.

Hai avuto altre esperienze di questo tipo?

Non personalmente. Ma, molti anni dopo, andai nel
Voralberg, nell’Austria occidentale, in un paesino di
montagna, per incontrare nel suo misero chalet Maria
Simma. Era un’umile contadina, consacratasi come
eremita alla Madonna perché, malaticcia, era stata respinta
dai monasteri di clausura dove desiderava entrare;
era una vecchina che sopravviveva lavorando il
suo orto (non accettava alcuna offerta) e che aveva il
carisma di parlare con i trapassati. Dopo molte ostilità
e diffidenze – com’è logico e anche giusto – alla fine il
suo vescovo si era arreso e aveva dovuto riconoscere
l’enigma di quella montanara apparentemente insignificante
e scelta invece per una missione sconcertante.
In effetti, erano innumerevoli i casi in cui trapassati a
lei sconosciuti, che le si presentavano, rivelavano particolari
che facevano impallidire i parenti quando ne
erano informati (spesso i morti fornivano l’indirizzo
cui rivolgersi) visto che solo gli intimi potevano conoscere
quelle vicende. Scopo di quei contatti era ottenere
penitenze e suffragi per uscire dal purgatorio o
lanciare avvertimenti ai loro cari superstiti perché cambiassero
vita. Non a caso, il suo parroco raccolse le testimonianze
di questa Maria Simma e le pubblicò in un
libro che divenne un best-seller internazionale, dandogli
un titolo significativo: «Fateci uscire da qui!».
In una vita intera di ricerca e di incontri, ho avuto
tempo e modo per imbattermi in diversi casi simili.

Altri casi di compenetrazione tra il mondo dei vivi e
quello dei morti? Siamo su un terreno davvero minato,
spero tu te ne renda conto. Comunque non posso non
chiederti, per curiosità, di fare qualche altro esempio
.

Quando facevo il cronista, il caso più impressionante
su cui mi fu dato di indagare fu quello di un facoltoso
professionista torinese che, ammalatosi e bisognoso
di assistenza notturna, si rivolse per telefono a
un istituto di suore per un’infermiera. Sai, allora non
c’erano le badanti romene o moldave, c’erano però ancora
molte suore, dedicate proprio a questo servizio
prezioso. La sera dopo si presentò una religiosa nel suo
abito austero e da allora, ogni notte, venne puntualmente
a vegliare al capezzale dell’uomo. Quando guarì
e fu in grado di uscire, quel signore decise per prima
cosa di andare con la moglie all’istituto della religiosa
per salutarla e ringraziarla ancora dell’assistenza. In
portineria si stupirono quando disse il nome della
suora perché la chiamassero: risposero che una di loro
aveva portato quel nome, che per tutta la vita aveva assistito
i malati e che aveva lasciato un ricordo esemplare.
Ma aggiunsero che era morta ormai da molti
anni. Poiché i coniugi non sapevano capacitarsi, li condussero
nel piccolo cimitero al fondo del giardino del
convento e mostrarono loro la tomba, con la foto della
defunta sotto la croce: ne seguì, ovviamente, un rischio
di malore per la coppia, visto che entrambi la riconobbero
senza esitazione. Era proprio lei.
Ebbi notizia di questa vicenda attraverso il passaparola
(il buon cronista, come sai, ha le orecchie tese…).
Sulle prime pensai a una sorta di leggenda metropolitana,
ma alla fine mi decisi e andai a conoscere quei coniugi.
Mi confermarono tutto, senza esitazione, eppure
con pudore, temendo – stimati borghesi com’erano –
di essere scambiati per allucinati. In effetti, mi accolsero
con cortesia, mi raccontarono, concordi, com’era
andata ma con altrettanta concordia, malgrado le mie
insistenze, non mi permisero di parlarne sul giornale.
Volli completare, approfittando delle mie conoscenze
nel giro religioso per ottenere dalle religiose di mostrarmi
quella sepoltura. Vi sostai, ovviamente, con
emozione: ma, a quel tempo, la scoperta della fede era
già avvenuta.
Se non potei scriverne allora, lo faccio adesso perché,
vista l’età, credo che quei due siano già andati da
tempo a salutare e ringraziare quella misteriosa infermiera
notturna. Dai cenni che mi fecero, mi parve di
capire il perché di quelle visite: con pazienza, con amabilità,
con l’esempio, la suora giunta dall’Aldilà li aveva
riavvicinati alla fede, li aveva indotti addirittura a riscoprire
i sacramenti. Insomma, le era stato concesso un
prolungamento dell’apostolato che aveva esercitato in
vita.
Vedi, in casi come questi si dimostra come il vero libero
pensatore sia il credente. Questo constata i fatti e,
se sono oggettivi e provati, li accetta, anche se vanno al
di là degli schemi razionalisti e dell’esperienza comune.
Il non credente, invece, è prigioniero del suo schema
ideologico: se i fatti non vi rientrano, tanto peggio per i
fatti, una spiegazione “naturale” bisogna assolutamente
cercarla, altrimenti va in crisi il pre-giudizio. E, se non
adesso, la spiegazione la si troverà in futuro.

Siamo, dunque, immersi nel mistero.

Sì, stiamo però attenti agli alibi. Non prendiamo
troppo sul serio quelli che dicono, sospirando e mostrando
– o fingendo? – un’edificante invidia: «Eh, per
te è facile! Puoi parlare così perché hai la fede». La fede
propone la sua spiegazione come risposta all’enigma
che ci circonda da ogni parte, ma per riconoscere che ci
siamo dentro – e che ci saremo sempre – non occorrono
ispirazioni, rivelazioni, meditazioni, illuminazioni mistiche.
Basta il senso comune, è sufficiente la constatazione
realistica che ciascuno può fare.
Qualche volta, guardando la croce, che punta verso
ogni punto cardinale, ho pensato che, quei due bracci,
con le loro quattro estremità sembrano indicare il mi-

IL TACCUINO DEL LIBERTINO

Proprio in quegli anni da telefonista notturno avvenne
la tua privata “rivoluzione”. Ti rileggo quanto hai scritto
ne Il mistero di Torino, rievocando quel tempo: «È
in quella vita non infelice che si verificò una frattura.
Una svolta che avvertii come irreversibile. Una “conversione”,
per usare un termine impegnativo e gravido
di responsabilità. Non starò a raccontare il come: secretum
meum, mihi. Avvenne poco più di un anno prima
della discussione della tesi di laurea e, con essa, dell’abbandono
della Stipel». Come hai sempre fatto
finora, anche in questo caso ti sei limitato a un cenno,
hai rivendicato il diritto alla riservatezza. Vogliamo, finalmente,
parlarne? Vuoi, finalmente, raccontare nei
dettagli quell’esperienza? Che cosa ha provocato il cambiamento?
Che cosa ti ha trasformato nel Messori che
conosciamo?


Quel luglio e quell’agosto del 1964 che, se non sbaglio,
è proprio l’anno in cui tu nascevi. Quei due mesi
di estate profonda, quei tempi ormai remoti. Eppure,
da allora, sempre presenti, giorno dopo giorno. Presenti
negli sforzi per tentare di essere coerente con
quella Luce esplosa all’improvviso; e presenti anche
nelle sbandate, nelle cadute, nei tradimenti. Presenti
come un incitamento o come un monito inquietante,
come fonte di gioia o di rimorso. In ogni caso, una
forza della quale mai si è affievolito, almeno a livello di
convinzione, il pungolo e che ha creato un prima e un
dopo al quale, anche se avessi voluto, non ho più potuto
sfuggire. Tutto questo è legato, nel ricordo indelebile,
a una Torino semivuota sotto la cappa estiva, alla
luce implacabile di un sole senza nubi, alle tenebre del
lavoro in notti torride, alla solitudine umana e, al contempo,
alla compagnia straripante di un Incontro misterioso.
Un incontro – e uno scontro – con il Protagonista
del Vangelo che mi sembrò uscire dalle pagine
per divenire presente. Nel senso fisico, vero: tanto
reale era la certezza di quella Presenza.
Da carta che era, per me il Verbo si fece davvero
carne, dandomi gioia e inquietudine, esultanza e timore,
soddisfazione per il dovere compiuto e rimorso
per le infedeltà. Ciò che posso testimoniare è almeno
questo: ho provato su me stesso che la fede, per
il cristiano, è imbattersi in una Persona al contempo
misericordiosa e severa, umana e divina, subendo la
necessità incoercibile di seguirLa e di obbedirLe. In
una mescolanza di slancio e di affetto; ma anche di reverente
soggezione, non esente da un enigmatico spavento.
Non a caso, le prime pagine generate da quell’esperienza
– anche se ci misi dodici anni per ruminarle, per
decidermi a pubblicarle, pur vedendone la radicale insufficienza:
ma quale discorso umano non lo è, qui? –
quelle pagine, dunque, vanno dritte al Protagonista,
senza mediazioni, in un corpo a corpo con il Gesù
della storia per mostrare che coincide con il Cristo
della fede. “Ipotesi” per la ragione, in quel libro: ma,
sullo sfondo, una certezza incancellabile, nata da un incontro
nella solitudine di un’estate metropolitana.

