27 ottobre 2008
Mons. Capovilla: "Giovanni XXIII, osservatore del presente e seminatore del futuro" (Osservatore Romano)
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SINODO DEI VESCOVI SULLA PAROLA DI DIO (5-26 OTTOBRE 2008): LO SPECIALE DEL BLOG
Angelo Giuseppe Roncalli nel ricordo del suo segretario personale
Osservatore del presente e seminatore del futuro
di Loris Francesco Capovilla
Arcivescovo titolare di Mesembria
Ho visto scorrere sul piccolo schermo, in anteprima, il film-dossier Giovanni XXIII.
Il pensiero e la memoria, l'11 settembre scorso, quarantaseiesimo anniversario del radiomessaggio "Chiesa di Cristo luce delle genti", accolto, nel 1962, come carta d'imbarco, inviata dal Pontefice ai vescovi in procinto di recarsi a Roma per l'inizio del concilio Vaticano ii; finalizzato alla santificazione delle comunità cattoliche (Chiesa ad intra) e alla ripresa di una più vigorosa evangelizzazione e di un servizio dell'umanità intera (Chiesa ad extra). L'ho contemplato a Camaitino, dove dimoro sul declivio del Colle San Giovanni, che sovrasta il paese nativo di Angelo Giuseppe Roncalli, casa da lui abitata negli anni 1925-1958 nei periodi di riposo, concessi annualmente dalla Santa Sede ai suoi rappresentanti sparsi nei cinque continenti.
Nel fluire delle sequenze rividi la famiglia Scotti Guffanti (donatrice di Camaitino), gli addetti alla segreteria di Stato, le suore delle poverelle attorno al Pontefice per la stesura dell'atto notarile di donazione. Ricordo una chiosa del Papa: "Va da sé, che, vita natural durante, il mio segretario occupi, quando crede, quelle mie camere", e io a obiettare timidamente: "Santo Padre, sono già da adesso occupate, meta continua di numerosi visitatori", e lui a chiedere stupito: "Ma dopo la mia morte, chi volete che vada a Sotto il Monte?". Un attimo di silenzio e il tocco finale: "Però, però non si sa mai".
Ripensavo a quell'episodio mentre scorrevano le immagini, presente il regista Salvatore Nocita e i produttori bergamaschi di Officina della comunicazione.
A quarantacinque anni dal transito del Papa, a mezzo secolo dalla sua elezione, ospite dell'Istituto del beato Luigi Maria Palazzolo, io sono davvero quassù e ammiro in questa casa le rapide sequenze selezionate con metodo rigoroso, eloquenti e convincenti, perché proposte con tocchi rapidi e illustrate con immagini non ingiallite, tuttora calde e movimentate, prive di artifici retorici, riproposte da testimoni superiori a ogni elogio, estranei ai canoni della pubblicità, come lo sono le mie riflessioni, che emanano ardore moderato dalla consapevolezza di appartenere alla Chiesa generata dal sangue di Cristo. Il discorso del film è diretto, si snoda come un gomitolo sul filo di un evento arcano: "Venne un uomo mandato da Dio" (Giovanni 1, 6).
Lo spettatore è invitato a vedere quest'uomo che, dai viottoli polverosi di Sotto il Monte, con la sacca dei contadini a tracolla, sacca ripiena di ogni ben di Dio, esce dai confini della piccola patria e con passo misurato, umile sentire di sé, ilare obbedienza che, senza sopprimere la libertà, la mette a servizio dei più alti ideali, china il capo ai voleri dell'Altissimo che gli fa percorrere - lo racconta lui - "le vie del mondo in Oriente e in Occidente, accostandomi a gente di religione e di ideologie diverse, in contatto con i problemi sociali acuti e minacciosi, conservandomi la calma e l'equilibrio dell'indagine e dell'apprezzamento, sempre preoccupato, salva la fermezza ai principi del credo cattolico e della morale, più di ciò che unisce che di quello che separa e suscita contrasti" (Discorso di ingresso a Venezia, 15 Marzo 1953).
Il film non dà risalto al successo, bensì alla seminagione e alla testimonianza. Il racconto non esalta l'uomo, caso mai induce ad ammirare la sua obbedienza a Dio e alla Chiesa, l'oculata scelta di strategie evangeliche, l'esibizione della medicina della misericordia all'umanità intera, l'annuncio dell'integro messaggio, con atteggiamento di rigoroso rispetto dei diritti della persona.
Sottolineature e commenti di prelati e di studiosi inducono a cogliere i tratti di Roncalli uomo, prete e vescovo, Papa, che non si è fatto da sé: l'ha plasmato Cristo, lui si è lasciato plasmare, sino a guadagnarsi gli appellativi di discepolo, di custode della tradizione, di attento osservatore del tormentato cammino dei suoi simili, di pacato cronista del presente, di fiducioso e ardimentoso seminatore.
