28 ottobre 2008
Card. Bertone: "Giovanni Paolo II e la sua visione del Concilio" (Osservatore Romano)
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Giovanni Paolo II e la sua visione del concilio
Parliamo all'uomo in modo comprensibile
Si apre il 28 ottobre a Roma, presso la Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura Seraphicum il convegno internazionale "Cristo, Chiesa, Uomo. Il vaticano II nel pontificato di Giovanni Paolo II". Pubblichiamo stralci dell'intervento di apertura del cardinale segretario di Stato.
di Tarcisio Bertone
Negli anni del dopo-concilio due interpretazioni, due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto: l'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente, ma sempre più visibilmente, ha portato frutti.
La prima, "l'ermeneutica della discontinuità e della rottura", che a tratti si è avvalsa della simpatia dei mass-media, e di non pochi esponenti della teologia moderna, la seconda, l'"ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella continuità. L'ermeneutica della discontinuità - mette in guardia Benedetto XVI - rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare.
Vale la pena citare qui testualmente le parole di Benedetto XVI: "Essa asserisce che i testi del concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del concilio, ma negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l'intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del concilio, ma il suo spirito" (Insegnamenti, i, 2005, pp. 1024-1025).
Ma in che consiste veramente lo spirito conciliare? Ampio è qui lo spazio d'interpretazione e, di conseguenza, ampia è la possibilità di essere estrosi nell'applicarlo. Il concilio - è sempre il Papa a dirlo - "viene considerato come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo, al quale la costituzione deve servire. I padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna. I vescovi, mediante il sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore e "amministratori dei misteri di Dio"". (Insegnamenti, i, 2005, p. 1024).
All'ermeneutica della discontinuità si oppone invece quella che Sua Santità chiama "l'ermeneutica della riforma", che ben traduce le intenzioni di Giovanni xxiii espresse nel suo discorso d'apertura del concilio l'11 ottobre 1962 e poi di Papa Paolo vi manifestate con chiarezza nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965.
Giovanni xxiii - proprio oggi ricordiamo il cinquantesimo di inizio del suo pontificato - affermava che il concilio intendeva "trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti".
E continuava: "Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige(...)
È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo". (Sacri Oecumenici Concilii Vaticani ii Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865). Se si vuole esprimere in modo nuovo una determinata verità occorre certo una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; occorre inoltre tener conto che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d'altra parte, la riflessione sulla fede esige - precisa Benedetto XVI - che si viva questa fede.
In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni xxiii era estremamente esigente, come esigente è la sintesi di fedeltà e dinamismo creativo. Ma ovunque questa interpretazione ha orientato il lavoro di "aggiornamento" secondo il concilio, si sono registrati tanti frutti di santità e di vita apostolica.
Continua ancora Benedetto XVI: "Nella grande disputa sull'uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il concilio doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell'antropologia" (Insegnamenti, vol. i, 2005, p. 1026). Esso stesso doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna, un rapporto iniziato in maniera problematica con il processo a Galileo; rapporto spezzatosi in seguito quando Immanuel Kant definì la "religione entro la sola ragione" e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello stato e dell'uomo che in pratica non concedeva più spazio alla Chiesa ed alla fede. Nell'Ottocento si era registrato un duro scontro tra un liberalismo radicale alleato con la pretesa delle scienze naturali di abbracciare tutta la realtà, rendendo superflua l'"ipotesi Dio" e la Chiesa che, sotto Pio ix, condannò lo spirito dell'età moderna. Seguirono anni di reciproca diffidenza e chiusura, ma con il passare degli anni, e siamo al secolo xx, l'elaborazione della dottrina sociale della Chiesa e la progressiva apertura a Dio delle scienze naturali, che lavorando con un metodo limitato all'aspetto fenomenico della realtà si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non poteva comprendere la totalità della realtà, segnarono un processo di reciproco avvicinamento. Vennero così a chiarirsi tre ambiti di domande a cui il concilio doveva rispondere: definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; chiarire il rapporto tra Chiesa e Stato moderno e, collegato con questo tema, approfondire il problema della tolleranza religiosa, questione questa che esigeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo.
Mi chiedo ora: quale era la visione che del concilio aveva Karol Wojtyla? Da ogni suo intervento sia da arcivescovo di Cracovia, e ancor più da Pontefice, si comprende facilmente che per lui i decreti conciliari non segnano una rottura con il passato, ma sono un invito ai pastori a tradurre il messaggio evangelico in modi comprensibili all'età contemporanea; un lavoro questo che non tocca l'essenza delle verità di fede immutabili, bensì la maniera di presentarle agli uomini di ogni epoca. Che questo sia il modo con cui recepì il concilio vaticano II il servo di Dio Giovanni Paolo II lo si comprende da tanti significativi interventi. Mi limiterò qui a citarne qualcuno.
