18 gennaio 2008

Il cardinale Cottier ripropone i contenuti e le novità del "Gesù di Nazaret" di Joseph Ratzinger (Osservatore Romano)


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Il cardinale Cottier ripropone i contenuti e le novità del "Gesù di Nazaret" di Joseph Ratzinger

Ridare alla fede il diritto di cittadinanza contro ogni pregiudizio

Francesco M. Valiante

In otto mesi ha venduto più di due milioni di copie, ma non è quello che si dice un libro facile o popolare. Parla di Cristo, eppure è stato scritto anche per i non cristiani e per coloro che non credono. È l'opera di un Pontefice, che però non si sottrae a rilievi e critiche. Nasce da un'esperienza di fede, ma va giudicato anzitutto con il metro della ragione e dell'intelletto.
È una lettura tutt'altro che scontata o convenzionale quella che il cardinale Georges Marie Martin Cottier, Pro-Teologo emerito della Casa Pontificia, propone del "Gesù di Nazaret" di Joseph Ratzinger.
In questa intervista a "L'Osservatore Romano", il porporato domenicano parte proprio dal successo editoriale del volume - la cui diffusione toccherà quest'anno ben cinquanta Paesi del mondo - per riproporre i contenuti e le novità di un testo che non ha a che fare solo con la ricerca teologica ma con la storia e con il pensiero dell'uomo.

Non la sorprende che un libro del genere abbia raggiunto in così pochi mesi una tale popolarità?

Direi proprio di no, anche se io sono dell'avviso che questo non possa essere considerato un libro popolare in senso stretto. È sicuramente un libro difficile. Non tanto sul piano del linguaggio, che in realtà è molto chiaro, limpido: il Papa usa pochissimi termini riservati solo agli addetti ai lavori. Piuttosto sul piano della problematica, che appartiene anzitutto alla storia del pensiero prim'ancora che all'esegesi. Si tratta di una riflessione sulla natura della teologia. E, come tale, presuppone una certa cultura teologica.

Questo vuol dire escludere dal novero dei lettori coloro che non credono o non sono cristiani?

Certamente no. Io penso che ci si debba accostare ad ogni libro - quindi anche ad un testo del genere - sforzandosi di comprenderne il senso profondo, ma anche esercitando la propria personale riflessione. E questo possono farlo tutti. Quando leggo un libro, cerco di capirlo e perciò mi pongo delle domande. È l'istanza critica. Ed è del tutto legittima. Un libro ci fa pensare, ci trasmette un messaggio che non dev'essere ricevuto in maniera passiva. È un messaggio vivo, che nutre lo spirito. Ciò vale a maggior ragione per un libro che parla di Gesù Cristo.

Ma per leggere queste pagine è necessaria la fede o basta esercitare la ragione?

È evidente che fede e ragione non si contraddicono. Ma direi di più: una lettura semplicemente razionalista del libro è certamente possibile, ma non per questo è più oggettiva. Tutte le persone che pensano hanno alle spalle, in qualche modo, una filosofia. Nessuno è assolutamente neutrale. Nel campo dell'esercizio della ragione, il presupposto di fede del cristiano ha diritto di cittadinanza allo stesso modo del presupposto di chi si ritiene un razionalista. I razionalisti non sono i rappresentanti della ragione in assoluto, ma i rappresentanti della loro ragione particolare, concreta. Per il credente la teologia deve essere considerata come la ragione che medita sul dono ricevuto dalla luce della fede. Per me che credo, per esempio, la lettura del libro coinvolge anzitutto la sfera della fede. Tuttavia essa sollecita anche il mio pensiero, l'intellectus fidei: cerco di penetrare con l'intelletto ciò in cui credo. In questo senso, il lavoro del Papa - come ogni testo di teologia - è un aiuto ad esprimere, approfondire e vivere la propria fede.

Eppure lei stesso ha riconosciuto che anche per un credente la sua lettura non è sempre agevole.