In sostanza, potresti dirmi di che cosa si è trattato,
com’è avvenuto questo «incontro nella solitudine di
un’estate metropolitana»?


Credo che sia bene azzardare subito una sintesi un
po’ selvaggia, visto che, nel discorrerne, divagheremo.
Per mia colpa, s’intende. Ma credo sia ben comprensibile
che quell’evento mi susciti una folla di sensazioni e
di riflessioni. Non dimenticare che ho avuto una vita
intera per pensarci! Ti avverto, dunque: invece di un
racconto compatto, ne avrai uno dove il tentativo di
descrivere “quei” giorni sarà contrassegnato da affondi
in ogni direzione. La vita è complessa (et-et…), non
sopporta schemi, ogni evento o pensiero ne trascina altri
con sé. E la fede, non essendo un astratto sistema
ideologico, bensì vita piena, ne rispetta – e al contempo
ne supera – le leggi.
Comunque, se dovessi sforzarmi di fare il cronista di
me stesso, in poche righe, questo fu ciò che avvenne. E
lo dico in una sintesi che riprende, in parte, quanto già
ho accennato.
C’era una volta, dunque, questo giovane di poco più
di 23 anni, studente nella Torino che, in pieno boom
economico e demografico, superava di slancio il milione
di abitanti e aveva nella Fiat la maggiore fabbrica
d’Europa. Un giovane agnostico per cultura e anticlericale
per tradizione familiare, laureando non con docenti
“qualunque”, bensì con i venerati maestri della
scuola più prestigiosa del laicismo puro e duro. E, quei
maestri, quello studente se lo coccolavano, vedendo in
lui un discepolo su cui investire le loro cure intellettuali.
C’era, dunque, un intellettuale in formazione
nella città-laboratorio che è stata decisiva per l’Italia:
senza di questa, dice Umberto Eco, Torino sarebbe più
o meno la stessa; mentre, senza Torino, l’Italia sarebbe
molto diversa. A quella città enigmatica davvero – al di
là dei folklori esoterici – ho dedicato quel grosso libro
che conosci, riuscendo solo ad aggirarmi attorno al suo
mistero.

Torino è stata importante per la tua avventura. Come
dici nel libro, più che una città fu per te un destino
.

Se mi attardo un poco sullo sfondo urbano di
quanto mi capitò, è per confermarti che non fu quello
di una provincia chiusa, legata alle tradizioni, dove la
scelta della “via cattolica” costituisse uno sbocco naturale,
una scelta conformista. Non era così neppure allora,
anche e soprattutto per la Torino ufficiale, per
quella dell’establishment economico e culturale, del
quale mi preparavo a far parte dopo l’università, un
giorno o l’altro.
Nonostante l’attivismo e gli exploit del suo mondo
cattolico, nonostante i suoi santi e le loro opere
sociali, il cattolicesimo torinese è socialmente e culturalmente
marginale sin da prima che le sue masse
operaie passassero al socialismo (seppure non tutte,
come vorrebbe la propaganda guauchiste) e i borghesi
al liberalismo agnostico, direi crociano più che
gobettiano. Non a caso il filosofo napoletano considerava
Torino la sua seconda patria, vi veniva più che
poteva, passava le vacanze estive nelle sue valli e, tanto
per averla in casa anche sotto il Vesuvio, sposò
una signorina torinese che conobbe perché scriveva
una tesi di laurea sul suo pensiero. Dopo essere stato
egemone con gli antichi Savoia – con accenti niente
affatto giansenisti o calvinisti, come credono gli
meno della religione che prometteva il paradiso in
Cielo per passare a un’altra che lo prometteva in Terra.
Conoscevo già la storia abbastanza per sapere che l’impegno
per un Eden utopico porta sempre a un concreto
inferno. Del resto, i miei maestri universitari consideravano
i comunisti al massimo come compagni di
strada ai quali guardare con l’aria di sufficienza cui
Croce guardava a ogni credente in una religione, antica
o nuova, che non fosse quella della Libertà. Ero un
ventitreenne che non si tormentava di certo per la ricerca
di una Verità con la maiuscola, nella cui esistenza
non credeva e che, anzi, temeva come fonte di ogni fanatismo
e totalitarismo; ero un realista estraneo a ogni
tentazione spiritualeggiante; un individualista scettico,
indisponibile alla sequela tanto di guide politiche (dux
in latino, Führer in tedesco, caudillo o líder máximo in
spagnolo, conducatòr in romeno…) quanto di santoni
religiosi.

Eppure proprio questo ventitreenne laico a un certo
punto incontra la fede.


Questo giovane – in modo del tutto imprevisto e
nemmeno cercato – è come abbagliato da una luce che
lo spinge irresistibilmente a varcare una soglia, al di là
della quale c’è un mondo “altro”. Un mondo dove l’invisibile
si fa visibile, e sul quale regna Colui che è adorato
come Salvatore e Rivelatore da quei cristiani, da
quei cattolici verso i quali quel giovanotto nutriva sino
ad allora estraneità e diffidenza. Nel caso più benevolo,
curiosità, come superstiti credenti in un complesso di
miti anacronistici.
È deludente – eppure inevitabile, data la natura di
simili eventi – che proprio a me, il cui mestiere sono le
parole, le parole manchino per esprimere ciò in cui mi
trovai immerso, per dare almeno il sentore di un clima
di cui percepisco ancora tutto il sapore. Consolante e
al contempo, te lo dicevo, inquietante.
Con tutta l’esitazione e l’umiltà doverose, potrei applicare
a quei giorni le parole di Matteo alla morte in
croce di Gesù e che dicono, in metafora, i frutti della
redenzione e della rivelazione: «Ed ecco, il velo del
tempio si squarciò in due, da cima a fondo». Uno
squarcio, attraverso il quale fui sospinto a entrare nel
“tempio”, cioè in un mondo sotto il segno del Sacro
che credevo antitetico al mio ma che presto, pur in
mezzo allo sconcerto, scoprii familiare e ospitale. Non
un mondo artificioso, non un castello ideologico, non
un sistema socio-politico-culturale, bensì un ambiente
“naturale”, dunque rispondente a tutto ciò che è nelle
profondità dell’umano.
Ma se – a mio rischio e pericolo – volessi continuare
con la citazione del primo evangelista, potrei aggiungere:
«La terra si scosse, le rocce si spezzarono». Un
terremoto, seguito da una sorta di tsunami investì la
mia vita: silenziosamente, interiormente, senza che alcuno,
al di fuori di me, se ne avvedesse. Le rocce che si
spezzarono furono i miei schemi, le mie ideologie, le
mie abitudini di pensiero e di vita, che fecero ben più
che incrinarsi: di colpo, caddero a pezzi.
Conclude Matteo: «I sepolcri si aprirono e molti
corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri,
dopo la sua resurrezione, entrarono nella città
santa e apparvero a molti». Apparvero, in qualche
modo, anche a me: mi raggiunse, attraverso la Scrittura,
la voce dei profeti, mi si spalancò l’esempio dei
santi, mi invitò a far parte della famiglia – vasta come il
mondo, anzi come l’Universo intero – la schiera innumerevole
dei figli della Chiesa militante e di quella già
trionfante o ancora purgante.

