24 settembre 2007

Papa Benedetto ed il capitalismo con l'anima


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Per Benedetto XVI ci vuole un capitalismo con l'anima

di Flavio Felice

In occasione dell’Angelus di domenica 23 settembre, Benedetto XVI, proseguendo il commento dei testi liturgici letti durante la solenne Celebrazione eucaristica, è tornato sul tema del retto uso dei beni materiali.

In particolare, Benedetto XVI è tornato sulla parabola del fattore infedele per distinguere tra un uso della ricchezza, ed in generale dei beni materiali, finalizzato alla partecipazione ed alla condivisione ed un uso della stessa che fa appello al bieco egoismo e alla fiera realizzazione di sé a scapito degli altri. Alcuni commentatori hanno letto nelle parole del papa una critica al capitalismo. Crediamo piuttosto che Benedetto XVI abbia voluto rimarcare la distinzione operata già da Giovanni Paolo II nel paragrafo 42 della Centesimus annus (1991) tra un capitalismo che offre gli strumenti di cui l’uomo può servirsi per venire incontro ai bisogni propri e degli altri ed un capitalismo che pretende di essere eletto a padrone dell’uomo (ma è lo stesso uomo che decide di eleggerlo), asservendo le persone alla ricerca della ricchezza materiale a scapito della salvezza dell’anima.

Da sempre la parabola del villicus iniquitatis in Lc. 16, i-9 rappresenta ciò che gli esegeti chiamano una crux interpretum. Non mi inoltro nell’analisi degli studi sul tema per ovvie ragioni di economia del pezzo e di semplificazione giornalistica, ma rinvio ad un articolo tanto breve quanto chiarificatore del compianto professor Pasquale Colella, professore di Esegesi Biblica alla Pontificia Università Lateranense. In un articolo apparso sulla prestigiosa rivista biblica “Paideia” – (Brescia, XIX, 1971, pp. 427-428), intitolato De Mamona iniquitatis, il professor Colella rilegge la parabola in questione tentando di svelare il mistero che si celerebbe dietro l’affermazione di difficile interpretazione: facite vobis amicos de mamona iniquitatis.

Ebbene, il “fatevi amici col denaro iniquo” sembrerebbe entrare in evidente contraddizione con i detti e gli ammonimenti che l’evangelista fa seguire alla parabola sul fattore infedele. Secondo Colella, alla base della crux interpretum ci sarebbe un clamoroso errore di traduzione. Per esattezza, riportiamo le parole dello stesso esegeta: “I traduttori del testo dal greco in ebraico hanno bemamonah. Ma al testo greco si deve soggiacere min-hammamonah e il min qui significa: magis quam, cioè comparativo avversativo, significato ordinario in ebraico: l’ek greco deriva quindi dal min e traduciamo il v. 9: ‘Anche io vi dico: fatevi amici piuttosto che mamona (la ricchezza iniqua), affinché quando veniate meno, v’accolgano negli eterni padiglioni’”.

Il fattore ladro, commenta Colella, diventa furbo e prudente nel momento in cui opta per l’amicizia piuttosto che per mammona. Si può servire la ricchezza come uno schiavo obbedisce al padrone, oppure ci si può servire della ricchezza per servire il bene supremo proprio e del prossimo. In tal senso, possiamo affermare che in chiave evangelica, e sulla base dell’esegesi compiuta dal Colella, siamo tutti fattori della oikonomia dell’unico Padrone, di fronte al quale siamo responsabili, dovendo rendere conto dell’uso dei beni del creato. Conclude Colella: “Se da cattivi amministratori e servitori di mammona cambieremo padrone, allora diventeremo amici di Dio e del Figlio suo, i quali ci accoglieranno nelle tende eterne”.

