12 luglio 2008

Card. Tettamanzi sul caso di Eluana: "Mai chiudere la porta della vita, il mistero ci sfugge"


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«Una speranza per Eluana come per la figlia di Giairo»

Tettamanzi: mai chiudere la porta della vita, il mistero ci sfugge

DI DIONIGI TETTAMANZI

La vicenda di Eluana Englaro, la giovane in ' stato vegetati­vo' da quattordici anni, mi colpisce come credente e cittadi­no, ma soprattutto mi interpella come Vescovo della terra in cui E­luana abita. In questi giorni sono stati davvero numerosi i senti­menti, le riflessioni e gli interro­gativi che sono cresciuti nel mio cuore. Desidero ora confidarne al­cuni a quanti il Signore ha affida­to alle mie cure pastorali. Vorrei essere discreto, entrando in pun­ta di piedi in una storia umana quanto mai delicata, nella quale il mistero della vita si fa più denso, quasi inaccessibile alla luce della sola ragione, e lancia una sfida formidabile per la libertà di cia­scuno di noi.

Rileggendo una pagina del Vangelo

Sfogliando i quotidiani e leggendo i titoli che commentano la sen­tenza su Eluana, il mio pensiero tende sempre più a staccarsi dal­le parole a stampa. Sono parole u­mane, anche vere, talora indovi­nate: ma non mi bastano. Cerco allora una parola nuova, origina­le, unica: la trovo nel vangelo di Marco, quando racconta della fi­glia di Giairo, un capo della sina­goga, la quale giace gravemente ammalata ( cfr. Marco 5,21- 24. 35­43).
Mentre egli sta supplicando Gesù di venire a trovarla e guarirla, dal­la sua casa alcuni vengono a dir­gli: « Tua figlia è morta. Perché di­sturbi ancora il Maestro? » . Per i parenti e gli amici, dunque, la gio­vane appare morta, immobile sul letto, incapace di parlare e di sor­ridere come era solita fare un tem­po. Nella sua abituale sobrietà narrativa, l’evangelista non ag­giunge altri particolari. Lascia però intuire l’opinione molto de­cisa, quasi inappellabile, dei por­tavoce della famiglia: la condizio­ne in cui versa la figliola è ormai senza speranza. Perché darsi an­cora da fare per lei, accudirla, di­sturbare persino il Maestro?
Ma Gesù non è dello stesso pare­re: « La bambina non è morta, ma dorme » . Un’affermazione contra­ria all’opinione di molti, un’e­spressione paradossale, quasi in­genua: aprire una speranza quan­do la porta della vita sembra essere ormai chiusa per sempre. Il Maestro questa volta si è sbagliato: « Ed essi lo deridevano » , ricor­da il vangelo.
In realtà gli occhi di Gesù vedono quello che è invisibile agli oc­chi umani: i segni del­la vita personale non sono scomparsi, ma solo resi quasi imper­cettibili ai sensi, così deboli da non appari­re più credibili. Infatti la persona umana, nel suo mistero, sfugge al nostro sguardo. Non è forse così anche per chi non può manife­stare la propria co­scienza ed entrare in relazione con noi at­traverso le parole, i sensi, i gesti?
Chissà se la figlia del capo della sinagoga e­ra clinicamente mor­ta oppure giaceva in uno stato comatoso o vegetativo. Il racconto di Marco non ce lo fa sapere e qui il mio pensiero si fer­ma. Ma un’intuizione mi prende: l’intelligenza della vita e la spe­ranza nella vita non sono separa­bili.
Per comprendere e abbracciare con lo sguardo della ragione la vi­ta dell’uomo in tutte le sue possi­bili circostanze occorre aprirsi al pensiero del futuro. La ragione de­ve osare un’apertura sul domani, non può appiattirsi sul presente, rimanere prigioniera di un’opi­nione o di un’ostinazione, ma spa­lancarsi a tutta la realtà della vita, quella visibile e quella che i nostri sensi non riescono a percepire.
Allo stesso tempo la speranza del­la vita scaturisce dal presenti­mento della realtà nella sua pie­nezza, della verità tutta intera, quella che sfugge alla scienza del­l’uomo ma è rivelata dallo Spirito di verità ( cfr. Giovanni 16,13) nel­la vita stessa di Gesù di Nazareth. Entro così in un ordine più alto, nella sfera della fede, che mi fa contemplare la vicenda di Gesù nella sua singolarità. Lui solo ha potuto dire alla figlia di Giairo:
Thalita kum, fanciulla, io ti dico, alzati! E ridestandola con potenza alla vita terrena ha dato inizio in lei a quella vita divina che si com­pirà in pienezza nell’ultimo gior­no con la risurrezione della carne. Nella luce di questa prospettiva trascendente prende forma un giudizio etico, che nasce dalla fede cristiana ma non è estraneo alla ragio­ne: non possiamo spegnere la vita di nessuna creatura umana senza ucci­dere, insieme a lei, la speranza che vi­ve in essa, quella di essere fatta per la vita e non per la morte.

