11 marzo 2008

Un incontro sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo promosso dal Pontificio Consiglio della Cultura: "Alle sorgenti di un'identità culturale" (O.R.)


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Un incontro sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo promosso dal Pontificio Consiglio della Cultura

Alle sorgenti di un'identità culturale

di Luca M. Possati

Ebraismo e cristianesimo: due identità culturali a confronto, due radici profondamente intrecciate, alle quali l'Occidente non può evitare di tornare per riconoscersi e definirsi. Riflettere sulle condizioni di questa unità tutta particolare è stato lo scopo dell'incontro "Israele e Vaticano: riflessioni sulla cultura ebraico-cristiana", promosso dal Pontificio Consiglio della Cultura e dall'Ambasciata d'Israele presso la Santa Sede, e tenutosi la sera di lunedì 10 a Roma. Principali relatori sono stati il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, l'arcivescovo Gianfranco Ravasi, e l'ambasciatore d'Israele presso la Santa Sede, Oded Ben-Hur.
Ma si può parlare oggi di una cultura "ebraico-cristiana"? Quali sono i sentieri culturali che ebraismo e cristianesimo possono percorrere insieme? Quali le difficoltà e i punti di incontro?
L'arcivescovo Ravasi ha proposto cinque percorsi di dialogo, cinque "fonti comuni" basate sull'esegesi del testo biblico. In primo luogo una concezione teologica, che si ramifica in una visione globale della realtà, con al centro una componente essenziale: il monoteismo.
"Il capitolo terzo dell'Esodo con quella frase, "Io sono colui che sono", è la pagina più emblematica per la visione del trascendente nell'Occidente", ha sottolineato Ravasi. "Si pensi soltanto a tutta la riflessione metafisica e ontologica sviluppatasi a partire da questa frase, che probabilmente si muoveva in un'altra direzione. Ma pensiamo, d'altra parte, a quella straordinaria scena che compare in Esodo 32-34 che rappresenta la cancellazione iniziale di ogni polimorfia divina: via gli occhi dal vitello d'oro!".
Il secondo percorso di dialogo sta in una comune visione antropologica: l'uomo biblico non è l'uomo platonico. È un'unità psico-fisica, una persona nella sua totalità, compresa anche nella sua dimensione corporea. "Se noi guardiamo il testo ebraico di Genesi 1 - ha spiegato l'arcivescovo Ravasi - nella sua struttura possiamo cogliere il parallelo: "maschio e femmina li creò". L'immagine di Dio che è in noi è il rapporto di amore tra l'uomo e la donna. È questo quel che ci dà un'idea del divino. Se noi non avessimo il corpo non potremmo rendercene conto, esprimere questa bipolarità sessuale nella sua comunione. Il racconto di Genesi 2 rappresenta il mistero di questa creatura compatta con un "alito di vita", un respiro misterioso che è solo dell'uomo e di Dio e che non è l'anima ma probabilmente la coscienza".
Il terzo percorso sta nel valore della parola: tanto nell'ebraismo, quanto nel cristianesimo, la Rivelazione avviene tramite il soffio della voce. "La stessa creazione è affidata alla parola - afferma Ravasi - la realtà più fragile, che dura solo pochi secondi. La creazione come evento sonoro. Non come teomachia, lotta intra-divina, come insegnava la tradizione mesopotamica. Non come fatica. La stessa esperienza della storia è affidata alla parola. Nel Deuteronomio, quando Mosé sul Sinai deve descrivere l'esperienza del Sinai lo fa con una frase che è un gioiello: "Dio vi parlò di mezzo al fuoco; voi udivate il suono delle parole, ma non vedevate alcuna figura; vi era soltanto una voce". La parola è capace di custodire in sé il mistero e la trascendenza".
Attraverso la voce passa l'esperienza della storia, l'importanza della storicità. Si apre così il quarto percorso: Dio parla nei fatti, la teofania si realizza nella "carne" delle vicende umane. "Sia l'ebraismo che il cristianesimo - ha sottolineato Ravasi - preparano un grande nucleo culturale che farà sì che l'Occidente sia ancorato alla storia, a differenza del mondo indù o della concezione buddista. Il tempo è l'elemento capitale per riuscire a conoscere Dio".