La questione, in anni più recenti, tra gli altri, è stata affrontata anche dal compianto professor Angelo Tosato, anch’egli esegeta dall’Università Lateranense. Scriveva a tal proposito: “Non ci si può nascondere, né si può trascurare, che la semplice lettura delle pagine della sacra Scrittura […] porta spontaneamente a disprezzare e a evitare la ricchezza, ed apprezzare invece e a cercare la povertà”. Sono queste le parole con le quali Tosato si inoltra sino a raggiungere la radice del rapporto – talvolta problematico come ha opportunamente osservato Benedetto XVI durante l’omelia del 23 settembre ed il successivo Angelus – tra la dottrina sociale della Chiesa e le istituzioni liberali, in particolar modo, tra la dottrina sociale e lo spirito del capitalismo.

Il dibattito, aperto da Max Weber nel 1905 con l’opera L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, ha finito per coinvolgere sociologi, economisti, storici e teologi. Sul versante della riflessione cattolica, intorno alla metà degli anni Venti (1924), emerge l’opera del giovane Amintore Fanfani: Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica dello spirito del capitalismo. Fanfani assume che l’archetipo antropologico fatto proprio dal capitalismo sia una figura d’uomo definibile unicamente a partire dall’interesse individuale, incapace di trascendere il proprio egoismo. Il Fanfani, una volta stabilito il nesso tra etica utilitaristica e pratica capitalistica, sostiene la tesi dell’incompatibilità. Nel tempo, sono stati in molti a falsificare la tesi di Fanfani, mettendo in discussione la presunta ipotesi fondativa: la “pretesa edonistica”. La stessa Centesimus annus nel paragrafo 42 affronta il medesimo problema a partire da un approccio alquanto differente, giungendo a conclusioni opposte a quelle del Fanfani, dimostrando quanto il problema non sia il “capitalismo”, bensì quale capitalismo. Riportiamo per intero il brano dell’enciclica nel quale Giovanni Paolo II chiarisce in modo inequivocabile i termini della questione sul rapporto tra cristianesimo e capitalismo: “Se con ‘capitalismo’ si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di ‘economia d'impresa’, o di ‘economia di mercato’, o semplicemente di ‘economia libera’. Ma se con ‘capitalismo’ si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell'economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa”.

Questo, dunque, parrebbe il punto più avanzato sul versante esegetico e dottrinale del rapporto tra cattolicesimo e spirito del capitalismo. Non v’è dubbio che, come ci ha fatto notare Tosato, la ricchezza in numerosi brani del Vangelo viene presentata come un ostacolo insormontabile per avere accesso al Regno di Dio. Basterà leggere i seguenti brani: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Lc 6,20) e “guai a voi ricchi, perché avete già la vostra consolazione” (Lc 6,24). Dalla lettura di questi brani non si evincerebbe forse una dottrina cristiana fortemente contraria all’economia di mercato? Seguendo le tracce esegetiche di Tosato la risposta è evidentemente negativa. Il nostro ci suggerisce di raggiungere la comprensione dei testi leggendoli ciascuno nel proprio contesto storico e letterario: “In particolare, per la comprensione dei Vangeli, si ritiene fondamentale distinguere tra l’originaria predicazione fatta da Gesù ai giudei e la riproposizione fattane, dagli apostoli prima e dagli evangelisti poi, a comunità crescentemente costituite da cristiani di cultura greca”.

