12 marzo 2008
Dal simbolo alla realtà del sacrificio (Oddone Camerana per l'Osservatore Romano)
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Dal simbolo alla realtà del sacrificio
di Oddone Camerana
Una cosa è certa: una vittoria, un gesto, un comportamento, una dichiarazione, un impegno, una sentenza di assoluzione, ma anche il loro contrario: una sconfitta, una rinuncia, una condanna o un tradimento, non sono mai tanto significativi come, quando, e se, funzionano "a livello simbolico". Così succede che ognuna delle quantità elencate sia in corsa per guadagnarsi il proprio posto nell'olimpo dei traguardi simbolici. In tempi come i nostri, dominati dalla capacità di comunicare o meno - capacità riconosciuta a un messaggio, a un avvenimento o a quanto scegliamo o siamo in grado di compiere - tutto ciò che si perde sul piano reale può essere valorizzato, o recuperato, su un altro piano, quello simbolico. In questo senso non c'è da stupirsi, per esempio, del fatto che i serbi cristiani ortodossi celebrino la nascita - epica - della loro nazione facendo riferimento a una sconfitta, quella subita dai turchi musulmani nel corso della battaglia di Kosovo Polje (28 giugno 1389). Il fatto è che per quanto ancora bruciante quella sconfitta funziona a livello simbolico.
Altro esempio: la scelta di un candidato cosiddetto civetta da parte di un partito politico può far sorridere qualcuno per la sua inconsistenza. Ciononostante, sul piano simbolico, si può trattare di una scelta azzeccata, convalidata cioè dal suo valore simbolico. Lo stesso si può dire di una punizione che può apparire trascurabile solo a chi non ha preso in considerazione la sua valenza, ancora una volta, simbolica.
Cedevolmente prigionieri di questa cultura fondata sulla magia del traslato, in nome della quale niente sembra esistere se non sul piano dei significati, l'uso inflazionato che se ne fa induce a chiedersi se non si tratti di un abuso.
Il primo dato che emerge è la mescolanza di elementi positivi ed elementi negativi che concorrono a costituire il patrimonio di tutto ciò che è simbolicamente rilevante. La rilevanza della condanna all'ergastolo nell'Ile du Diable, inflitta il 5 gennaio del 1895 al capitano Alfred Dreyfus, trovava fondamento nella sua capacità di compattare le fila di quella parte di Francia che credeva nei valori nazionalistici e dell'esercito. Non c'entravano la verità e la giustizia, ma l'idoneità del verdetto a unire una parte di quel paese spezzato. L'importante era che, "nel bene e nel male", fosse una sentenza che univa.
Che le cose stiano in questo modo lo dice per altro la parola stessa, il greco synbàllein, che vuol dire "mettere insieme". In questo senso sono simboli collaudati e hanno valore, per l'appunto unificante, le bandiere, i motti, le frasi celebri, gli inni nazionali, certe musiche, certe località, le divise, certi segni convenuti e tutto ciò che di volta in volta si rivela in grado di aggregare le persone in un ricordo e o in una speranza, in qualcosa in cui si riconoscono. Il che però può avvenire sia a favore di qualcuno, sia contro qualcuno. Un'"ambiguità", quest'ultima, che allarma per lo meno tutti coloro che hanno un senso tragico della vita, ma che non preoccupa invece i linguisti. Per i quali senza i simboli, e senza l'innocua presenza di questi ultimi, non saremmo neanche in grado di comunicare, al punto che per indicare, ad esempio, l'esistenza di un bosco, saremmo costretti a nominare uno per uno tutti gli alberi che lo compongono. Essenziale, in altre parole nel processo di simbolizzazione, è l'aspetto dell'"arbitrio" a cui si deve la nascita del linguaggio stesso - simbolico. Così avviene che nominando "albero" un albero, si evita di elencare tutti i tipi di alberi che compongono il bosco in questione. Ciò non toglie tuttavia che l'"essere" albero non esiste se non grazie a un atto di arbitrio, una scelta che d'autorità impone a questo termine di esistere per rappresentare tutti gli altri alberi. Con buona pace dei linguisti, è però a detta scelta unilaterale che si deve l'aspetto negativo che, come si è detto sopra, può annidarsi nel cuore profondo dei simboli.
Prendiamo ad esempio il simbolo della croce di Cristo. È un simbolo positivo o negativo? Positivo, sarà certamente la risposta; senonché lo è diventato grazie alla redenzione, il che non toglie che prima di essere il simbolo che unisce i cristiani a favore della vittima innocente, sia stato il simbolo in grado di pacificare le folle lacerate da tensioni interne unendole contro un presunto criminale che veniva giustiziato.
Anche qui non si trattava di una questione di giustizia, ma di capacità rappresentativa del soggetto arbitrariamente selezionato allo scopo riconciliatorio, così come avvenuto con il termine "albero" selezionato allo scopo di rappresentare tutti gli alberi di un bosco e porre fine al caos generato dal fatto di non disporre di un termine adatto.
Il fatto è che dall'impasse positiva/negativa dei simboli non si esce se non si torna, guidati da René Girard, al concetto originario di simbolo e all'evoluzione imposta a questo termine dalla tradizione cristiana. Simbolo è parte per il tutto, ed è, sempre secondo l'ipotesi di Girard, la prima esperienza reale del fenomeno di un qualcosa che, come il simbolo che sostituisce il tutto, si stacca e si differenzia dalla totalità contaminata, di un qualcosa capace di "stare al posto di" e di rappresentare questo tutto in forma significativa ed evocativa e perciò di essere significato. Una esperienza, questa, che prima di essere linguistica, è stata una esperienza tragica, cioè antropologica. Di qui l'ipotesi girardiana che il primo simbolo non sia una parola, un termine, ma una persona, un nostro prossimo identificato, antropologicamente parlando, nella vittima innocente scelta arbitrariamente dal gruppo. Il capro espiatorio, in altri termini, che si separa dai componenti di una comunità in crisi di cui fa parte - componenti resi doppi, cioè rivali, dalle vendette reciproche - e che sostituisce e rappresenta, separandoli dalla violenza da espellere e da cui purificarsi. Pertanto, in quanto cultura simbolica, cioè ordinata sulla base di simboli costituiti dalla violenza, è nata l'ipotesi che la nostra cultura non possa che essere una cultura fondata sulla violenza, violenza redenta dal cristianesimo che ne ha rivelato i contorni fino a quel momento nascosti.
Per questo nel rito dell'eucarestia non si parla di simbolizzazione - anzi la si esclude - e il corpo e il sangue di Gesù sono dichiarati presenti in ogni sacrificio celebrato come forme vive e reali. Differenza centrale del rito cristiano dunque, da cui è assente ogni ambiguità simbolica e rappresentativa, come avviene invece nei riti di riconciliazione pagani fondati sulla vittima ritenuta colpevole.
È dunque al rovesciamento descritto che dobbiamo la trasformazione dei simboli da momenti negativi e violenti, come accadeva nell'era dominata da Dioniso e dalle divinità equivalenti, in occasioni positive e a vantaggio, o in difesa, di qualcuno, come nell'era benedetta dall'antropologia evangelica. L'importante è saperlo, esserne grati e farne buon uso.
(©L'Osservatore Romano - 12 marzo 2008)
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