Quali furono, in concreto, le conseguenze immediate,
le tue reazioni?


Per chi mi avesse osservato dall’esterno, nulla cambiò.
Continuò il buio del lavoro notturno alla centrale
telefonica, seppure illuminato dalla Luce che si era accesa;
continuò la solitudine che contrassegnava la mia
vita, ma era ormai solo apparente, riempita dalla nuova
Presenza; continuò l’afa di quell’estate interminabile,
ma spazzata via, per me, dall’imprevisto e improvviso
refrigerio. Proprio io, così allergico al romanticismo
delle favole, io che amavo affrontare il sapore aspro
della realtà, mi trovai immerso in un’atmosfera che, per
mancanza di termini migliori, dovrei dire incantata,
magica, in ogni caso del tutto sconosciuta rispetto a ciò
che conoscevo. Quell’atmosfera non mi trasportò però
tra le nuvole, ma si accompagnò a una lucida concretezza
e a una volontà ferrea. Capii con grande chiarezza
che cosa dovevo fare nell’immediato e lo feci, subito,
con un’energia che non mi conoscevo e che
dunque – dovetti riconoscerlo, ancora una volta – non
poteva essere soltanto mia.
Ci fu, insomma, una di quelle compositio oppositorum,
di unione degli opposti che – lo imparai poi –
contrassegnano la fede, a ogni livello. In questo caso,
l’immersione in una dimensione “mistica”, “soprannaturale”
(se mi è permessa tale parola, ma non saprei
trovarne un’altra), convisse con una grande energia,
con forze moltiplicate anche per agire nella vita quotidiana. Insomma, mi sentivo “tra le nuvole” e al contempo
con i piedi saldamente per terra. Verificai, qui
pure, la verità della parola di Gesù: «Ecco, io faccio
nuove tutte le cose».
Mi imposi, tra l’altro, un orario inflessibile – di lavoro,
di studio, di preghiera, di impegni – che stabilivo
settimana per settimana e al quale restai fedele, non
sgarrando di un minuto, sino a quella che era divenuta
la necessità principale: terminare al più presto l’università.
Ormai, rimossi di colpo i miei progetti sul futuro,
non sapevo affatto che avrei dovuto fare, dopo. Però
ero certo che, qualunque fosse la strada, mi erano state
consegnate una bussola e le istruzioni generali per il
viaggio nel tempo verso l’eternità. Prima di intraprendere
quel viaggio, bisognava chiudere con studi che
erano stati il mio nutrimento sino ad allora e che di
colpo mi apparivano non da rimuovere, ma da completare
con ben altri.

Dunque, quella fede che sino ad allora non aveva occupato
alcun posto nella tua prospettiva, divenne il cuore
della tua vita
.

Sì ma, almeno in quei primissimi momenti, non
come problema intellettuale – tentazione costante della
mia formazione, o deformazione – bensì come esperienza
vitale. Constatai la forza di quella irruzione di
grazia anche in questo strapparmi dai miei schemi libreschi.
Per dirla con Pascal: «Il cuore ha le sue ragioni,
che la ragione non conosce». Nei mesi iniziali
sentii invece che capire, constatai invece che razionalizzare.
L’evidenza della verità del Vangelo, in quei primissimi
tempi, fu davvero del cuore più che della
mente; la quale, peraltro, non protestava, intuendo che
ragione e sentimento coincidevano con la realtà.
Mai più ho ritrovato – ma quei pochi mesi mi sono
bastati per sempre – quel clima incantato, trasognato,
quasi onirico. Mi sentivo in una sorta di territorio
franco, dove non vigeva più quanto era valso sino ad
allora, ma dove tutto era nuovo, fresco, sorprendente,
consolante e al contempo ammonitorio, inquietante.
Mi fu dato quello che gli autori di spiritualità chiamano
“il dono dello stupore”. Duemila anni dopo, si
ripeteva per me la sorpresa del kérygma, del primo annuncio,
del discorso delle beatitudini sulle rive verdi
del lago di Tiberiade. A molti, a troppi, dopo venti secoli,
quell’annuncio appare logoro, scontato, troppe
volte sentito e ormai irrilevante. Io, invece, l’ascoltavo
in quei giorni per la prima volta, con orecchie tutte interiori,
e mi risuonava nel profondo come novità inaudita
e confortante.
Ero abituato a guardare a quella vecchia “cosa”
chiamata Chiesa come a una bottega o a un’accolita di
retrogradi mentali e culturali o di ipocriti, di avidi, di
trafficoni magari anche un po’ sporcaccioni, secondo
l’anticlericalismo di famiglia; o come a un’istituzione
antagonista dello Stato, da temere, dunque da sorvegliare
e da tenere al suo posto, secondo il laicismo e la
deformazione politica dei miei maestri. E invece, di
colpo, caddero sia i pregiudizi sia i ricordi di scandali e
orrori, pur veri (non sempre, lo sai bene, l’istituzione
ecclesiale è stata esemplare ed edificante) e la Chiesa
mi apparve nella sua realtà vera, che sino ad allora mi
era stata celata, scorgendone solo l’involucro e non il
tesoro che celava. Dunque, scorsi la Mater et Magistra
che è, nella sua essenza; compresi il suo ruolo di annunciatrice
del Vangelo, di amministratrice dei sacramenti, di strumento per condurre chi ne accetti la
guida alla vita celeste attraverso le prove, le insidie, i
pericoli della vita terrena.
Anche qui, il “velo si squarciò” e, attraverso lo
squarcio in quel velo che è la pur necessaria sovrastruttura
umana, vidi la Chiesa santa, strumento – anzi, addirittura
corpo – del Cristo, che ogni giorno, sulla terra
intera, rende vivo nell’eucaristia. Mi scopersi cristiano
e, al contempo, naturaliter catholicus. Su questo dovremo
ritornare. Se lo segnalo subito è perché, in quei
tempi di una contestazione acre, spesso furibonda, già
era singolare una “conversione”. Ma era inaudita, addirittura,
l’evidenza di verità che mi fu data su una
Chiesa tanto aggredita dai suoi figli stessi e che, tra l’altro,
non era entrata per nulla in quanto mi stava avvenendo.
A viste umane, s’intende: chi può dire in quali
modi nascosti e misteriosi la preghiera dei vivi e l’intercessione
dei defunti agisce su di noi? La “comunione
dei santi” è tra le verità più consolanti della fede cattolica.
Forse, in quel Giorno – e in quello soltanto – scoprirò
a quali preghiere, sacrifici, intercessioni devo
quanto mi è stato donato.

Perché finora hai mostrato tanta riluttanza a parlarne?