Libertà, responsabilità e solidarietà

Sempre con cuore di pastore e nel desiderio di offrire un aiuto alla formazione della coscienza e alla chiarezza dell’azione, vorrei la­sciarmi provocare da alcuni inter­rogativi suscitati dalle diverse pre­se di posizione emerse in questi giorni e soffermarmi così sulle au­tentiche esigenze della libertà e re­sponsabilità di quanti, a vario ti­tolo, hanno in custodia una per­sona gravemente malata, che di­pende, per la sua esistenza, dalle loro cure.
Ricordo anzitutto che il luogo pro­prio delle decisioni che riguarda­no la cura di un malato è la rela­zione personale e fiduciale tra il pa­ziente (se è in grado di comunica­re con chi lo assiste), i suoi fami­liari ed il personale medico e in­fermieristico. E’ davvero impor­tante custodire e proteggere que­sta relazione, favorendo lo svilup­po di un dialogo clinicamente o­biettivo, moralmente onesto e so­cialmente responsabile. Al centro di questo dialogo deve stare sem­pre il bene fondamentale della vi­ta di ogni malato, un bene che non dipende dalla qualità delle sue ca­pacità fisiche, psichiche e comu­nicative, ma che trova la sua radi­ce nel fatto stesso di esistere. In o­gni caso, la rinuncia a terapie sproporzionate o a cure futili non può comportare la sospensione della nutrizione e della idratazio­ne, nella misura e fino a quando esse risultino efficaci nel sostene­re la fisiologia del corpo. Anche qualora effettuata mediante vie artificiali, la somministrazione di acqua e cibo costituisce un mez­zo ordinario e proporzionato di conservazione della vita.
Dobbiamo poi domandarci: il ri­spetto della scienza e della co­scienza dei medici e delle respon­sabilità proprie di coloro ai quali è affidata la cura delle persone non autosufficienti non esige una giusta discrezione da parte delle autorità amministrative e giudi­ziarie?
Esse non devono condi­zionare, con interventi normativi, la libertà ed il compito che cia­scuno possiede, secondo le pro­prie idealità e capacità, di interro­garsi sulle ragioni della cura e del­la promozione del bene della per­sona umana sofferente. Una li­bertà e un compito, questi, che la società è chiamata a promuovere, offrendo opportunità di riflessio­ne, di formazione e di confronto. La Chiesa a pieno titolo, nel ri­spetto dell’autonomia dello Stato e delle diverse tradizioni e conce­zioni culturali e religiose, ha qui il dovere di offrire il proprio prezio­so e singolare contributo.
Infine, non dovremmo appellarci ad un senso più forte di solidarietà creativa e operosa nei confronti della solitudine e dell’abbandono in cui si trovano tanti nostri fra­telli e sorelle, ammalati grave­mente e da lungo tempo? Grazie all’intelligente e amorevole cura delle Suore Misercordine e dei lo­ro collaboratori sanitari, Eluana non ha sperimentato fino ad oggi solitudine e abbandono. La loro testimonianza ci è di conforto e di incoraggiamento a fare altrettan­to.

Preghiera e discernimento

Sento forte il bisogno della pre­ghiera. Celebrando l’Eucaristia chiedo al Signore che la nostra co­munità cristiana possa trovare pa­role vere e tenere comportamenti giusti, ispirati a un ve­ro e grande amore per la vita di ogni donna e di ogni uomo, in ogni stagione e circostan­za.
Avverto la necessità che su questa vicenda umana sensibilissima il clima culturale e so­ciale sia animato da un profondo rispetto: il rispetto dovuto a tutte le persone coin­volte – e, sia pure in forme e gradi diversi, lo siamo tutti noi – e nello stesso tempo ai valori fondamentali che danno senso e o­rientamento al nostro nascere, vivere, soffri­re e morire. Ma di fronte all’inesti­mabile realtà della vi­ta umana, che è sem­pre un bene in sé, il so­lo rispetto è ben poca cosa se non è segno ed esigenza di amore: un amore che chiede di raggiungere la profon­dità propria della ve­nerazione per ogni vi­ta umana. E la venera­zione non si ferma al riconosci­mento del valore trascendente della nostra esistenza, ma esige anche l’umile consapevolezza e il coraggio di assumersi le respon­sabilità personali e sociali di dife­sa e promozione del bene della vi­ta umana. Solo a partire da un atteggiamen­to di autentica venerazione del ' mistero' che è in ogni uomo po­trà sorgere una riflessione neces­saria e adeguata, che sia critica e pacata, illuminata dalla ragione e corroborata dalla fede, una rifles­sione cioè che non si lasci offu­scare dall’emotività né dominare da pregiudizi, e neppure diventi facile preda di strumentalizzazio­ni o di interessi estranei al vero be­ne della persona. Come Vescovo esprimo la mia vi­cinanza umana e cristiana a que­sta giovane, alla sua famiglia, alle Suore Misericordine che, insieme al personale sanitario della Clini­ca ' Talamoni' di Lecco, l’hanno accolta e curata con professiona­lità e amore grande.

© Copyright Avvenire, 12 luglio 2008

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