13 agosto 2007

Mons. Capovilla: Papa Roncalli rimase colpito da un discorso tenuto dal card. Frings ma scrittto da Joseph Ratzinger


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L’ex segretario di papa Giovanni XXIII si racconta

«Nel 1942 mi avevano destinato come cappellano tra i soldati in Russia Ma all’ospedale militare mi ritennero inadeguato e finii con gli avieri a Parma»

«Nel ’60 il cardinale Frings tenne un discorso sul Concilio che Angelo Roncalli commentò: "Mi ha davvero capito". Quel testo lo aveva scritto Joseph Ratzinger»

«Nella mia stanza ho appeso le fotografie dei monaci di Tibhirine: li guardo e penso che anche nel mondo di oggi si può credere che l’amore è più forte dell’odio»

Di Marco Roncalli

La sua anagrafe ecclesiale registra sessantasette anni di sacerdozio - dei quali dieci accanto a Giovanni XXIII come segretario - e quaranta da vescovo. Quella civile ne segna novantadue il prossimo 14 ottobre. A Ca' Maitino, luogo per eccellenza delle memorie roncalliane nel suo paese natale - Sotto il Monte, in provincia di Bergamo - incontriamo monsignor Loris Francesco Capovilla, da mezzo secolo sotto i riflettori, suo malgrado. Scriviamolo subito: Capovilla generalmente non si sottrae alle interviste. Però non ama confessare nulla di sé. E finisce per parlare sempre e solo di papa Giovanni. Anzi a dirla tutta, preferisce far cantare le carte: messe a disposizione degli addetti ai lavori. Quelle contano. Questa volta però gli abbiamo chiesto di lasciar spazio ai suoi ricordi, con semplicità. A cominciare da lontano. «Devo la mia formazione innanzitutto a mia madre - racconta -, donna forte, solida, ligia ai principi e ai valori, religiosa; poi all'Azione cattolica. Iscritto nel 1926, ricordo che la tessera di quell'anno recava la firma dell'avvocato Raffaele Jervolino».

Come ricorda l'inizio della sua vita di prete?

«Sono stato ordinato nella Basilica della Salute a Venezia dal cardinale Adeodato Giovanni Piazza il 23 maggio 1940, Corpus Domini. Con me dieci compagni: tutti passati all'altra riva, che ricordo con tenerezza. Di lì a poco l'entrata in guerra dell'Italia. Mentre pregustavo la gioia della prima Messa cantata nel duomo di Mestre, gli anglo-americani scatenarono il primo bombardamento su Mestre-Marghera e la festa andò in fumo...».

I primi incarichi?

«Monsignor Ettore Bressan, rettore del seminario, voleva farmi proseguire gli studi. Nel frattempo mi affidarono diversi impegni: coadiutore a San Zaccaria, catechista al "Paolo Sarpi", cerimoniere capitolare a San Marco, assistente diocesano degli studenti medi. Due anni dopo mi proposero l'incarico di cappellano militare. All'ordinariato, a Roma, mi destina rono all'Armir, corpo di spedizione in Russia, ma all'ospedale militare di Mantova mi ritennero inadatto e fui dirottato all'aeroporto di Parma per l'assistenza religiosa ad allievi ufficiali e avieri, ma diedi una mano anche al seminario minore, nella direzione spirituale dei ragazzi, su incarico del vescovo Colli».

C'è ancora chi ricorda quando lei salvò degli avieri dalla deportazione facendoli uscire dalla cittadella come suoi collaboratori o quando nell'hangar dell'aeroporto davanti ai tedeschi usò parole coraggiose sulla fedeltà alla patria nel disorientamento dopo la rottura dell'alleanza con la Germania...

«Lo so. E mi è motivo di conforto, specie pensando ai giorni mesti dell'armistizio dell'8 settembre '43. Ritornato a Venezia a dicembre, pagai lo scotto del servizio con tre anni di malattia. Per tenermi occupato mi fecero cappellano dell'ospedale per gli infettivi a S. Maria delle Grazie in mezzo alla laguna, poi avevo l'impegno alla Rai: commento festivo del vangelo e saltuari servizi religiosi. Sino al 1953...».

Sono gli anni in cui fa il giornalista, sino all'incontro con il patriarca Roncalli?

«Non ho frequentato scuole, né avuto maestri, né fatto esperienze particolari per questa professione. Nel 1949 il patriarca Carlo Agostini mi designò alla successione del direttore della Voce di San Marco don Mario Greatti. All'obiezione circa la mia incompetenza sorrise e mi indusse ad accettare. Poi mi addossò anche la pagina locale quotidiana dell'Avvenire d'Italia affiancandomi un universitario colto: Tito Cortese. Proprio allora acquistai a rate, in Bacino Orseolo, una Olivetti 22. La direzione era ospite di uno sgabuzzino messo a disposizione dalle sorelle Cavagnis, proprietarie della Tipografia San Marco. Mio punto d'appoggio era il Servizio informazioni settimanali, il Sis, diretto da don Fausto Vallainc. In uno scatolone del mio archivio, conservo le mie conversazioni domenicali alla Rai di Ve nezia molte travasate nel settimanale. Povera cosa, ma che documentano l'ansia materna della Chiesa, il rifiuto della retorica e della violenza, la tensione al dialogo negli anni 1945-53».

Quel dialogo che poi ha imparato a declinare come servizio: alla scuola del patriarca Roncalli che la vuole accanto nel 1953 e poi alla scuola di lui Papa.

«Mia strategia di servizio era ed è con tutti il fraterno invito alla memoria, non alla mitizzazione; alla riconoscenza, non al lamento; allo sguardo fisso alla stella polare del nostro tempo, il Concilio Vaticano II, non da commemorare ma da attuare con la fede, la fiducia e la speranza di Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI».