In effetti, dopo tanti inviti a raccontare, è la prima
volta che mi decido a uscire dal generico in cui sinora
mi sono racchiuso, alludendo più che spiegando,
quando proprio ero costretto a farlo. Se finora mi sono
difeso c’è qualche ragione.
Innanzitutto, è ben difficile, anzi è impossibile, “raccontare”
un enigma: come ti dicevo poco fa, maneggiare le parole è il mio mestiere, ma possono esserci
momenti per descrivere i quali le espressioni non si trovano
perché, forse, non esistono. È come chiedere a un
pittore di riprodurre un colore che ha intravisto in un
sogno, magari in una visione sotto effetto di droga, e
che non c’è in natura. Sento ancora le emozioni, direi il
gusto inconfondibile di quei mesi, ma non trovo modi
per esprimerli in modo adeguato. Anche se ciò che
conta sono gli effetti, e io li avverto ancora, di quelle
sensazioni.
Ma poi, vedi: capisco assai bene André Frossard, il
celebre giornalista e scrittore divenuto Accademico di
Francia, che soltanto verso la sessantina si è deciso a
scrivere il suo Dieu existe, je l’ai rencontré. Non aveva
che vent’anni quando gli capitò di entrare “per caso”
in una cappella di Parigi mentre era in corso l’adorazione
eucaristica delle monache di clausura e di essere
trascinato per pochi minuti – ma bastarono per sempre
– oltre lo schermo che impedisce ai vivi di vedere
il mondo luminoso che sta al di là della barriera.
Un’esperienza tale da obbligarlo a diventare non solo
cristiano ma anche cattolico integrale, un “papista”, un
“ultramontano”, come dicevano un tempo in Francia,
e da rendergli di colpo incomprensibile l’ateismo che
aveva professato sino ad allora. Proprio lui, il figlio di
quel celebre deputato Ludovic Oscar che non fu mai
battezzato, che nacque da madre ebrea ed ebbe moglie
protestante, che fu fondatore e primo segretario generale
di quel Partito comunista francese che proclamava
l’ateismo e il materialismo dialettico sin dal primo articolo
dello statuto.
Per decenni, sulla spinta di quell’evento misterioso
ma dalla forza implacabile, André Frossard, ha vissuto
da cattolico, ma en privé, senza esibizioni, con poche
frequentazioni clericali, lavorando sempre in grandi
giornali laici e pubblicando molti libri, su temi non religiosi
bensì sociali, storici, politici, presso editori non
confessionali. Si è deciso a raccontare la sua fede e che
cosa ci fosse all’origine soltanto quando, come mi disse
egli stesso, «ebbe un passato». Perché, aggiungeva,
«prima di dimostrare che Dio esiste, dovevo mostrare
che anche chi afferma la fede in Lui esiste, nel senso di
essere una persona equilibrata, sensata, realista, nonché
capace nel suo lavoro». Aveva, insomma, il problema
di palesare di essere un credente credibile, di
non essere scambiato per un visionario, un illuminé,
come dicono in francese, un allucinato, diremmo noi.
Una testimonianza come la sua, inconcepibile a viste
solo umane – «Dio è un evidenza, è un fatto, una realtà
inoppugnabile e io L’ho incontrato» – aveva bisogno,
per non essere respinta a priori, di un testimone che,
con una vita di riuscite professionali alle spalle, mostrasse
di non essere da ricovero in una clinica per alienati.
Ecco perché ripeteva: «Per decenni ho scritto e
ho parlato di tutto, ma ben poco ho detto proprio di
religione. Per affermare che Dio c’è, dovevo prima affermare
me stesso». Va pur detto che ha dato buoni
frutti quella paziente tenacia per costruirsi un pulpito
dal quale parlare dell’Ineffabile per eccellenza senza
essere accolto da uno scuotere di testa e di spalle. In effetti,
come accennavo, Frossard morì tra gli Immortels,
come chiamano i 40 membri di un’Académie française
sempre avara di fauteuils, di poltrone, per i cattolici.
Per una volta, il severo consesso ne accolse uno cui
non bastava credere in Dio ma che affermava di averlo
addirittura “incontrato”…
Qualcosa del genere, in fondo, è capitato a me. Non
quanto ad accademie, s’intende, che da noi non ci sono

Torniamo all’irruzione nella tua vita di quella che
hai chiamato “la nausea”, avvertita dopo la bocciatura
all’esame
.

All’inizio di tutto scopersi, ti dicevo, che l’angoscia
esistenziale esisteva davvero, che non era solo letteratura.
Ciò che non riemerge dalla memoria è altro: come
avvenne che – invece di rassegnarmi all’assurdo,
come l’Antoine Roquentin del conte philosophique di
Sartre – come avvenne che presi in mano il Vangelo?
Sai, succede a tutti, prima o poi, di volere mettere ordine
nella propria vita, di decidere di fare un bilancio,
di programmare un cambiamento. È quello che, vagamente,
mi ero proposto in quei giorni, obbligato dall’impasse
in cui mi trovavo a causa dello scacco scolastico.
Ma ciò che proprio non mettevo in conto era un
sbocco “evangelico”. Soprattutto, come prevedere
che la mia volontà, la sola su cui ovviamente contassi,
mi sarebbe stata revocata e che sarei caduto in balia
di un enigmatico “Altro”? Di solito, si fanno buoni
propositi di cambiare vita. Io non la cambiai. Mi fu
cambiata.
Ma poi: quel Vangelo che mi trovai fra le mani, da
dove veniva, perché stava in un angolo dell’armadio
che mi serviva da biblioteca? Forse lo avevo preso nel
cassetto di un comodino di qualche albergo, chissà
dove e chissà quando; o forse mi era stato allungato da
non so chi: era una cosa in effetti, modesta, da distribuzione
gratuita, un’edizione tascabile, di quelle regalate
da pie associazioni cattoliche o, più spesso, dalle
organizzazioni protestanti americane, fiduciose nella
forza della sola Parola di Dio. Ricordo, in effetti alcune
illustrazioni in bianco e nero (ma la copertina era a colori,
il solito Gesù con i capelli lunghi dal biondo im-

IL VANGELO NEL CASSETTO

Non credo che avessi mai preso in mano quel libretto.
E non deve stupirti: la mia adolescenza fu avida
di letture, quando non c’era altro leggevo le “pagine
gialle” dell’elenco telefonico – anche se lo trovavo un
romanzo con troppi personaggi, per dirla con l’inevitabile
Woody Allen… – o srotolavo le pagine di giornale
nelle quali era avvolta la verdura che mia madre portava
dal mercato. Contavo anche su un vicino che mi
passava i settimanali che aveva terminato di leggere.
Tra i pochi libri di cui disponevo, il più bello, come veste
editoriale, era in formato grande, rilegato, con pagine
fuori testo a colori. Non so come fosse capitato in
casa. Di certo non era stato comprato da alcun familiare.
So solo che, malgrado la brama di carta stampata,
mi limitai sempre a sfogliarlo per guardare le figure e a
piluccare qua e là. Qualche volta mi proposi di farlo,
ma non riuscii mai a leggerlo dall’inizio alla fine. In effetti,
aveva per titolo, stampato, anch’esso riccamente,
in oro: Il Vangelo narrato ad un fanciullo dalla sua
mamma. Non scovavo in me motivi per interessarmi a
una simile lettura. Oltretutto, sono stato precoce anche
nel fiutare e fuggire la retorica: elevazioni edificanti,
buoni consigli, sacri affetti familiari… Non avevo sopportato
neanche la melassa laicista, massonica, di
Cuore, figurarsi poi per questa qui, da preti!
Lasciami dire che – come avvenne in contemporanea
per la dimensione sessuale – l’improvviso colpo di
fulmine andò in profondo anche per il mio nascente
ma già sensibile snobismo intellettuale. E, proprio
come avvenuto per la rinuncia al “libero sesso”, pure il
superamento di ciò di cui voglio ora accennarti mi conferma
la forza dell’irruzione di quella che altro non
posso chiamare se non Grazia. In effetti, per quel mio
snobismo inculcatomi dal laicismo in generale, e da
quello delle scuole torinesi in particolare, per quella
sorta di puzza al naso intellettuale che avevo potenziato
ma che già stava nel mio istinto, il cattolicesimo,
prima ancora che falso, appariva impresentabile e infrequentabile.
I cattolici erano il pullman e il pranzo al sacco della
gita parrocchiale, l’odore repellente di cibo stantio dei
refettori delle case religiose, erano le devozioni superstiziose
tra santantoni, sangennari e padripii, la retorica
dei buoni sentimenti, i canti inascoltabili, le chitarre
dei gruppi di Azione Cattolica, le agghiaccianti facezie
da sagrestia, il pretone sudato stretto nella nera tonaca
ovviamente impataccata, le voci impostate in sospetto
di ipocrisia, il calzino corto e il doppiopetto da sarto di
paese del notabile democristiano, la provincia meschina
e benpensante, le signorine con gli occhi bassi e
con maniche e gonne sotto il ginocchio anche d’estate
e un sospetto di baffi perché il parroco vietava di frequentare
l’estetista, erano gli adolescenti con i pantaloni
alla zuava, i brufoli e il sospetto, anzi la certezza,
di un onanismo occulto e tormentato.
Il cattolicesimo, insomma, era innanzitutto cattivo
gusto, era l’alito pesante di una fauna umana premoderna.
Era l’Italia clericale, di serie inferiore, in cui
gente come noi non poteva riconoscersi e che il benemerito
progetto laico (a partire dal radicalismo di quel
Risorgimento su cui stavo proprio scrivendo la tesi di
laurea) voleva isolare e superare.
Una lontananza abissale, un’estraneità totale, di cui
un segno decisivo, per un intellettuale liberal in formazione
quale ero, spiccava nel semplice raffronto tra
l’eleganza, il rigore un po’ sprezzante delle copertine
dell’Einaudi o l’efficacia della grafica moderna, cosmopolita,
di quelle della Feltrinelli e quelle sgargianti, dal
disegno triviale, dal gusto parrocchiale delle poche
cose che avessi visto dell’editoria confessionale. Poteva
forse venire qualcosa di interessante, addirittura di
vero, da un mondo così? Quale credito si poteva dare a
una subcultura, che esprimeva le sue presunte ragioni
con un look librario tanto dozzinale e scostante, ignaro
di designer, di grafici sofisticati?