Una sua nota stilata a Parigi, a sessantasette anni, riassume esperienze anteriori e lascia intravedere raggi luminosi del quinquennio veneziano e del servizio petrino: "Più mi faccio maturo di anni e di esperienze e più riconosco che la via sicura per la mia santificazione personale e per il miglior successo del mio servizio della Santa Sede resta lo sforzo vigilante di ridurre tutto, principi, indirizzi, posizioni, affari, al massimo di semplicità e di calma, con attenzione a potare sempre la mia vigna di ciò che è solo fogliame e viluppo di viticci, ad andar dritto a ciò che è verità, giustizia, carità, soprattutto carità. Ogni altro sistema di fare non è che posa e ricerca di affermazione personale, che presto si tradisce e diventa ingombrante e ridicolo" (Il Giornale dell'Anima, paragrafo 828).
Con il fiuto dei piccoli e l'immediatezza dei semplici, ho assistito allo scorrere di un film che mi ha introdotto nel territorio della serena pace, mi ha compensato di mie lontane intuizioni, così da sentirmi spinto a compiere qualche altro passo con giovanile entusiasmo, e ho provato l'impulso a congiungere le mani e a inchinarmi con riverenza e gratitudine al peritissimo regista e ai suoi collaboratori.
Io non sono critico cinematografico, e non importa, da che non mi è richiesto; non sono scrittore né esperto in qualcosa. Sono mille miglia lontano dai santi e dagli eroi, gli "eterni fanciulli" di Georges Bernanos; non oserei nemmeno toccare il lembo dell'immacolata veste di Giovanni XXIII e dei suoi cinque antecessori. Mi tengo caro l'aggettivo di contubernalis, da lui regalatomi, come dire anonimo domestico che, sia pure a debita distanza, ha condiviso il pane, la preghiera, il lavoro, la sofferenza. Sono contento di aver testimoniato e di raccontare tuttora ciò che ho udito, ciò che ho veduto con i miei occhi, ciò che ho contemplato e quello che le mie mani hanno toccato (cfr. 1 Giovanni 1, 1 ); e tutto, o quasi, ritrovo tal quale nel film di Nocita. Pertanto non mi limito a parlar bene della pellicola che, comunque valutata, reca il sigillo di profonda conoscenza del personaggio, di sapiente ricerca del proprium roncalliano, di simpatia genuina, così da indurre lo spettatore a emulare, in qualche modo, a personale vantaggio e arricchimento, adattandosela, la splendida testimonianza dell'amabile padre.
Il ricordo di molti e incantevoli momenti fa ressa nella mia fantasia e nel mio cuore. Ne cito due. L'estremo saluto di Papa Giovanni al suo segretario di Stato, cardinale Cicognani è uno dei segni più vivi che palpitano in me: "Mi rallegrai quando mi dissero: andremo alla casa del Signore" (Salmi 121, 1). Nessun rimpianto, nessuna lacrima, solo serena letizia. A chi mi chiede se l'essere vissuto accanto a lui ha cambiato la mia vita rispondo affermativamente, col rammarico di dover confessare di non essere del tutto riuscito "a mettere il mio io sotto i piedi", come egli esortava. Tuttavia le ultime parole dettemi il 31 maggio 1963, dopo aver ricevuto il santo viatico, esultano sempre nelle profondità del mio essere, talora a rimprovero, sovente a consolazione: "Non ci siamo soffermati a raccattare i sassi che da una parte e dall'altra della strada ci venivano gettati addosso per rilanciarli; abbiamo pregato, obbedito, lavorato, sofferto; abbiamo perdonato e amato".
Mentre in religioso raccoglimento rivedevo i vari momenti della sua esistenza rammentavo bene di avergli declamato quanto scrisse nel 1963 Giuseppe Marotta dopo la visione del documentario sul concilio: "Io contemplavo Giovanni XXIII e mi intenerivo. Non c'è fasto di paramenti, di tiare ingioiellate, di aurei scettri, che non sfumi e si dilegui agli occhi di chi guarda la sua faccia di povero, di faticatore, di celestiale contadino. Lo incensano, come il rito esige, ma l'aromatico fumo, trattandosi di lui, fa pensare alla nebbiolina che lambisce un prato all'alba; è naturale come il rapporto fra la brezza e la zolla; suggerisce l'idea (forse non tanto bizzarra) che il Creatore dell'universo, pur avendo messo gomitoli di anni-luce tra galassia e galassia, misuri il paradiso in ettari e in moggia, in biolche, al modo terreno degli essere nati dall'alito suo. Mi capite? Nulla riesce ad allontanare Giovanni XXIII da noi, sopraelevandolo e raffreddandolo; sì, lo portano sulla sedia gestatoria, lo mettono in trono, ma ci sembra egualmente di sedere accanto a lui su un'aia, quando all'imbrunire le donne smettono di sbattere il granturco; là egli ci sorride e ci dice: "Ora ascolta, figlio mio". È veramente il Papa nel quale continuano le parabole evangeliche dagli alti significati espressi in termini di greggi, di sementi, di alberi, di stagioni, di infime e comuni vicende. Ah, l'impercettibile ironia, la graziosa pazienza con le quali egli subisce l'etichetta" (Giuseppe Marotta. Un indimenticabile film che durerà più di noi, "L'Europeo", marzo 1963).