Sta elencando i Papi della sua vita...

«Quelli sono otto per me. Avevo sei anni e tre mesi quando vidi in mano a papà La Domenica del Corriere con la copertina sull'esposizione della salma di Benedetto XV in San Pietro disegnata da Achille Beltrame. Trascorsi gli anni di seminario durante il pontificato di Pio XI. Quanto a Pio XII nel 1942, monsignor Luigi Figna, vice assistente nazionale della Gioventù Cattolica, mi presentò a lui come cappellano militare in partenza per la Russia. Pio XII ebbe parole soavi ed incoraggianti. Lo rividi più volte durante l'episcopato veneziano di Roncalli. Non posso dimenticare i suoi tanti segni di benevolenza e stima per Roncalli. Che a sua volta lo venerava e l'11 ottobre 1958 nell'elogio tessuto in San Marco gli applicò parole evangeliche: "Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti"».

Papa Montini?

«Paolo VI mi volle presso di sé nell'anticamera pontificia per un quadriennio, mi ordinò vescovo con le sue mani e mi ricolmò di paterna affezione. Il 21 giugno 1963, poche ore dopo la sua elezione, mi chiamò e mi disse con parole gravi e solenni: "In questa stanza le ho detto grazie da cardinale la notte del 31 maggio; adesso glielo ripeto da Papa. E mi preme dirle che se ho accettato questo immenso peso è stato solo per continuare l'opera avviata da papa Giovanni"».

E Giovanni Paolo I?

«Mi fu familiare dai miei anni veneziani. Patriarca di Venezia mi volle alcune volte a parlare al clero e al popolo. Avendo un giorno detto in pubblico che deponevo la penna e mi ritiravo nel mio castello interiore, mi scrisse commentando amabilmente: "Monsignore, non lasci cadere la penna. Lei è testimone, ha il dovere di testimoniare"».

Siamo a Giovanni Paolo II.

«Lo conobbi agli inizi del Concilio, accanto al cardinale Wyszynski. Ebbi un primo incontro con lui Papa a Castel Gandolfo nell'agosto del '79. Gli parlai di Giovanni XXIII, del Sinodo Romano, del Concilio e di altro, non sottacendo momenti di grave sofferenza. Lui commentò: "Papa Giovanni è stato un profeta. I profeti soffrono. Ciononostante egli ha avuto ragione e noi viviamo ora l'era nuova da lui inaugurata"».

Lei ha conosciuto anche Benedetto XVI?

«Prima del pontificato lo ebbi ospite a Loreto nel corso di una sua peregrinazione mariana. Parlammo a lungo dell'itinerario conciliare. E seppi che il discorso del cardinale Josef Frings a Genova nel '60 su invito del cardinale Siri lo aveva steso lui. Mi rivelò che in una successiva udienza a Frings il Papa lodò quel discorso dicendo di sentirsi perfettamente capito. Mi parlò anche della morte di Giovanni XXIII, notizia appresa mentre viaggiava in treno riferendomi i commenti commossi dei viaggiatori senza distinzione di confessione religiosa...».

Carità e verità sono due ali necessarie per far continuare a volare il Concilio, la forza dello Spirito... Però sul Vaticano II non sono un mistero letture divergenti. Che ne pensa?

«Io rifletto su quel "rinnovato invito" che significava per Giovanni XXIII più d'una cosa. Immettersi nella corrente di preghiera e di timidi approcci, avviati o consentiti dai predecessori e nel terreno dell'ecumenismo spirituale. Incarnare l'unum sin t di Gesù, per approdarvi nei tempi e nei modi ispirati dall'Alto. E mettersi in cammino. Lungo forse un millennio, come segnalò Mauriac la sera dell'11 ottobre 1962. Già nella bolla di indizione Humanae salutis, del Natale 1961, c'era tutto: fortificare la fede, rimirare la propria stupenda unità, dare maggiore efficienza alle strutture. E poi c'è il discorso di apertura dell'11 ottobre 1962: Giovanni XXIII prende le mosse dal Credo niceno-costantinopolitano e invita i Padri ad avviare i lavori portando con sé tutto il patrimonio della rivelazione e della tradizione, tutta la dottrina dei Concili».

È in questo modo che si deve tornare a dialogare?

«Pochi di noi sono abilitati a questo arduo esercizio. Il dialogo è consuetudine di dibattiti pacati e prolungati, finalizzati non alla resa incondizionata degli altri, ma alla crescita di tutti gli interlocutori. Presuppone chiarezza di intelletto, bontà, sincerità, fiducia».

Oggi, però, il dialogo deve fare i conti con problemi nuovi, più complessi: la violenza da fronteggiare, l'identità che non può essere calpestata... Quale testimonianza?

«Nella mia camera più intima ho appeso le fotografie dei sette monaci di Tibhirine, i trappisti rapiti e trovati sgozzati il 30 maggio 1996, sepolti nel giardino del monastero, là dove avevano piantato semi di fede, di speranza e di amore. Sette martiri, testimoni di amore al Dio dell'alleanza e all'alleanza da lui stabilita con l'umanità. Li guardo e penso che si può credere che l'amore è più forte dell'odio, la vita più forte della morte. E penso che ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio...».

Nessun rimpianto o delusione?

«Anche quelli. Ieri come oggi. Ma quando accade, rammento le estreme parole di papa Giovanni: "Abbiamo molti amici, ne avremo anche di più". Parole che infondono coraggio a procedere con fiducia, in comunione, disposti anche al martirio della pazienza...».

© Copyright Avvenire, 12 agosto 2007

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