Ti ci voleva insomma un trauma, una rottura, per varcare
quella soglia, per avvicinarti a un mondo che ti appariva
così estraneo, al limite dell’allergia
.

Vedo che mi hai capito: solo una bastonata ben assestata
poteva indurmi a bussare alla porta di un caravanserraglio
come quello cattolico, ripugnante al gusto dei
miei maestri, non a caso tutti o quasi provenienti dal
quell’azionismo laicista che, dopo la guerra, era sparito
dalla scena elettorale (e non se ne rammaricava troppo,
l’elitismo era la sua vocazione) in quanto era uno
strano esercito, con uno stato maggiore prestigioso ma
senza truppe. Generali senza soldati. Quei maestri si
proclamavano ovviamente democratici per eccellenza,
ma detestavano il popolo vero – “l’Italia reale”, nel
senso non di régia, ma di autentica – che allora partecipava
ancora, in maggioranza, di un cattolicume da rifiutare,
prima ancora che per quello che diceva e faceva,
per l’ineleganza e la goffaggine.
Mi viene in mente che la stessa difficoltà era stata
anche di Frossard. Pure per lui c’era voluto un evento
traumatico come quello che sappiamo per essere sospinto
a fare parte, e a pieno titolo, di un simile popolo. Quando ne parlammo, mi disse cose dove, ancora
una volta, mi riconobbi. Dunque, lascia che te le
rilegga, traendole dalla lunga intervista che gli feci per
Inchiesta sul cristianesimo. La cosa non è, credimi, secondaria,
come può pensare chi, come te, è cresciuto
in quel mondo, ne conosce il volto e le abitudini e magari
sorride della difficoltà di prendere sul serio il cattolicesimo
per questioni – come dire? – di look. C’è un
certo mondo dove vige l’adagio, secondo il quale le
style, c’est l’homme e gli uomini, appunto, vengono
soppesati in base a simili ossessioni.
Ecco, dunque, che mi disse André Frossard, il giovane
ateo convertito a forza: «L’altro mondo sarà una bella
sorpresa per gli intellettuali eleganti, per certi sapienti
presuntuosi, per gli snob, per i dandy “liberi pensatori”.
Sarà una sorpresa, perché non solo scopriranno, con
enorme stupore, che l’Aldilà esiste davvero, ma anche
perché saranno oggetto della splendida ironia divina.
Credo, infatti, che quei raffinati signori troveranno, nel
loro paradiso, tutto ciò che gli sembrava dégoutant, disgustoso:
le Madonne di Lourdes fatte a bottiglia di plastica
da portare a tracolla con l’acqua miracolosa, le bocce
con dentro un santuario in gesso e la neve quando si
scuotono, i ricordini kitsch dei pellegrinaggi, gli arredi
ineleganti e a colori chiassosi delle chiese meridionali. E
il bello sarà che tutto questo gli piacerà moltissimo, perché
Dio gli avrà ridato quell’infanzia, quella semplicità
che disprezzavano. Vivranno per sempre beati tra quelle
bancarelle da santuario, cantando felici a squarciagola
cose tipo “Mira il tuo popolo, o bella Signora, che pien
di giubilo oggi ti onora…”».
Mi pare che non si possa dire meglio. Quanto a me,
fui pure io vaccinato, di colpo e per sempre, dalle fisime
di un’intellighenzia cosiddetta laica, convinta che
quella cattolica sia, al massimo, una spregevole sottocultura.
Una vaccinazione, credimi, che solo una Energia
non umana poteva compiere, in modo così completo,
definitivo e subitaneo. Tanto che, da allora,
pochi luoghi mi attraggono come i santuari, grandi e
piccoli, soprattutto mariani; e tra pochi gruppi umani
mi trovo pienamente a mio agio come tra i pellegrini
che affollano quei luoghi. E non per uno snobismo rovesciato
rispetto al precedente.

Studiavi Scienze Politiche, immagino dunque che la
tua estraneità al mondo cattolico si manifestasse anche a
livello della politica
.

Naturalmente: una incompatibilità radicale. Ricordo
che qualche volta mi chiedevo come fosse possibile essere
giovane e al contempo democristiano. Poi ho capito,
anche se non c’è stata un’adesione; che non c’è
stata, del resto, per alcun altro partito, come sai.
Ho imparato, comunque, a essere – come dire? –
comprensivo verso l’impegno di tanti credenti quando,
divenuto credente io stesso, ho capito: poteva essere
una ricchezza ciò che nel partito con la croce dei comuni
medievali sullo stemma e il nome di “democrazia
cristiana” mi sembrava più incomprensibile e, dunque,
repellente. L’attitudine fisiologica al compromesso, il
rifiuto della rigidezza ideologica, il pragmatismo nella
scelta delle alleanze, l’unione sotto lo stesso nome di
correnti che, da destra a sinistra, coprivano tutte le posizioni,
tanto che si diceva che se volevi la tessera di
tutti i partiti bastava che prendessi quella della DC…
C’è voluto del tempo, dopo la conversione ma, alla
fine, ho compreso che tutto questo non era altro che la
traduzione in politica dell’et-et cattolico, della ricerca
democristiana è ancora da fare e sospetto che, alla fine,
l’attivo prevarrà sul passivo. Quelli che usano della loro
libertà per screditare sempre e comunque il mondo dei
credenti, ricordino qualche volta che è grazie a questo
mondo detestato e disprezzato se di quella libertà possono
godere da oltre sessant’anni. Ogni anno, ci fanno
festeggiare, in aprile, la Liberazione. Ma quella fu la liberazione
da una delle ideologie mortifere del Novecento,
il fascismo di Mussolini e di Hitler. C’era chi voleva
che da quella padella passassimo subito nella brace,
il comunismo di Stalin. La vera Liberazione avvenne un
altro giorno di aprile, il 18 di tre anni dopo grazie – più
che alla DC, non ancora sufficientemente organizzata –
alla Chiesa, che scese in campo direttamente, vista la posta
decisiva in gioco. Solo così potemmo finalmente
pensare alla ricostruzione, senza l’incubo di un nuovo,
orrido totalitarismo che gli stessi comunisti di allora si
rallegrano da tempo di avere evitato.

Torniamo a quel piccolo Vangelo che ti trovasti tra le
mani quell’estate
.

Il libricino uscì polveroso, non so come, dai recessi
dell’armadio. Non ho ricordo di note che, anche se ci
fossero state, sarebbero state arse dalla vampata che
eruppe da quel testo. Neppure in questo, dunque, ci fu
la mediazione di qualcuno: di un biblista che commentasse
quei versetti, di una Chiesa, di un prete, di un
amico. Un incontro nudo e crudo, nella mia piccola
stanza al piano rialzato del 27 di via Medail, dalla quale
non vedevo strade né persone ma un cortiletto sempre
deserto. Fu un andare a sbattere, senza intermediari,
con una Parola che divenne carne.
La mia solitudine, in quei giorni era più che mai
completa: i genitori e il fratello erano in vacanza, c’ero
unicamente io nella casa vuota, dove dormivo sino al
pomeriggio – l’università era ovviamente chiusa – madido
di sudore per l’implacabile calura e dove, per la
cena prima del lavoro, aprivo le scatolette prese al supermercato,
novità giunta da poco dalla solita America.
Per dirti quanto sia incancellabile il ricordo di
quei giorni: spingevo il mio carrello con dentro le mie
poche, povere cose e ho ancora nelle orecchie la canzone
di quell’estate, che gli altoparlanti del magazzino
diffondevano ossessivamente. Una voce cantava: «Sapessi
com’è strano / sentirsi innamorati / a Milano…».
Io ero a Torino, ero nel supermercato di piazza Risorgimento,
il più vicino a casa, non ero innamorato di una
donna ma era molto, molto “strano” quel che mi stava
succedendo, ero incappato in Colui che l’evangelista
Giovanni chiama «il Dio che è amore» e che neanche
sospettavo esistesse davvero. Ma sì, non avevo nessuno
cui confidarmi e nemmeno lo cercavo ma, se l’avessi
fatto, avrei cominciato proprio, così, con un «sapessi
com’è strano…».

Concretamente come vivevi, così da solo e, al contempo,
così “in compagnia”?


Giunta la sera, avvicinandosi le dieci dell’inizio del
lavoro, una scatola di minestra Campbell, che sceglievo
fra tutte sugli scaffali (agiva ovviamente – maledetto intellettualismo! – il fascino delle serigrafie di Andy
Warhol, uno dei tanti pataccari che io pure, allora, fingevo
di scambiare per artisti), un pomodoro, un po’ di
formaggio o di mortadella, il più economico dei salumi. Poi, me ne andavo, cavalcando la vecchia Vespa,
comprata non di seconda ma di terza o quarta mano.
Correvo, rinfrescato dal vento, lungo i grandi corsi con
i monumenti equestri in bronzo, con i filari di platani e
tigli, fiancheggiati da quei 12 chilometri di portici ininterrotti
che formano il maggior chiostro urbano d’Europa,
lungo le prospettive inutilmente solenni di una
capitale decaduta, di una metropoli “lontana e sola”,
correvo verso la notte di lavoro alla grande centrale che
splendeva illuminata sopra una Torino semivuota. Fin
oltre la luce dell’alba, mi attendevano le grandi sale
dell’ultimo piano, con le enormi vetrate spalancate sul
buio e dove erano accese tutte le luci del tabellone che
segnalavano le richieste di telefonate tra chi era rimasto
e chi era in vacanza, il susseguirsi del nostro «Stipel,
desidera?» e, poi, nei collegamenti interurbani, il regolamentare
«Tre minuti, raddoppia?».
Visto che non potevo permettermi un garage e la sistemavo
davanti a casa, la vecchia Vespa mi fu rubata
proprio quell’estate. Mascalzoni, davvero, che infierivano
su cose povere, da poveri. Se ricordo quel furto, è
perché anche qui mi resi conto – all’improvviso – in
quale clima mai sperimentato fossi stato immerso, un
clima dove non valevano più le condizioni che sino ad
allora mi erano sembrate immutabili, perché “normali”.
Le condizioni, comunque, che erano state mie
sino ad allora. Scoperto il furto, per prima cosa mi sarei,
ovviamente, assai adirato. Non ho per i ladri alcuna
comprensione da sociologo progressista o da buonista
liberal, macchiette che danneggiano innanzitutto i delinquenti,
per i quali proprio la pena può essere medicinale,
come sapevano gli antichi e la vecchia cristianità:
paradossalmente (ma non tanto) la liberazione
vera può passare attraverso un’adeguata detenzione.
Passata la sacrosanta arrabbiatura, mi sarei poi depresso
per quell’atto vigliacco che mi sottraeva la sola,
piccola ricchezza di cui disponessi, il mezzo che mi
permetteva di risparmiare molto tempo nell’andare e
tornare dal lavoro, oltre che di godere di un gradevole
rinfresco in quella estate torrida e interminabile. Piuttosto
che avvertire sentimenti di comprensione e di solidarietà
sociale politicamente corretti, avrei pensato
con desiderio al diritto islamico, con il suo svelto servizietto
del taglio della mano in piazza per il signor ladro:
la sinistra se la prima volta, la destra se recidivo…

E invece quale fu la tua reazione scoprendo il furto
della preziosissima Vespa?


Con mia sorpresa, avvenne l’inedito. Dunque, quella
sera in cui trovai vuoto lo spazio dove la Vespa era parcheggiata,
dopo un attimo di perplessità e di rincrescimento,
mi avviai verso la fermata del tram, senza riuscire
a sentirmi turbato a fondo. Non solo ero immerso
in pensieri e sensazioni che non lasciavano spazio ad
altro, ma mi era stata data anche una nuova gerarchia
delle cose della vita. In quella gerarchia, episodi spiacevoli
– o, se vuoi, dolorosi come quello, che mi privava
di un bene necessario e che, nella mia modestia economica,
non potevo rimpiazzare – andavano al loro posto;
posto che non era, che non poteva essere tale da
incrinare la gioia di cui ero ripieno. Che cosa significava
la scomparsa di un vecchio scooter, di fronte all’incontro
con Colui che aveva fatto irruzione di colpo
nella mia vita e che l’aveva immersa in un’atmosfera incantata,
dove era sovvertita la gerarchia mondana degli
eventi?
Non solo: l’intuizione di Qualcuno onnipotente e al
contempo benefico, non solo al di sopra di noi ma accanto
a noi, mi aveva fatto intravedere per la prima volta
quella che i cristiani chiamano Provvidenza. Pur
avendo, al liceo, letta e studiata tutta intera – una cantica
all’anno – la Divina Commedia, non avevo colto quel
verso denso e pacificante, che avrei recuperato soltanto
allora e che sempre mi avrebbe accompagnato nella vita,
smussando ogni ansia: «Et in Sua voluntade è nostra
pace». Non ricordavo il verso, ma il sospetto di quella
realtà mi stava proprio allora sorgendo dentro, con l’emozione
della scoperta.
Dunque, non mi rattristai troppo di dover riprendere
il vecchio 13, il tram che andava verso il centro e
da lì al Po e alla collina, attraversando il mio Borgo San
Donato: se così aveva voluto un Padre previdente, così
doveva essere, ed era certamente per il mio bene. Se
dovevo tornare un pedone, di sicuro, in quel momento
e in quelle condizioni, questo era il meglio per me. Da
credente, tu pure l’avrai sperimentato: non vi è psicofarmaco,
non vi è costoso (quanto dubbioso, negli esiti
concreti) ciclo di sedute sul lettino che fu caro a
Woody Allen – ora anche lui si è ricreduto e ne ride –,
non vi è rassicurante parola solo umana, che valgano
un mignolo di questa consapevolezza che siamo figli di
un Padre che è l’Amore stesso. Dunque, ciò che alla
nostra miopia appare come negativo, ciò di cui ben volentieri
avremmo fatto a meno, ci apparirà nella sua benefica
necessità alla fine, quando tutto sarà chiaro. È
un abbandono, è una fiducia serena che nulla ha a che
fare con il “destino” di cui parlano «coloro che non
hanno speranza» (per dirla con Paolo) o con l’amor
fati, il massimo di consolazione cui poté giungere la filosofia
pagana e, oggi, postcristiana. Ricordi le ultime
parole, sul letto di morte, del curé de campagne di Bernanos?
«Tutto è Grazia», tutto è Provvidenza, niente è
casuale, ciascuno, per quanto anonimo e abbandonato
si creda, è stato voluto – proprio lui – da un Padre che
non abbandona nessuno dei suoi figli.
Può esserci qualcosa che dia maggior serenità, in
quella lotta così spesso oscura, dolorosa, piena di trappole
impreviste che è la nostra vita? Se sto alla mia
esperienza, che è poi quella di infiniti credenti, altro di
meglio non ho trovato. Ma cominciai a capirlo in
quella notte d’estate in cui un ladruncolo, inconsapevole
ministro della Provvidenza, aveva forzato il debole
antifurto di un vecchio scooter, ricacciandomi sull’afoso
tram notturno.

Abbiamo precorso i tempi. Siamo già al “dopo”, mentre
eravamo rimasti all’aggressione del “male di vivere”,
alla nausea, per dirla con Sartre. Dunque, a prima dell’apertura
di quel Vangelo tascabile
.

Hai ragione. Ma non è facile conservare un ordine,
non lasciarsi attrarre da mille deviazioni rievocando
quei tempi, tanto silenziosi e solitari all’esterno quanto
tumultuosi all’interno.
È curioso: ricordo tutto degli effetti, anche di quelli
immediati, dei primissimi giorni. Ma, per quanto ci abbia
pensato, non riesco a ricostruire con esattezza la
successione dei piccoli eventi che mi hanno portato a
socchiudere la porta al di là del quale c’era il mondo
inaspettato. Voglio dire: non so bene che cosa cercassi
in quei Vangeli, da cui nulla si poteva aspettare la mia
prospettiva di studente, infastidito in quel momento
per l’intoppo scolastico, ma, quanto a cose religiose,
nombra, misterioso, vivendo di una vita che affondava
radici nella storia più remota. Un mondo “totale”, di
donne e di uomini, di giovani e di vecchi, di re e di pastorelle,
di sapienti e di analfabeti, di atleti e di malati,
ma dove tutti cercavano di raggiungere la stessa meta,
uniformandosi a un unico modello, pur in modi diversissimi.
Un mondo dove, se stavo a quei testi (devozionali,
certo, ma dignitosi, con un gustoso sapore ottocentesco),
dove regnavano la sicurezza, la pace, la
fraternità, l’ordine, addirittura la gioia. Questa parola
– gaudium, laetitia, nel latino liturgico – il cui suono
così di rado rinvia per noi a un’esperienza vissuta.
Il seme che mi fu inoculato dall’ignoto don Giocondo
ticinese era forse quello di una nostalgia per una
dimensione tanto remota e, al contempo, tanto vicina
che sarebbe bastato varcare il portale di una chiesa per
incontrarla? Non lo so, sul momento non ci pensai, cominciai
a sospettarlo in seguito.

Ma quali furono i primi sentimenti, le prime emozioni
dell’Incontro, come lo hai chiamato?


Incontro, certo. Ma ho parlato anche di scontro: le
due dimensioni coincisero. Potrei dire, infatti, che ha
avuto due teste l’ariete che, d’un colpo, fece cadere la
parete al di là della quale c’era il mondo inedito. Ci fu
la dolcezza della misericordia e del perdono; e, al contempo,
la severità della giustizia, il timore dell’ammonimento,
la consapevolezza del rischio del redde rationem.
Il consueto ossimoro cristiano, insomma.
Ti ricordavo prima quel che mi disse André Frossard:
«Sono convinto che nella Scrittura c’è una parola
ispirata apposta per ciascuno di noi».
Nel mio caso vi fu – innanzitutto – l’invito amorevole:
«Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi
e io vi ristorerò». Invito seguìto subito da un
«non abbiate paura!» che sarebbe risuonato venti secoli
dopo in piazza San Pietro per bocca del Suo primo
vicario slavo. In effetti, l’esortazione agli affaticati e oppressi
di “andare a Lui”, sta nell’undicesimo capitolo
di Matteo e prosegue così: «Prendete il mio giogo sopra
di voi e imparate da me, che sono mite e umile di
cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio
giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».
Ma, dopo l’invito, l’ammonimento: quello della parabola
sul fico infecondo (Luca 13). Sono versetti che
ebbero su di me un tale impatto che li ricopiai a macchina
su un foglio e, per tenerlo sott’occhio, lo attaccai
alla porta della mia camera. Naturalmente dalla parte
interna, ma causò lo stesso in famiglia sorpresa, perplessità
e, infine, allarme sulle mie condizioni di salute
mentale.
Ti dicevo che non c’era alcuna confidenza tra noi,
dunque non parlai di ciò che mi stava succedendo. Mio
padre, uomo di destra, da tempo temeva che, come
tutti, o quasi, i giovani d’allora, diventassi comunista.
Non ci eravamo mai confidati e, dunque, non sapeva
quanto fossi impermeabile alle ideologie, rosse o nere
che fossero, agnostico e ironico com’ero anche su ogni
politica intesa come religione. Se lo avesse saputo, sarebbe
rimasto ancora più sorpreso, perché non
avrebbe certo messo in previsione che potessi diventare
cattolico; e, soprattutto, con l’intenzione di farmi
cattolico esplicito e dichiarato. Non dirò militante perché,
nei mesi seguenti la mia militanza pubblica (quella
personale previde la lettura della Scrittura, la riflessione
su Pascal, lo studio del catechismo, poi i primi libri di teologia ed esegesi biblica) quella militanza, dunque,
non fu certo, né allora né mai, in cose da clericale
impegnato, col complesso di inferiorità davanti a ogni
gauche. Col risultato, tra l’altro, di rendere irrilevante,
superfluo il Vangelo: a che “ci serve” Gesù, se non è altro
che un precursore dei leader sindacali o dei dottrinari
populisti?
Mi impegnai, invece, in una cosa da “santo sociale”,
ma all’ottocentesca: quella del beato Antoine Frédéric
Ozanam, un piccolo don Bosco francese, seppure non
prete ma professore alla Sorbona. Dunque, cercai di
praticare la carità cristiana, ma aliena da ogni politica e
da ogni demagogia, nella conferenza della Società di
san Vincenzo de’ Paoli di quella che era divenuta la
mia parrocchia. Ogni parrocchia, a quei tempi – e forse
anche ora – ospitava una di queste conferenze. Sino a
pochissimo prima, una simile scelta “vincenziana” –
che, da quel che mi era giunto confusamente alle orecchie,
era una sorta di passatempo per il tempo libero
per signori e signore benpensanti e anziani – sarebbe
stata, per me, una barzelletta divertente. E, invece, vincendo
l’orgoglio e la perplessità, mi presentai (era il
primo contatto della mia vita, ma proprio il primo, con
una realtà cattolica organizzata), scegliendo, come è
giusto, la chiesa di sant’Alfonso de’ Liguori che, avevo
scoperto informandomi da qualche praticante, era la
parrocchia nel cui territorio stava la mia casa.

Come andò quel primo contatto con il mondo cattolico
organizzato?


Andò al meglio. Vi trovai quanto cercavo. Benché
fossi in quell’ambiente religioso uno sconosciuto, uno
studente qualsiasi arrivato chissà come e perché, nessuno
mi chiese nulla (per discrezione, credo, non per
indifferenza) e io, al mio solito, non mi misi a raccontarmi,
nulla dissi del mio passato e del mio presente,
tenni nel cerchio consueto della solitudine il turbine di
emozioni che mi si agitava dentro. Fui accolto fraternamente
e semplicemente, senza sospetti e malizie, nella
convinzione che nella vigna del Signore (come piace
dire a papa Ratzinger) c’è posto per ogni manovale di
buona volontà. Così mi avverrà sempre – lasciamelo
dire – in ogni frangente e in ogni ambiente di una
Chiesa della cui accoglienza generosa e aperta potrei
lagnarmi solo commettendo un’ingiustizia grave.
Escludendo soltanto, come sai, certi giri ristretti di
Church-intellectuals, certi gruppetti di intellighenzia
clericale, chiusa e diffidente verso il dilettante che ero e
che sono, per giunta “papista”.
Al settore giovanile di quella conferenza parrocchiale
– scopersi che non era cosa solo per vecchi! – mi
fu affidata, come a ogni confratello, una persona da seguire,
con lo spirito del beato Ozanam: non con burocrazie,
non con aria di sufficienza e di superiorità (“Tu
sei il povero bisognoso, e io il benestante generoso”),
ma con l’amore rispettoso di un figlio dello stesso Padre
che, nel momento in cui dà, riceve; e molto di più.
A me fu affidato uno dei casi più problematici (vedi la
fiducia cattolica di cui ti parlavo?), l’assistenza a una
vecchina della Torino borghese che – decaduta, nubile,
sola – viveva barricata in un appartamento troppo
grande per lei, in un grigio condominio liberty, precipitata
da molto tempo nel buco nero di un inguaribile
complesso di persecuzione. Più che di aiuto economico,
aveva bisogno di uno sfogo per il suo tormentoso
delirio, con qualcuno da cui non temesse chissà quali
trame diaboliche e che (avvertito dai confratelli che la
conoscevano) non le proponesse cure mediche, sicuro
complotto per eliminarla e appropriarsi della sua unica
ricchezza, quel vasto alloggio che era stato di suo padre,
professionista stimato nella città di un tempo remoto.
Non c’era altro da fare che esercitare la pazienza
– che solo quella nuova forza fino ad allora sconosciuta
mi aveva dato – che ascoltarla in silenzio, senza
incoraggiare o contrastare quei vaneggiamenti ossessivi.
Riuscii a distrarla anche con una trovata di
cui un poco mi compiacqui, visto il successo: le portai
in dono un canarino in gabbia, che divenne il centro
della sua vita solitaria e dolente. Ogni sabato pomeriggio,
andando ad ascoltare per ore i suoi poveri
vaniloqui contro nemici ignoti, assieme al vassoietto
delle piccole paste che prendevamo con il thé che
preparava, le portavo anche la scatola dei biscotti per
l’uccellino.
A differenza di quanto predicava la rozzezza marxista,
che stava per conquistare proprio allora troppi cattolici,
molti dei nostri mali – talvolta i peggiori – non
hanno nulla a che fare con l’economia. Nessuna lotta
sociale può porvi rimedio, nessun ministero statale o
facoltà di sociologia o piano quinquennale può dare
aiuto. Il solo conforto possibile è in quella carità cristiana,
irrisa dagli ideologi come alienante, che – cominciai
a impararlo sul campo proprio in quei mesi –
non tromboneggia con termini astratti come “popolo”,
“classe”, “umanità”, ma cerca di alleviare il male di vivere
delle persone singole, concrete, una a una, perché
ciascuna ha un peso sulle spalle diverso da ogni altro.
Per dirla proprio con il beato Ozanam, ottimo sociologo,
che conosceva bene i problemi sociali dell’epoca
della prima industrializzazione e che, dunque, reclamava
provvedimenti anche a livello legislativo: «La
giustizia ci vuole ma questa, da sola, non basta: accanto
a essa deve esercitarsi la carità». Eccoti servito un altro
et-et…

Dunque, ti desti subito da fare per passare dalla teoria
ai fatti, scopristi il bisogno di amare concretamente,
come conseguenza della scoperta del Deus qui caritas
est, come ripete Benedetto XVI rifacendosi a
Giovanni
.

Mi sono subito persuaso che ciò che dobbiamo annunciare
senza stancarci, e che dobbiamo riaffermare
di continuo è la fede, da cui morale e impegno caritativo
derivano spontaneamente. Come tu stesso dici:
prima i fondamenti, il grido primitivo dello «Iesus est
Dominus!». E solo dopo le conseguenze etiche, i codici
morali, le buone azioni, che altro non sono che un
frutto istintivo di cui chi ha accettato il Cristo avverte il
bisogno direi fisiologico. Io stesso lo sperimentai, sin
dall’inizio. Insomma, il principio strategico di Napoleone:
«Prima, la vittoria. L’intendence suivra». L’intendence,
cioè l’amministrazione, la logistica, le furerie a
servizio dell’armata. Vinta l’incredulità, con la conquista
della fede arriva l’organizzazione concreta della carità.
L’incontro con Lui spinge all’incontro fraterno
con gli altri.
Per dartene un’altra conferma: penso, sorridendo, a
come avrei reagito pochissimi mesi prima, se un flash
improvviso, un sogno inatteso, mi avessero fatto balenare
una scena incredibile. Giorni dei Santi e dei
Morti, dunque inizio di novembre di quello stesso
1964, ingresso principale del Cimitero Monumentale
di Torino. Io, non ancora ventiquattrenne, con al bavero
del cappotto la targhetta comunale di autorizzazione
alla questua benefica e, tra le mani, una cassetta
di legno con la scritta «Per i poveri della San Vincenzo
», completa di fessura per le monete da 50 e 100
lire e per le rare banconote da 500 o da 1.000. Quella
dell’inizio di novembre era la maggior occasione dell’anno
per rimpinguare le piccole casse delle conferenze
vincenziane della città. Comprensibile; anzi, edificante,
in una prospettiva cattolica. Ma per quale
evento singolare era finito a far parte dei devoti mendicanti
il giovane che, sino ad allora, di giorno era stato
l’intellettuale in formazione della Torino laicista e, di
notte, faceva il telefonista libertino? Quale forza lo
aveva spinto a chiedere l’elemosina nel luogo più frequentato
della sua città in quei giorni novembrini
(qualcuno, in effetti, lo riconobbe e, imbarazzato, fece
finta di nulla), incassando per giunta, ironia estrema, le
parole di elogio di qualche devota vecchina? «Che
bravi giovani! Continuate così!» dicevano infilando la
moneta.
Il miracolo era che non mi veniva da ridere – anzi,
da sogghignare alla volterriana, come avrei fatto sino a
poco prima – ma da ringraziare e da riflettere. E ancor
oggi ho un ricordo nostalgico di quelle brume autunnali,
di quelle ore in piedi con l’umidità che pian piano
impregnava le ossa, di quella folla con i mazzi di fiori
in mano che scendeva dai tram con le luci accese tutto
il giorno, nell’autunno torinese, di quelle monete che
tintinnavano e che sarebbero servite anche per comprare
i biscottini per il canarino che mi attendeva ogni
sabato pomeriggio, in gabbia come la sua vecchia,
sventurata padrona.
di spermatozoi per fecondare, al massimo, un ovulo
femminile. Frossard ha parlato di una sorta di loi du
gaspillage, di “legge dello spreco” che sembra seguita
dal Creatore e che conferma che “piccolo” o “grande”,
“molto” o “poco” hanno un significato per noi, ma
sono del tutto irrilevanti per Lui.
Dunque, l’immensità dell’Universo non è in contrasto
con l’attenzione divina a un puntino di questo. Così
volle. E così poté e può. Quella del cristiano non è presunzione:
è la constatazione di una realtà misteriosa, di
cui proprio la scienza moderna ci ha confermato la verità.
L’Universo è immenso, più ne sfioriamo il mistero
e più ci sbalordiscono le sue dimensioni. Ma proprio
questo non fa che confermare l’ottavo salmo (significativamente
ripreso anche nella Lettera agli Ebrei): «O
Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su
tutta la Terra! Sopra i Cieli si innalza la tua magnificenza…
Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la
luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché
te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne
curi?». Eppure, prosegue il salmista, «eppure hai fatto
l’uomo poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo
hai coronato, gli hai dato potere sulle opere delle tue
mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi…».

Se tu dovessi concludere questa parte della nostra conversazione
facendo la sintesi stringatissima di una riflessione
lunga quasi come la vita intera su Gesù e sul Dio
di cui testimonia?


Potrei dire che ho sempre constatato che aveva ragione
Jean Guitton che, come sai, non ho solo letto ma
anche frequentato personalmente, a Parigi.

Vale a dire?

«La critica filosofica e biblica può mettere in crisi la
fede. Ma la critica di quella critica è sempre possibile e
può ricondurre a credere». Sempre, naturalmente, che
non dimentichiamo che, per volontà divina, tutto avviene
all’insegna del chiaroscuro e, dunque, della libertà:
«Assez de lumière pour croire, assez d’ombre pour
douter», abbastanza luce per credere, abbastanza ombra
per dubitare.
Dunque, mai inquietarsi per i “dubbi”: sono fisiologici,
fanno parte del gioco, tanto che un antico adagio
cristiano ammonisce, addirittura, che fides sine dubiis,
dubia fides. Ma fisiologica è anche la capacita di reazione:
la “fede pensata” è possibile in ogni caso. E non
delude.
Inoltre, visto che siamo alle grandi frasi, ricordarsi
di un altro ammonimento, questa volta di Bossuet: «La
fede comporta delle oscurità. Ma l’ateismo comporta
delle assurdità».
E, per ricitare il “nostro” Ratzinger, non dimentichiamo
che «chi pretende di sfuggire all’incertezza
della fede, dovrà fare i conti – ogni giorno, ogni ora –
con la incertezza della incredulità». Abbiamo dei problemi?
È normale, è previsto nella dinamica stessa del
credere. Ma chi crede di contrastarci a colpi di Ragione
– con la Maiuscola, s’intende – ne ha ancora di più. Per
quanto vale, è il mio piccolo bilancio, quello che ho
cercato di giustificare non con auspici o invettive,
bensì con la ricerca, la riflessione, la scrittura.

© Copyright "Perché credo". Libro-intervista di Andrea Tornielli a Vittorio Messori, Piemme 2008

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