Tosato, in definitiva, ci invita ad andare oltre una lettura “acritica, astorica, ascientifica” dei testi sacri. Una lettura dalla quale si evincerebbe una vulgata che perpetua l’opinione riguardo alla condanna evangelica della ricchezza e l’esaltazione ad abbracciare la povertà. Per Tosato questa sarebbe una prospettiva “dannosa e inattendibile” sia sul piano “teorico” sia su quello “pratico”. Il Vangelo, dunque, non condannerebbe la ricchezza in quanto demoniaca, ma denuncerebbe il fatto che essa sia caduta nelle mani del Demonio e dei suoi servitori. Né, tanto meno, il Vangelo condannerebbe i ricchi, bensì esalterebbe il loro sacrosanto dovere di essere caritatevoli. Così, ad esempio, per tornare all’aut aut da cui avevamo iniziato la presente riflessione di “Non si può servire due padroni”, per Tosato, esso non indicherebbe una scelta tra Dio e la ricchezza, bensì tra il “servire” (douléuein) Dio e il “servire” (douléuein) la ricchezza, diventare suo schiavo, eleggendola a proprio Kyrios. Soltanto in questo caso, secondo il Tosato, esisterebbe un’incompatibilità. Con riferimento al brano di Luca, afferma: “appare del tutto arbitrario leggere il detto in esame come una condanna radicale del perseguimento della ricchezza, quasi che la ricchezza sia di per sé demoniaca. Quel che il detto condanna è che il fedele proceda, lui, a modificare la natura della ricchezza, trasformandola in anti-Dio, rendendola demoniaca, demonio”.

Le analisi esegetiche di Benedetto XVI, di Colella e di Tosato incontrano quella di numerosi operatori d’impresa e di altrettanti studiosi di dottrine economiche proprio sul terreno della riflessione sul profitto. In questo senso, il ragionamento di Marchionne nel suo articolo pubblicato domenica 23 settembre dal “Corriere della Sera”, nel quale pone l’accento sull’esigenza che gli imprenditori, i manager e i lavoratori facciano propria una specifica cultura, in quanto elemento discriminante al fine di ottenere anche il successo imprenditoriale, sembrerebbe rappresentare un interessante punto d’incontro – aperto a possibili sviluppi – tra lo studio della filosofia d’impresa e la riflessione che la moderna dottrina sociale della Chiesa ha dedicato al tema dell’economia imprenditoriale.

L’esigenza – anche pastorale – di operare un’attenta analisi dell’indispensabile “indicatore” che chiamiamo profitto (Centesimus annus, n. 35) emerge dalla constatazione che esso è stato spesso accostato agli aspetti più deleteri dell’agire umano, a tal punto che il suo perseguimento è divenuto spesso sinonimo di egoismo, di avidità e di individualismo. Esiste una ricca letteratura che testimonia come sin dal Medioevo l’arte della mercatura fosse formalmente connessa alla ricerca del profitto e di come ci fosse la consapevolezza che quest’ultimo potesse essere ricercato anche onestamente. Sulla stessa lunghezza d’onda si sintonizzava il Vescovo di Firenze Sant’Antonino e per San Tommaso tra i motivi che giustificano i profitti dobbiamo considerarne fondamentalmente cinque: provvedere alla famiglia del mercante; aiutare i poveri; stimolare il benessere del paese; remunerare il lavoro del mercante; migliorare la merce. Negli autori menzionati, dunque, il profitto appare come un fine immediato legittimo, mentre ciò che viene espressamente condannato è il considerare il profitto come un fine ultimo al quale sacrificare la moralità dell’azione; in tal caso è illegittimo, per usare le parole di un umanista del XV secolo, lo smodato ed improbo desiderio di possedere (Leonardo Bruni) e non il perseguimento del profitto, al quale scopo “è ordinata quest’arte mercantile […] à quest’opera de la consecuzione del fine, concorrerà come istrumento atto” (Cotrugli).

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1 commento:

Blog creator ha detto...

Il Papa nell'Angelus, ha richiamato l'uso corretto della ricchezza.
Ma, notare, si tratta di aderire a Dio, al Cristo oppure a Satana.
Satana.

L'oppositore è lì, esiste, anche sulla ricchezza c'è il relativismo e si perde di vista a chi appartiene l'uso improprio di essa: il diavolo.

Mi sà che anche questo Angelus, nella profondità dottrinale suia tutto sommato passato inosservato nella suo senso reale, profetico.

Va bhe, tant'è.
Rosario, conversione, penitenza.