Ho detto che, in effetti, presuppone un minimo di cultura teologica. Ma questo non è un ostacolo insuperabile. Il libro, per esempio, potrebbe essere letto anche in gruppi parrocchiali, guidati da un sacerdote che aiuti gli altri ad aprirsi ad una lettura più profonda della Scrittura. Tutte le sue pagine sono indirizzate verso Gesù Cristo, verso le prime testimonianze raccontate nei testi sacri. Dunque, è un aiuto alla lettura dei Vangeli; ma un aiuto che parte dalla ricerca esegetica - qualche volta anche discutibile - sviluppatasi nel corso dell'ultimo secolo e che quindi suppone una certa conoscenza delle fonti, dei metodi, delle forme d'interpretazione della Bibbia lungo la storia. Del resto, la Sacra Scrittura come tale è il libro del popolo di Dio. E il luogo privilegiato - anche se non esclusivo - di lettura di questo libro, come di tutti i libri del genere, è la Chiesa.

La ricerca di Benedetto XVI si può considerare una novità nel campo dell'indagine biblica o soltanto un'opera di valutazione e di sistematizzazione del lavoro svolto sinora dagli esegeti?

Penso che si tratti di un libro nuovo. Già nella premessa il Papa rivela che il testo è frutto di un lungo cammino interiore. Egli fa riferimento alla propria formazione culturale e racconta che da giovane - io sono un po' più anziano di lui e quindi ho gli stessi ricordi - ha letto delle belle vite di Gesù, tra cui quelle di Guardini, di Papini, di Karl Adam, di Daniel-Rops. Dopo quegli anni, una certa parte dell'esegesi ha cominciato a mettere in discussione la storicità dei Vangeli e della Sacra Scrittura. Sicché si è arrivati ad una distinzione, trasformatasi poi in una vera e propria frattura: da una parte il Cristo della fede, che viviamo nei sacramenti, nella liturgia, nella vita quotidiana; dall'altra il Cristo della storia. Sul quale - è stato sostenuto - la stessa scienza storica non può dirci praticamente nulla. Si è introdotta così in molti studiosi una sorta di schizofrenia spirituale, che ha portato qualcuno - penso per esempio a Bultmann - ad approdare a forme di radicalismo. Tanto che ad un certo punto si è cominciata ad affermare l'impossibilità di scrivere una vita di Gesù. Si trattava di una sfida cruciale, decisiva. Così il cardinale Ratzinger, ora divenuto Papa Benedetto XVI, ha accettato questa sfida.

E come ha risolto il problema del rapporto tra il Gesù storico e il Gesù della fede?

In questo libro il Papa sostiene, in maniera molto convincente, che il Gesù del quale ci parlano i Vangeli è veramente il Gesù della fede. E lo fa a partire da un giudizio sull'uso del metodo storico-critico nell'esegesi. Egli non rigetta questo metodo, anzi ne riconosce il valore. Ma mostra che esso, in quanto tale, ha dei limiti. Per questo, farne un metodo assoluto è un errore. Vi sono altre possibilità di lettura della Bibbia. Dalle quali emerge, oltretutto, che i testi sacri non sono scaturiti da una collettività intesa in senso generico, ma da autori ispirati. Proprio questa ispirazione che viene da Dio è il fondamento dell'unità della Sacra Scrittura. Gli autori biblici non scrivono come letterati, ma come "mandati", ossia come membri del popolo di Dio, quindi condotti e guidati da Dio.

Questo significa che occorre andare oltre la lettera del testo sacro?

C'è un aspetto interessante da rilevare in proposito. Le parole della Bibbia sono spesso riprese in più di un libro sacro e ogni volta manifestano delle potenzialità nuove, di cui l'autore stesso non è sempre consapevole. Questo è frutto dell'ispirazione divina. I testi biblici non sono chiusi in se stessi, ma comportano un'apertura verso il futuro. È, in definitiva, la visione cristiana: tutta la Bibbia converge verso Cristo. Il libro ricompone così la frattura tra il Gesù storico e il Gesù della fede, mostrando chiaramente che la lettura vera di Cristo è la fede. Si tratta di un aspetto molto importante, perché la visione razionalista afferma invece che la dottrina cristiana si costruisce solo a partire dalla lettera, dagli elementi scientificamente sicuri della Sacra Scrittura. Questo non è vero. È la fede stessa che permette di leggere in profondità i testi della Bibbia rispettando pienamente le esigenze scientifiche.

Ma così ritorniamo alla questione di partenza: com'è possibile conciliare la prospettiva di fede con l'uso del metodo storico-critico?

