12 maggio 2008

Il vero erede di sant'Ambrogio? Alessandro Manzoni (Osservatore Romano)


Vedi anche:

Il Papa a Genova, la sfida dei giovani: sei notti in chiesa in attesa di Benedetto

La Chiesa, unità nella diversità, spiega Benedetto XVI a Pentecoste (Zenit)

Sì alle sollecitazioni del popolo della rete: il sito del vaticano è anche in latino (Il Tempo)

Sergio Romano si scusa per avere affermato che l'otto per mille viene devoluto al Vaticano ma...

VISITA PASTORALE DEL PAPA A SAVONA E GENOVA: GLI APPUNTAMENTI TELEVISIVI

Chiesa universale, frutto della Pentecoste: riflessione del Papa e il suo forte appello per il Libano, alla Messa e al Regina Caeli (Radio Vaticana)

Il Papa: "Nella Pentecoste sono inseparabili la dimensione personale e quella comunitaria, l’"io" del discepolo e il "noi" della Chiesa" (Parole del Santo Padre alla recita del Regina Coeli. Appello per il Libano)

Papa: ''No a compromessi con mentalità del mondo''. Preghiera in cinese

"A Pentecoste la Chiesa viene costituita non da una volontà umana, ma dalla forza dello Spirito di Dio che dà vita ad una comunità una e universale" (Omelia della Santa Messa di Pentecoste)

La portata profetica dell’«Humanae Vitae»

Bellissimo evento a Montignoso di Gambassi Terme (Firenze) in onore della Madonna di Fatima

Il Papa: la sessualità non sia vissuta come una droga; educare i giovani al rispetto (Paglialunga)

LA VOCE DELLA FEDE CRISTIANA. INTRODUZIONE AL CRISTIANESIMO DI JOSEPH RATZINGER, BENEDETTO XVI, QUARANT'ANNI DOPO

Il Papa e i 40 anni dell'Humanae vitae: «Fu gesto di coraggio. No alla sessualità che diventa una droga» (Bobbio)

Il Papa a Savona. I bagarini tentano di vendere i pass. Attenzione: i biglietti sono gratuiti!

Card. Ratzinger: "Il Cristianesimo è fuoco, non una faccenda noiosa, un pio profluvio di parole grazie al quale possiamo attaccarci a qualsiasi treno, pur di esserci" (Omelia di Pentecoste, Monaco di Baviera, 14 maggio 1978)

Tra gli inni presenti nella moderna liturgia ambrosiana ci sono anche brani tratti da "La Pentecoste"