Nel 1985, per ricordare i venti anni della chiusura del concilio, egli convocò un sinodo straordinario dei vescovi, ed in quella circostanza i padri sinodali non mancarono di evidenziare le "luci e ombre" che avevano caratterizzato il periodo post conciliare. Riprese le considerazioni del sinodo nella Lettera Tertio Millennio adveniente, in preparazione al grande Giubileo del 2000, affermando che "l'esame di coscienza non può non riguardare anche la ricezione del Concilio" (n. 36).
La preoccupazione di Papa Wojtyla fu dunque sempre quella di salvaguardare la genuina intenzione dei padri conciliari, recuperando, anzi superando quelle "interpretazioni prevenute e parziali" che di fatto impedirono di esprimere al meglio la novità del magistero conciliare.
C'è poi il discorso che egli tenne il 27 febbraio del 2000, al convegno internazionale di studio proprio sull'attuazione del concilio. In quella circostanza affermò che anzitutto il concilio fu "un'esperienza di fede per la Chiesa", anzi - disse testualmente - "un atto di abbandono a Dio che, da un esame sereno degli Atti, emerge sovrano".
E continuò asserendo che chi volesse avvicinare il concilio prescindendo da questa chiave di lettura "si priverebbe della possibilità di penetrarne l'anima profonda". Inoltre - egli proseguì - il concilio fu una vera sfida per i padri conciliari, che consisteva - e cito ancora testualmente - "nell'impegno di comprendere più intimamente, in un periodo di rapidi cambiamenti, la natura della Chiesa e il suo rapporto con il mondo per provvedere all'opportuno "aggiornamento". Ed aggiunse, facendo leva su ricordi personali: "Abbiamo raccolto quella sfida - c'ero anch'io tra i padri conciliari - e vi abbiamo dato risposta cercando un'intelligenza più coerente della fede. Ciò che abbiamo compiuto al concilio è stato di rendere manifesto che anche l'uomo contemporaneo, se vuole comprendere a fondo se stesso, ha bisogno di Gesù Cristo e della sua Chiesa, la quale permane nel mondo come segno di unità e di comunione" (Insegnamenti, xxiii, 1, 2000, p. 274). E pertanto, una lettura del concilio come rottura col passato è decisamente fuorviante.
Sempre in questo memorabile discorso, egli fece sue le parole di Paolo vi che, aprendo la quarta sessione, definì il concilio: "Un grande e triplice atto d'amore": un atto d'amore "verso Dio, verso la Chiesa, verso l'umanità" (Insegnamenti, iii, 1965, p. 475). Ed aggiunse Giovanni Paolo II che l'efficacia di quell'atto non si era esaurita, ma continuava ad operare attraverso la ricca dinamica dei suoi insegnamenti.
Torno ora brevemente alla già citata assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi. Aprendola, il 24 novembre del 1985, Giovanni Paolo II affermò: "Il concilio, che ci ha donato una ricca dottrina ecclesiologica, ha collegato organicamente il suo insegnamento sulla Chiesa con quello sulla vocazione dell'uomo in Cristo" (Insegnamenti, viii, 2, 1985, p. 1371). Cristo - Chiesa - Uomo: ritorna dunque il tema di questo vostro convegno. La costituzione pastorale Gaudium et spes, molto cara a questo Pontefice - ponendo gli interrogativi fondamentali a cui ogni persona è chiamata a rispondere, non cessa di ripetere queste parole sempre attuali: "Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo" (n. 22), parole che Papa Wojtyla volle riproporre nei passaggi fondamentali del suo magistero perché segnano come la "vera sintesi a cui la Chiesa deve sempre guardare nel momento in cui dialoga con l'uomo di questo come di ogni altro tempo". Il vescovo Karol Wojtyla, appena terminato il concilio, aveva scritto che "prendendo in esame l'insieme del magistero conciliare, ci accorgiamo che i pastori della Chiesa si prefiggevano non tanto e non soltanto di dare una risposta all'interrogativo: in che cosa bisogna credere, quale è il genuino senso di questa o quella verità di fede o simili, ma cercavano piuttosto di rispondere alla domanda più complessa, che cosa vuol dire essere credente, essere cattolico, essere membro della Chiesa?".
Per lui, dunque, il concilio vaticano II fu il concilio "della Chiesa", "di Cristo", "dell'uomo", parole che descrivono lo stretto rapporto esistente tra l'ecclesiologia, la cristologia e l'antropologia del vaticano II. Parlare di Gesù, è parlare della Chiesa e quindi dell'uomo: l'uno richiama necessariamente l'altro perché non si può dividere la storia della redenzione in categorie che non abbiano a che fare con la nostra storia e personale e comunitaria.
(©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2008)
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