È il "grande codice", usando l'espressione di Northrop Frye, a fare da ponte, da testamento comune, il punto che unisce tutti i percorsi, che richiama a sé ebraismo e cristianesimo. "Anche Nietzsche - ha ricordato Ravasi -, un autore che ha sempre combattuto sistematicamente la cultura ebraico-cristiana, nei materiali preparatori ad Aurora scrive che "tra ciò che noi proviamo alla lettura di Pindaro o di Petrarca e alla lettura dei Salmi c'è la stessa differenza tra la terra straniera e la patria". Il "grande codice" culturale ed etico è sempre stato il testo sacro. Di esso tutti siamo figli; quelle sono le grandi matrici ebraiche e cristiane".
Ebraismo e cristianesimo, dunque. C'è però un terzo elemento, al contempo distinto da- e legato ad- entrambi, che storicamente non può essere ignorato: la cultura israeliana contemporanea. "Se i cristiani vogliono comprendere meglio l'Israele di oggi - ha detto l'ambasciatore Ben-Hur - allora non debbono fermarsi all'elemento religioso, ma conoscere una cultura nuova, una politica, una poesia, una letteratura, una lingua". Oggi, il mondo culturale israeliano è "un miscuglio affascinante di comunità, di provenienze miste, di connessioni sociali mai sperimentate prima nella nostra storia". I nuovi migranti - ha sottolineato l'ambasciatore - "arrivano da oltre centoquaranta Paesi e imparano l'ebraico, trovano un posto di lavoro e una sistemazione in breve tempo". È un mondo diverso dalla cultura ebraica mondiale, sorto da un lungo processo di laicizzazione. "La cultura israeliana - ha aggiunto - è meno lontana dalla cultura cristiana di quella ebraica. Da una parte, gli ebrei hanno portato in Israele molti valori e costumi assorbiti nell'Europa cristiana, dall'altra, l'ebreo israeliano è generalmente più secolare, laico, meno legato alla religione ebraica di quanto lo siano gli ebrei della diaspora. La differenza è diventata più evidente con il rientro del popolo ebraico in Israele".
Di qui il progetto di "un'agenda reciproca e comune che tocchi punti come la lotta contro l'antisemitismo e contro il terrorismo, promuova scambi culturali, accademici e, infine, incentivi i pellegrinaggi". Il compito di Israele e della Santa Sede è preparare "un'agenda comune per lanciare un vero dialogo sociale, politico e culturale".
"Le differenze tra noi, che hanno le loro radici nella nostra storia comune, hanno creato odio e discriminazione - ha aggiunto Ben-Hur - ma il nostro più grande nemico è l'abisso di ignoranza, o peggio ancora la mancanza di voglia di conoscerci l'un l'altro". Tornare alle radici comuni per comprendere le reciproche identità di oggi: è questa la condizione di un nuovo dialogo culturale. "Lo Stato moderno di Israele e la sua particolare cultura che si sta evolvendo ancora oggi - ha ribadito Ben-Hur - sono in sostanza la rinascita di una cultura e di una tradizione che esistevano in Israele duemila anni fa e da cui è nata anche la cultura cristiana. Come sappiamo, gli ebrei e la loro cultura sono stati dispersi nella diaspora per millenni. L'ebreo ha quindi assorbito gli usi e i costumi di ogni Paese, ma nello stesso tempo ha influito e dato il suo contributo a ogni società, mantenendo la sua identità. Così si è sviluppata la capacità del popolo ebraico di assimilare alcune caratteristiche della cultura locale, prevalentemente quella cristiana". Per questo, ha detto l'ambasciatore, "la cultura israeliana è un crogiolo, interessante e unico, nel quale si incontrano valori, costumi, ideali e concetti misti che attingono dalla cultura ebraica e da quella cristiana e che interagiscono in un costante movimento, dentro il plasma chiamato "israelianità". È una risposta anche alle nuove sfide che lo Stato di Israele deve affrontare, come la sicurezza, la propria identità morale, culturale e democratica, così come il ruolo e il significato dell'essere il cuore del mondo ebraico".

(©L'Osservatore Romano - 12 marzo 2008)

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