Il vero erede di sant'Ambrogio? Alessandro Manzoni

di Inos Biffi

Alcuni degli inni presenti nell'attuale liturgia ambrosiana hanno come autore Alessandro Manzoni: provengono dai suoi Inni Sacri, secondo la volontà del cardinale Giovanni Colombo, che fu intelligente e acuto conoscitore di Manzoni.
È certamente significativo che la Chiesa di Milano, che ebbe come vescovo il più grande e geniale autore di inni liturgici, abbia accolto per la sua preghiera la poesia sacra di Manzoni, un laico cristiano, assiduo e lucido frequentatore della liturgia ambrosiana.
Esattamente non sappiamo quando abbia deciso di scrivere degli inni sulle festività cristiane, forse già nei primi tempi della sua conversione, nel 1810. In un manoscritto cartaceo, conservato nella sala manzoniana della Braidense, è contenuto l'elenco di dodici inni, che secondo il programma del poeta dovevano costituire l'opera; in realtà, gli inni per l'Epifania, l'Ascensione, il Corpo del Signore, la Cattedra di San Pietro, l'Assunzione, i Morti (rimase incompiuto l'Ognissanti) non furono composti.
Dopo aver scritto La Risurrezione, Il nome di Maria e Il Natale, in una lettera del 9 febbraio 1814 Manzoni informava il Fauriel della sua "intenzione di farne il seguito ("l'intention d'en faire une suite"), e in un'altra, del 25 marzo del 1816, gli comunica: "Mi sono sforzato di riportare alla religione quei sentimenti nobili grandi e umani che derivano naturalmente da essa; non so se ci sia riuscito; del resto, non è che un inizio, e se posso il mio progetto è di comporne ancora una dozzina, a celebrazione delle solennità principali dell'anno" ("célebrant les solemnitées principales de l'année").
Manzoni, a pochi anni dalla conversione, ha già colto, si direbbe anticipando il Vaticano II, il luogo del dogma e il fondamento della pietà cattolica. Il proposito di tradurre in poesia quelle solennità rivela chiaramente l'importanza che ai suoi occhi esse avevano assunto come segni efficaci della presenza e come fonti dell'esperienza del mistero cristiano. Quelle memorie, ricorrenti nel tempo e nel ritmo della Chiesa, lo avevano particolarmente attratto, e il celebrarle lo avrebbe occupato a comprenderne e a illustrarne il senso, ora che, tornato alla fede, ne era diventato assiduo e persuaso frequentatore.
A ben vedere, una comunanza di ragioni collega Manzoni, autore degli Inni Sacri, a sant'Ambrogio, che nei suoi inni alimentava la fede e accendeva la pietà del suo popolo, insieme mostrando la bellezza e il fascino dei misteri cantati nella sua poesia.
Tra gli inni sacri di Manzoni, il più lirico e il più riuscito è La Pentecoste.
Appartiene "agli anni di vena pronta, di gettito pieno" (Cesare Angelini) - siamo nel 1822 - e lo stesso autore ebbe ad affermare "ch'era quanto di meglio gli fosse uscito in fatto di poesia", pur potendosi anche dire che l'"Ermengarda è la sua lirica maggiore" (Angelini).
L'inno - nota il cardinale Colombo - scaturisce nel poeta dalle "convinzioni della fede che gli urgono dentro". Il suo tema è lo Spirito di Pentecoste, dove a risaltare è, prima di tutto, una perfetta e sorprendente teologia della Chiesa, unita alla manifestazione della sua "gioiosa appartenenza" ad essa.
Verrebbe da osservare che, per diventare teologo, Manzoni non ha aspettato il Vaticano II quando, essere laico teologo parve, più che il frutto di reale capacità e assidua laboriosità, un diritto e una pretesa clamorosa e dagli scarsi risultati.
A Pentecoste, per l'effusione dello Spirito, nasce la Chiesa. Essa ne è tutta ricolma e ne rappresenta il simbolo vivo. Dove c'è lo Spirito, lì c'è la Chiesa, e dove c'è la Chiesa, lì c'è lo Spirito.
A sentire Manzoni definire la Chiesa, si resta stupiti di come il poeta, in termini precisi e luminosi, di origine biblica e patristica, ne colga perfettamente e ne esalti in modo splendido l'intimo mistero che, pure, l'ecclesiologia diffusa della sua epoca, giuridica e apologetica, lasciava piuttosto in ombra: "Madre de' Santi, immagine / della città superna; / del Sangue incorruttibile / conservatrice eterna". Basterebbero questi tratti a mostrare la profondità e in certo senso la novità della visione ecclesiologica di Manzoni: la Chiesa è santa e madre di santità; prefigura la Gerusalemme celeste, "nostra madre" (Galati 4, 26); vive, nell'Eucaristia, del Corpo dato del Signore e del suo Sangue sparso e ne custodisce e attesta l'alleanza eterna.