Il Papa, cui nel cinquantesimo dell'elezione, l'Officina bergamasca della comunicazione ci riaccosta è lo stesso individuato da Marotta. La cornice è solenne e severa, il volto del protagonista e il suo discorrere sono autentici. I temi toccati con signorile delicatezza sono le luci e i drammi dei nostri giorni, e convincono che l'impegno (chiamiamolo pure successo o merito) del cristiano è la perenne novità risonata nel cenacolo: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi" (Giovanni 15, 12).
Suggestionato dal film, che ridesta inesprimibili ricordi di una lunga vita, affiancandomi a Papa Giovanni, che non cessa di stupirmi, oso dire ai miei fratelli e amici: "Voi che avete inteso l'appello del Signore e risoluto di aderire a esso, forse vi disponete a penetrarvi nel silenzio della notte, addirittura nella fatica e nell'inquietudine, che finisce per identificarsi con la gioia. È la fede che Gesù richiede in tutte le pagine del vangelo. "Uomini di poca fede" (Matteo 8, 25), sospira egli guardando i suoi; ma la cananea e il centurione lo sconvolgono e lo inteneriscono. La loro fede si confonde con il loro amore. Da vecchio pellegrino, prossimo alla fine del mio itinerario, drizzo un'ultima volta la mia tenda nel cuore del paese circoscritto da questa parola: "Tu esisti, dacché io ti amo. Credere è amare" (François Mauriac, Ce que je crois, Paris, Graaset, 1962).
L'Angelino dei Roncalli, eletto Papa a settantasette anni, credeva in Dio, vedeva Dio. Con assidua preghiera, severo controllo di sé, ilare disciplina ecclesiastica riuscì a possedere i tre doni celesti, senza i quali le virtù infuse con il battesimo isteriliscono: ascoltava Dio, parlava a Dio, parlava di Dio.
Tutto preso dalle fiaccole che incendiavano Piazza San Pietro la sera dell'inaugurazione del concilio, ammaliato dal Papa che si annientava davanti ai suoi figli e dal suo colloquio con la folla, intenerito dal saluto ai sofferenti, dalla carezza ai bambini, dall'invito alla concordia e alla fraternità - ed è pure la conclusione del film di Nocita - il simpatico Marotta diede sfogo alla sua emozione, stato d'animo anche mio, con impetuosa tenerezza: "Sfido chiunque a udire queste parole e a non gettarsi, idealmente, con soavi lacrime, alle ginocchia del Papa".
Giovedì 11 settembre scorso, similmente impressionato, avrei voluto trovarmi solo, guardarmi dentro e d'attorno, balbettare grazie a Papa Giovanni, ai personaggi del film, a Salvatore Nocita e ai suoi collaboratori e a quanti altri hanno lavorato e lavorano nell'immenso cantiere della costruzione o ricostruzione della città dell'uomo, disegnata dall'Onnipotente, abilitati a infondere certezza che "nei campi dei poveri c'è cibo in abbondanza" (Proverbi 13, 23); vi cresce e matura il pane della vita, della religione, del servizio disinteressato, delle intenzioni incontaminate; il pane confezionato da donne e uomini, la più parte ignoti e ignorati, che percorrono i solchi della storia con mani disarmate e cuori ardenti di misericordia e amore; credenti e professanti preparati a percorrere il ventunesimo secolo, gli occhi rivolti alla stella polare del concilio, come raccomandava nel suo testamento Giovanni Paolo ii; disponibili, in stretta comunione con il successore di Pietro a cooperare - l'ha affermato Benedetto XVI - al rinnovamento della Chiesa, alla riforma delle sue strutture, all'aggiornamento della liturgia, le tre iniziali proposte dell'assise ecumenica, la cui attuazione ridonderà di sicuro a beneficio dell'intera famiglia umana.
(©L'Osservatore Romano - 27-28 ottobre 2008)
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