Il Papa dice che la fede non è rinuncia alla serietà scientifica, tutt'altro. Il metodo storico-critico, infatti, ha per noi un valore particolare: ci obbliga ad essere attenti alla storia. E la fede cristiana si poggia su fatti reali. Il discorso biblico non è un discorso simbolico, ma storico. Il cristianesimo non si può capire senza la storia. In questo senso, il libro dà risposte esaurienti a due grandi tentazioni che vedo presenti nel pensiero contemporaneo. La prima è quella che definirei "marcionismo" - dal nome dell'eretico dei primi secoli Marcione - che rigetta totalmente l'Antico Testamento per riferirsi soltanto al Nuovo Testamento, perdendo così il senso della continuità tra i testi sacri: continuità che, ovviamente, non vuol dire omogeneità, in quanto bisogna fare i conti con la novità assoluta di Cristo. La seconda tentazione, che ritroviamo per esempio in Hegel, è lo gnosticismo. In base ad esso, i fatti storici sono visti come simboli, come traduzioni - immaginarie o concrete - di entità che sono metafisiche. Di fronte a queste tentazioni, occorre affermare la storicità del Vangelo, che è alla base della fede cristiana.

A proposito del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, il Papa dedica pagine intense alle radici ebraiche della fede, in particolare riferendosi all'opera del rabbino Jacob Neusner. In questo senso, il libro può favorire il dialogo con gli ebrei?

Certo, è questa è la miglior riprova del fatto che non è stato scritto solo per i cristiani. Nel confronto a distanza che il Papa fa con Neusner ci sono due aspetti esemplari che valgono per ogni dialogo. Il primo è il rispetto, la stima reciproca: non devono esserci ambiguità, ciascuno deve poter dire ciò che pensa. Il secondo sta nel coraggio di affermare e di accettare le differenze. Non bisogna avere una visione utilitaristica del dialogo, che miri ad ottenere un consenso ad ogni costo. Ognuno deve riconoscere i problemi. Certo, lo scopo del dialogo è anche quello di unirci: su molti punti possiamo collaborare e agire insieme, perché abbiamo valori comuni. Ma laddove restano le divergenze, il rispetto diventa una cosa essenziale. Questo vale per ogni dialogo, anche per quello con l'islam.

Il teologo Ratzinger che cosa vuol dire ai suoi colleghi studiosi attraverso questo libro?

Non c'è dubbio che la sua opera indichi una pista precisa per il lavoro teologico, in una linea del tutto conforme alle istanze del Concilio Vaticano II, in particolare della Dei Verbum, la quale afferma che l'anima della teologia è la Sacra Scrittura. Joseph Ratzinger è un teologo che ha preso la penna dopo aver letto attentamente tutto il lavoro degli esegeti. Mi ha molto colpito il fatto che, nella premessa al volume, egli si riferisca anche a due lavori della Pontificia Commissione Biblica, della quale è stato presidente: Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana e L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Si tratta di un aspetto molto interessante, perché rivela che la problematica del libro era anche la problematica personale del teologo Ratzinger. Credo perciò che questa opera aiuterà anzitutto i teologi a capire come oggi il loro lavoro debba partire sempre dal testo sacro: cosa che, del resto, hanno sempre fatto nel corso dei secoli i grande teologi, a cominciare dai padri della Chiesa e da san Tommaso d'Aquino, i quali sono stati prima di tutto lettori della Scrittura.

Il Gesù proposto da Benedetto XVI può ancora parlare all'uomo dopo duemila anni?

Il vero Gesù è il Risorto che siede alla destra del Padre, il Vivente nella Chiesa. Dunque, il Vangelo è sempre attuale. Non possiamo credere che Gesù sia presente ogni giorno nell'Eucaristia e pensare invece che la parola appartenga definitivamente al passato. Il Vangelo è vita. È parola vivente del popolo vivo che è la Chiesa: un popolo che si esprime nella parola, è guidato dalla parola, si ritrova nella parola. Perciò il suo luogo privilegiato è la liturgia. I due momenti principali della messa sono appunto la liturgia della parola e la liturgia eucaristica. Costituiscono un'unità, come afferma il Concilio Vaticano II.

Che rapporto c'è tra questa attualizzazione della parola e la tradizione?