Viene spontaneo paragonare questa figura della Chiesa, attraente e piena di mistero, a quella che non pochi teologi - o sedicenti tali - oggi amano presentare: si direbbe che provino una invincibile vergogna a parlare della "Santa Madre Chiesa", e soprattutto a contemplarla nel suo stato invisibile e celeste.
Una simile Chiesa è da loro giudicata astratta, non impegnata nel sociale, lontana dalla vita della gente, remota dalle sue vicissitudini.
In realtà proprio la gente si aspetta la Chiesa autentica, non quella diluita e confusa in tante vaghe comunità, secondo un ecumenismo leggero; e la Chiesa autentica è "una sola": quella che è il Corpo di Cristo, la sua Sposa e nostra Madre, che, proprio perché dimorante in cielo - "lassù", come asserisce Paolo - si estende sulla terra e, sostenendoci nell'esistenza lungo il tempo, ci rende già partecipi della grazia e della gloria.
Con la sua penna penetrante e libera il cardinale Biffi affermava - e c'era Benedetto XVI ad ascoltarlo -: "La fede dei semplici era solita parlare di "Santa Madre Chiesa"; espressione che però oggi non è tanto di moda tra i cristiani acculturati. Anzi, nel linguaggio critico e un po' risentito di molti, la Chiesa più che di una madre, sembra avere i lineamenti di una figlia riottosa da correggere, quando non di una peccatrice da convertire", sulla quale, si potrebbe aggiungere, pesano trascorsi secolari di cui arrossire e di cui non finire mai di chiedere perdono.
Ma vediamo come Manzoni, per aver capito veramente la Pentecoste, con felice tocco prosegua a disegnare e ad ammirare i tratti che distinguono la Chiesa: cattolica e diffusa in ogni spazio, essa è segnata dalla passione, è militante ed è orante; la sua lunga storia è una storia di martirio e di associazione alla passione del Signore; una storia di lotta con lui e di comunione alla sua preghiera: "Tu che da tanti secoli, / soffri, combatti e preghi; / che le tue tende spieghi/ dall'uno all'altro mar".
Le connotazioni che seguono, accompagnate da viva e diffusa gioia, uniscono in modo stupendo bellezza e teologia: la Chiesa è il luogo della speranza; è la casa del Dio vivo; è la compagna della sofferenza del Signore e la confidente dei suoi intimi segreti; è il frutto della sua vittoria o della sua Pasqua: "Campo di quei che sperano; / Chiesa del Dio vivente; / compagna del suo gemito/, conscia de' suoi misteri, / [...] della sua vittoria/ figlia immortal".
Prima della venuta dello Spirito, la Chiesa era solo un gruppo di discepoli impauriti, timorosi e appartati. Fu lo Spirito a rianimarla, a infonderle vigore, a illuminarla, a renderla a tutti visibile, e ad aprire le sue labbra all'annuncio incessante del vangelo: "[...] su te lo Spirito / rinnovator discese, / e l'inconsunta fiaccola / nella tua destra accese; quando, segnal de' popoli, / ti collocò sul monte, / e ne' tuoi labbri il fonte / della parola aprì": sempre una limpida e appassionata teologia della Chiesa, a confronto della quale appaiono ancora più deprimenti le teorie di quanti, ottusi al suo mistero, non riescono a scoprire e a intravedere "tutta l'intima gloria della Figlia del Re".
D'altra parte, Manzoni, nel quale l'esperienza cristiana sempre più si approfondisce e matura, non fa che tradurre in versi rapidi e chiari le parole di Cristo: "Voi siete la luce del mondo; una città posta su un monte non può restare nascosta. Nemmeno si accende una lucerna per metterla sotto il moggio; la si pone invece sul candelabro affinché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Risplenda così la vostra luce davanti agli uomini, affinché, vedendo le vostre buone opere, glorifichino il Padre vostro che è nei cieli" (Matteo 5, 14-16).
Disceso ad animare la Chiesa, lo Spirito, dalla voce molteplice da tutti compresa, raccoglie e ricompone in unità gli uomini dispersi dalla confusione delle lingue: Manzoni lo illustra, intessendo e volgendo magistralmente in poesia i passi della Scrittura sul mattino di Pentecoste.