Nella Scrittura si trova la tradizione vivente, che è affidata alla Chiesa. Ma la Chiesa non è un museo. Essa vive della parola. In essa si sviluppano tutte le potenzialità della parola. Questo avviene già all'interno della Bibbia stessa, ma si realizza anche nell'ambito della vita della Chiesa. Che cosa vuol dire che la Scrittura è viva? Vuol dire che rivela continuamente le sue potenzialità e così illumina anche i problemi sociali e morali che sono sorti in tempi successivi a quello di Cristo. Gesù è venuto in un momento preciso della storia. Ma è venuto per rimanere nella storia. La Chiesa è la continuazione di Cristo. E i cristiani non possono non pensare ai problemi concreti alla luce della fede.

Ritorniamo alla popolarità del libro. Come si spiega, secondo lei, il successo che in questo periodo riscuotono anche altri libri su Cristo, di segno diametralmente opposto a quello del Papa?

Diciamo anzitutto che il successo di queste opere sembra coincidere con il diffondersi di una certa sete religiosa, di un interesse per le tematiche della fede. Ma si tratta di un interesse molto ambiguo. Ci sono quelli che vogliono veramente conoscere Gesù. E ci sono quelli per i quali Gesù è una figura scomoda, imbarazzante o addirittura da combattere. In ogni caso, il libro del Papa ha una qualità che nessuno può negare: la sua onestà scientifica. Una qualità che sinceramente non trovo in tutti gli altri libri. Certo, ci sono testi rigorosi e onesti su Gesù scritti anche da non credenti. Ma c'è una vasta letteratura di ispirazione radicalmente anticristiana. Direi comunque che tutto questo appartiene alla lotta permanente che la Chiesa deve affrontare nel mondo. Mi sembra, anzi, che sia da considerarsi un buon segno, perché vuol dire che il cristianesimo non lascia indifferenti. Resto comunque convinto che dietro questi fenomeni si possa riconoscere un'aspirazione religiosa diffusa, alla quale dobbiamo rispondere. E questo libro è certamente una bella risposta.

Il Papa stesso, nella premessa al volume, non si sottrae agli eventuali giudizi critici nei confronti della sua opera. Nell'ambito del dibattito aperto sul libro, ci sono rilievi o osservazioni che lei si sente di fare?

Devo confessare di non aver letto il volume con questo spirito. Certamente un esegeta potrebbe avanzare dei rilievi. L'interpretazione di un testo non è sempre univoca. Del resto, questa è la sorte di ogni libro. Nessun'opera può considerarsi esauriente. A maggior ragione, i testi difficili e complessi suscitano più facilmente divergenze interpretative. Io comunque l'ho trovato un lavoro pensato e ponderato molto seriamente. Del resto, è significativo che, soprattutto su alcuni punti controversi, lo stesso Joseph Ratzinger non si sottragga alla discussione ed entri personalmente nel dibattito con grandi esegeti come Rudolf Schnackenburg o Pierre Grelot. In questo senso, il libro può essere a sua volta la base per una discussione. Tuttavia, suggerirei di essere attenti su questo punto, perché mi sembra che oggi si sia diffusa una sorta di moderna malattia: quella di affrontare un testo con il pregiudizio della critica. È Nietzsche che parla della diffidenza metodologica. Ma, a mio giudizio, il primo approccio con un libro non dev'essere di diffidenza, quanto piuttosto di accoglienza, pur senza perdere il senso critico. Lo stesso vale per "Gesù di Nazaret".

È sufficiente questo lavoro per cogliere pienamente il pensiero di Joseph Ratzinger su Gesù o sarà necessario aspettare l'annunciata seconda parte?

Io nutro una grande attesa per il secondo volume, in particolare per la parte in cui tratterà della passione di Gesù e del mistero pasquale. L'inno cristologico della lettera ai Filippesi, citato nella premessa al primo libro, apre idealmente proprio al mistero della croce. Nella stessa premessa il Papa anticipa che la seconda parte del suo lavoro conterrà anche un capitolo sui racconti dell'infanzia di Cristo, che, com'è noto, sollevano problemi e questioni particolari. Personalmente sono molto curioso di leggerlo. E, a quanto sembra, non ci sarà da attendere molto.

(©L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2007)

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