Lo Spirito, con i suoi doni molteplici, compie il miracolo di un rinnovamento universale. Da lui proviene un'umanità nuova e riscattata. A lui risalgono l'annunzio e la diffusione del vangelo e la luminosa testimonianza della fede; è sua grazia una pace inalterata e inespropriabile - "[...], che il mondo irride, / ma che rapir non può" - e il raggiungimento, pur nella distanza degli spazi, dell'unità dei cuori.
Per lo Spirito gli animi spenti si trovano ravvivati, e in forza del suo amore si acquietano gli animi ribelli. Da lui sono suscitati pensieri irreprensibili, e nella sua effusione - quale "piacevol alito" e "aura consolatrice" - ricevono conforto e rasserenamento gli sfiduciati; da lui i propositi di violenza sono spazzati via, ed è elargito il timore e insegnata la pietà: doni tutti, che attingono energia dallo Spirito e crescono sotto il suo "mite lume", che inesauribilmente dona e provvede la vita.
Il poeta enumera e riconosce questi frutti dello Spirito in un séguito di commosse e ripetute invocazioni, dietro le quali si sente risonare il canto stupendo del Veni Creator, forse di Rabano Mauro, e la mirabile sequenza del Veni, Sancte Spiritus, di Stefano di Langton.
Manzoni mostra di averli intimamente gustati e assimilati; ma i suoi versi non ne sono semplicemente la traduzione: con la sua genialità poetica e il fervore della sua fede egli rifonda e rinnova quelle invocazioni, dotando il nostro vocabolario cristiano di un linguaggio nuovo e originale: il più nuovo e originale che esso abbia conosciuto dopo Dante.
Ma un altro aspetto appare nuovo nella teologia e nella pietà manzoniana di Pentecoste. Si direbbe che egli apra allo Spirito i confini umani più intimi e familiari. Egli ne invoca l'effusione santificante e consolatrice soprattutto nell'esistenza quotidiana, semplice e umile: l'esistenza dei "miseri" e di "tutti i figli d'Eva", per i quali il Signore ha patito sulla croce, e quella del "povero", che per merito dello Spirito può lietamente sollevare il suo sguardo al cielo, "ch'è suo", e al quale il ricco porge il proprio dono con amicizia e discrezione.
In particolare, Manzoni invoca lo Spirito per il mondo in cui egli affettivamente vive e che lo circonda: quello rappresentato dalla famiglia, dalle spose e dalle madri, dai bambini e dalle fanciulle, dai giovani e dagli adulti, dai vecchi e dai morenti, senza che vengano dimenticate le vergini, celate nei monasteri.
Le sue espressioni sono di una lucentezza e di una suggestione incancellabili. Il poeta implora la venuta dello Spirito perché si espanda nell'"ineffabil riso" dei bambini - i "nostri bamboli" -; perché sparga la "casta porpora" sul viso delle fanciulle e conceda le "pure gioie ascose" alle "ascose vergini"; e perché consacri il "verecondo amor" delle spose.
E qui il pensiero va alla moglie di Manzoni, Enrichetta Blondel, che, "insieme con le affezioni coniugali e con la sapienza materna - così egli scriveva di lei, dedicandole l'Adelchi - poté serbare un animo verginale".
Ma le accese invocazioni della più solenne e sublime poesia manzoniana non sono terminate. Proseguono, a domandare che lo Spirito governi il "confidente ingegno" dei "baldi giovani", guidi il "viril proposito" degli adulti, adorni la vecchiaia - le "canizie" - di desideri lieti e santi, per brillare, infine, negli occhi di quanti muoiono sorretti dalla speranza - nel "guardo errante/ di chi sperando muor" -. Non c'è condizione e stato di vita che non abbia bisogno dello Spirito. Manzoni lo supplica per tutti.
Con rara finezza ancora il cardinale Giovanni Colombo fu specialmente attento a far intravedere, prefigurati ne La Pentecoste, personaggi e accenti che prenderanno forma concreta altrove - nell'Adelchi e nel romanzo -, coi temi della femminilità e della maternità, che l'inno sacro evoca "attraverso immagini riassuntive e colme di tenerezza": Manzoni "tra riga e riga, già qui ci fa balenare i personaggi che poi diverranno famosi; e ce li fa balenare col volto personale e col ritratto realistico e psicologico che sarà descritto nelle pagine dell'immortale romanzo". Era il pensiero di Cesare Angelini che chiamava le liriche "anticipi del romanzo", "albeggiamenti del capolavoro e del suo mondo in piena", dove avverrà "lo sbocco definitivo della lirica nella prosa".

(©L'Osservatore Romano - 11 maggio 2008)

Nessun commento: