23 settembre 2007

Messa tridentina: i commenti di Giovanni Filoramo e Franco Cordero


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Ite, missa est

il fatto


La decisione di Benedetto XVI di reintrodurre la messa in latino, la disobbedienza di alcuni vescovi che temono un allontanamento dei fedeli. Dietro la questione liturgica gli antichi dilemmi di ogni religione: come comunicare il divino, esprimere l´inesprimibile, con quale preghiera coinvolgere tutti senza perdere il messaggio originario
Il linguaggio del rito tende a perpetuarsi nel tempo anche quando è diventato incomprensibile agli stessi officianti


GIOVANNI FILORAMO

Oggi, in una società postcristiana e individualista, in cui le pratiche religiose comuni dei fedeli, dalla messa ai riti funebri, tendono a perdere in rilevanza sociale privatizzandosi, non è facile rendersi conto della centralità e dell´importanza pubblica e comunitaria che per secoli la liturgia, con il suo corteo di riti, ha avuto nella storia delle differenti confessioni cristiane, per non dire di altre tradizioni religiose. La liturgia come insieme di riti, in genere fissati in un calendario che permette di articolare e strutturare il tempo sacro secondo un tipico criterio di ripetitività e circolarità, svolge infatti una serie complessa di funzioni, che contribuiscono in modo determinante a strutturare, mantenere e rinsaldare l´identità di una tradizione religiosa: si pensi alla sua capacità di coordinare ed esprimere molteplici sfere d´esperienza, al valore paradigmatico e all´efficacia performativa dei suoi riti per la comunità dei credenti, alla rilevanza teologico-politica delle sue celebrazioni che mirano a legare, in un più generale piano salvifico, destino della comunità dei credenti e destino del cosmo e della città terrena.
Questo è vero in particolare per una religione radicata nella storia come il cristianesimo, dove il cuore vivente della liturgia è costituito dalla riattualizzazione del sacrificio eucaristico compiuto dal Cristo, il Logos o Parola di Dio incarnata. In conseguenza di ciò, a differenza di altre liturgie, quella cristiana è portata a valorizzare in modo particolare il ruolo della parola e del linguaggio, dal momento che il soggetto e l´oggetto principale del dramma liturgico è qui diventata la stessa Parola di Dio.
«Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l´ho mandata» (Is. 55, 11). Questa affermazione del Signore attribuita al profeta Isaia contiene in sintesi il grande tema della Parola di Dio, che esprime la sua volontà e viene trasmessa agli uomini attraverso il suo profeta per essere realizzata. Essa pone il problema della stessa lingua di Dio, di cui è espressione. Le "lingue del paradiso", che Adamo parlava prima di peccare, manifestano anche sul piano del linguaggio il fatto che l´uomo è creato ad immagine di Dio e, dunque, in possesso di una lingua che è imitazione di quella divina. Gli angeli non ribelli ne conservano l´eco, celebrando di fronte al Signore l´eterna liturgia della sua lode.
Quanto all´uomo caduto, la liturgia, con la sua particolare lingua, diventa il luogo dove è possibile, sospendendo il tempo profano, ristabilire un contatto con la divinità anche sul piano della comunicazione. Certo, esistono altre vie per poter comunicare con Dio, grazie ai doni del suo spirito partecipando della sua lingua ineffabile: si pensi alla mistica, alle riflessioni esoteriche - presenti nelle tradizioni gnostiche dei tre monoteismi - sulla possibilità di conoscere il Nome segreto della divinità o, attraverso azioni teurgiche e decifrazioni di alfabeti mistici, di poter avere accesso al mistero di Dio attraverso un linguaggio particolare che altro non è che la stessa lingua di Dio, ricreando in sé il mistero dell´atto creativo originario, come insegna il racconto genesiaco della creazione come un atto linguistico. Ma è la liturgia, culto pubblico e collettivo della comunità dei credenti riunita, ad avere costituito nei secoli il luogo privilegiato, accessibile a tutti, per comunicare con la divinità, offrendo i propri doni, compiendo il sacrificio eucaristico e chiedendo protezione e salvezza per i fedeli.
Per giungere a questo scopo, le varie religioni usano spesso nel loro culto una lingua più o meno distante da quella comune, al punto da arrivare talora ad avere una lingua liturgica totalmente differente da quella parlata. Diverse sono le cause che possono portare a questa situazione, come la percezione dell´inadeguatezza del linguaggio normale per la comunicazione del e col divino, l´esigenza di sottrarsi all´errore e a ogni forma di inquinamento del messaggio primitivo, il presentimento che soltanto quella lingua ha valore in ordine alla produzione di determinati effetti. Grazie a un processo di ritualizzazione a cui concorrono vari elementi, tali lingue hanno la tendenza a fissarsi e rendersi immutabili. A determinare questo fenomeno concorrono fattori come la preoccupazione di conservare nella trasmissione il messaggio originario, la concezione che solo essa sia in grado di trasmettere adeguatamente un tipico messaggio religioso o di produrre l´effetto richiesto, non per ultimo una venerazione per quella lingua che si crede propria di Dio. Di qui, tra l´altro, una attenzione particolare alla plasmabilità della parola, perché sia in grado di rendere quanto più possibile la ricchezza inesauribile della lingua divina.
Al di là o al di sotto delle variazioni delle liturgie si ritrova, così, l´idea che il suono ha qualità flessibili che possono essere manipolate per esprimere sfumature di potere e di sacralità in modi che vanno al di là del significato delle parole, dalla variazione nel tono e nella velocità all´utilizzo di modelli sonori come il ritmo e la rima, all´uso di toni diversi, dal più elevato al silenzio: culmine mistico e paradossale della liturgia perché soltanto nel silenzio, imitatore del silenzio divino, il linguaggio è in grado di esprimere l´inesprimibile.
Il linguaggio liturgico è, dunque, un vero e proprio linguaggio sacro, che tende a perpetuarsi nel tempo anche quando esso, per il variare delle circostanze storiche, è diventato incomprensibile agli stessi officianti. È quanto si è verificato più volte nella storia di importanti tradizioni religiose: si pensi alle preghiere (norito) pronunciate dai sacerdoti nei templi scintoisti, conservate nel loro giapponese originario del Decimo secolo; al fatto che per secoli i sacerdoti zoroastriani hanno trasmesso oralmente, a testimonianza del primato della tradizione orale su quella scritta, i loro testi sacri anche se a un certo punto non erano più in grado di comprenderli, così come avviene ai brahmani induisti che usano le espressioni sanscrite nei loro rituali o ai monaci buddisti che cantano le scritture pali (e oggi, c´è da temere, ad alcuni sacerdoti cattolici che volessero cimentarsi nella messa in latino): a conferma che, in questo caso, il locutore, il messaggero - e cioè il sacerdote e la casta sacerdotale - rischia di diventare più importante del messaggio. Quante volte, per converso, dal buddismo delle origini alla Riforma di Lutero, la battaglia per un rinnovamento religioso ha trovato nella lotta al conservatorismo liturgico una spinta decisiva!
Questi esempi ricordano una differenza profonda che caratterizza questa comprensione tradizionale del linguaggio sacro caratteristica della liturgia. Mentre oggi si tende a interpretare il senso in funzione di un rapporto convenzionale tra significante e significato, ciò non vale per il linguaggio sacro. Esso è tale perché permeato di una forza speciale. Di qui la renitenza a tradurre e l´inclinazione a conservare la lingua originaria. Di qui soprattutto, nel caso della liturgia cristiana, la propensione a sottolineare la sua dimensione di mistero, di divina liturgia, di immagine della liturgia angelica. La testimonianza di ciò sta nella sua realtà pneumatologica. Quando Paolo, nella Lettera ai Romani, afferma che lo Spirito viene in aiuto alla debolezza del credente nella preghiera - la linfa vitale a cui ogni liturgia, in quanto comunicazione con Dio, attinge - «perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» (8, 26), egli esprime un´idea di fondo che, idealmente, sta al cuore di ogni liturgia cristiana: soltanto nello Spirito, mediazione ed espressione dell´azione divina nella comunità riunita dei credenti, la liturgia può aspirare a una piena efficacia.

© Copyright Repubblica, 23 settembre 2007

Discorso molto contorto, a mio avviso! La Chiesa Cattolica non ha scelto il latino per rendere la liturgia incomprensibile ai fedeli! Ricordo che il latino e' la lingua ufficiale della Chiesa e che i vescovi si oppongono al motu proprio non certo per paura di perdere fedeli. Ripetiamolo ancora una volta (inizio ad avere la nausea): NESSUNO E' OBBLICATO a partecipare ad una celebrazione con il rito tridentino. Parlare di "messa in latino" e' volutamente fuorviante.
Raffaella


La parola del Creatore che Adamo non capì

Sfilano gli animali e il luogotenente del Signore in terra li nomina: non conia segni; guarda nella nomenclatura della creazione

FRANCO CORDERO

«Creavit Deus caelum et terram». Il secondo versetto contiene una congiunzione assente nel testo greco: «terra autem erat inanis et vacua», massa inerte e buia, tenebroso caos liquido, alias abyssus; lo «spiritus Dei» plana «super aquas» (in una variante le cova). L´opera seconda è emissione vocale: «dixit "fiat lux"; et lux facta est», sebbene non esistano ancora corpi celesti. Immagine antropomorfa, avvertono i commentatori moderni, «la parole étant l´expression de la volonté divine» (E. Mangenot, Dictionnaire de Théologie catholique, 6.2, 2347ss.), come fosse meno antropomorfico attribuirgli delle volizioni. L´artista se ne compiace: «vidit quod esset bona et divisit lucem a tenebris», chiamando una «dies», l´altra «nox»; il tutto avviene «vespere et mane»; era il dies natalis mundi, computato dalla sera. Il mondo è opera d´arte. Anacronisticamente i teologi chiameranno l´autore «Verbo» o «Logos», identificandoli nel Figlio.
L´affare cosmogonico richiede ancora cinque giornate. «Fiat firmamentum», e uno schermo a cupola (lo denomina «caelus») separa le acque alte dalle terrene, «dies secundus». Nella terza raccoglie le acque basse, chiamando «mari» i fluidi e «terra» il residuo secco, indi suscita i vegetali. Tali «distinctiones» individuano luoghi ancora vuoti. Li arreda un secondo triduo, inteso all´«ornatus». Quartus dies, decora il firmamento con dei «luminaria» che scandiscano giorni e notti. Quinto, crea l´intera fauna ittica «et omne volatile». Nel sesto estrae dalla terra «iumenta, reptilia et bestias», indi «faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram», che governi i viventi: creati maschio e femmina, li benedice ed esorta a moltiplicarsi; ha basi bibliche l´antropo-imperialismo. L´esamerone finisce in gloria: l´Artista riconsidera le creature; aveva qualificato buoni i singoli prodotti (meno la cupola divisoria delle acque, ma dev´essere un lapsus); rinforzato dall´avverbio «valde», «bonum» diventa superlativo assoluto; l´universo gli appare perfetto.
Teologie ortodosse sollevano seri dubbi. Anno Domini 1347 Clemente VI condanna Nicole d´Autrécourt, i cui libri contengono «multa falsa, periculosa, praesumptuosa, suspecta, erronea, haeretica», quindi vanno al fuoco; secondo la 40a proposizione, viviamo nel migliore mondo possibile («quidquid est in universo, est melius ipsum quam non ipsum»); Leibniz e Pangloss ante litteram; erano 53 gli errori e Nicole li rinnega (Denzinger, 236, ed. 21-23, §569).
L´opinione laica non risparmia ironie: ha l´aria d´un mondo uscito da mani infantili, incompiuto perché l´autore se ne vergogna; o è l´opera senile d´un dio poi morto (Hume, Dialogues concerning Natural Religion). Le vanterie con cui spaventa Giobbe, tradiscono una psicologia rudimentale. Nell´Ecclesiaste, 18.1, «creavit omnia simul», d´un colpo. Sant´Agostino elabora l´idea (F. Cordero, Fiabe d´entropia, 86s.). Non che l´universo erompa quale lo vediamo: l´atto cosmogonico instaura i cicli d´uno sviluppo; l´«indistinta confusio terrae et aquae» contiene «rationes seminales»; ogni cosa era involuta nei «primordia rerum»; fissato un codice genetico, il séguito avviene naturalmente. Fine pensatore, nega la sequela cosmogonica perché, evocando ex nihilo l´abisso, l´Alieno entra nel mondo e vi cadono le operazioni seguenti, misurabili su calendari umani dalla quarta giornata. «Mondo» significa tempo: Lui sta fuori o meglio, starebbe se lo stare non implicasse riferimenti che l´assioma teologale esclude; ogni tanto mette piede dentro, poi esce tornando nell´eternità. L´oratore fenicio, ora vescovo d´Ippona, vuol ridurre i paradossi al minimo.
La sintesi scolastica segna un regresso. San Tommaso postula atti realmente distinti. Augustin Calmet, insigne biblista, formula caute riserve sul senso letterale: poteva cavare dal nulla un mondo adulto, evitando «morosam illam circonvolutionem» d´epoche geologiche; ma non postuliamo miracoli «sine necessitate» quando bastano «ordo et oeconomia» naturali. Senza saperlo, l´abate benedettino adopera il rasoio d´Occam: «frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora» ovvero «pluralitas non est ponenda sine necessitate»; alla fine l´ipotesi teista diventa quinta ruota del carro.
Il primo versetto del capo secondo riepiloga gli eventi: l´opera è compiuta; «perfecti sunt caeli et terra et omnis ornatus eorum». I due seguenti descrivono il riposo, donde la regola del sabato. Il quarto è formula vuota. Quinto e sesto richiamano la poussée verde della terza giornata: non preesistevano semi né «pluerat Dominus Deus» («piovere» diventa verbo personale: è Lui che piove); suolo incolto ma acque sorgive bagnano «universam superficiem terrae». Segue un secondo racconto, più antico, databile tra i secoli IX e X (evidenti i difetti d´editing). Quattro consonanti indicano l´autore: Yahweh, «nomen illud quadrilitterum, ineffabile, venerandum, sacrosanctissimum»; nel primo capitolo creava mediante emissioni verbali, stavolta plasma del fango; forma una figura, soffia sul viso, ecco l´uomo vivo. Tre verbi descrivono l´atto antropogenetico. I sette versetti seguenti raccontano come avesse allestito uno splendido orto botanico, «paradisum voluptatis» dove cresce «omne lignum», bello e commestibile; al centro due alberi forniscono vita e scienza arcana; il fiume che sgorga, ne alimenta quattro; Phison circonda la terra d´Hevilath, piena d´oro e gemme; Gehon, alias Nilo, scorre intorno all´Etiopia; gli ultimi due hanno nomi moderni, Tigri ed Eufrate.
Calmet colloca l´Eden in Armenia, sotto Mar Nero e Caspio. Condottovi l´uomo, Dominus gliel´affida: roba sua, la custodisca; non è lavoro ma passatempo ludico; può mangiare ogni frutto meno quelli dell´albero «scientiae boni et mali»; se li tocca, morrà. Discorso ambiguo, mancando una definizione del verbo: l´ascoltatore non sa cosa significhi; e l´equivoco risulta determinante nello sfondo psichico della catastrofe. S´è accorto d´avere omesso qualcosa: «non est bonum» lasciarlo solo; ha bisogno d´aiuto e compagnia. Qui inscena una rivista della fauna chiamando tutti gli animali terrestri e volatili: li ha appena formati «de humo»; anche nel primo racconto «iumenta et reptilia» erano creature telluriche, ma pesci e uccelli risalivano alla quinta giornata; stavolta ogni specie appare dopo l´uomo. Ha un nome la creatura eminente: dal capostipite passa al genus; l´ebraico «adamo» è sinonimo d´«antropos» e «homo».
Sfilano gli animali e il luogotenente del Signore in terra li nomina: «appellavit nominibus suis cuncta animalia»; non conia segni; guarda nella nomenclatura della creazione, dove le cose attuano idee e hanno nomi, fissati dal Verbo. La rivista non era puro test d´abilità percettiva e nomenclatoria: gl´inoculava il desiderio d´una compagna; vedendoli a coppie, scopre d´essere solo. Dominus è psicologo, poi anestesista e chirurgo plastico: l´addormenta; gli toglie una costola; riempie la cavità mettendo materia carnosa; manipola l´osso, cava una donna; gliela presenta. Riaperti gli occhi, Adamo conferma d´essere abile definitore: la guarda e comincia dal pronome neutro; «hoc» è carne e ossa sue; colta la differenza, passa al femminile; «haec vocabitur virago» perché «de viro sumpta est». «Mirabilis et genuina etimologia», esclama Thomas Malvenda.

Questo testo è un frammento
della Prolusione pronunciata
da il 25 agosto scorso
a San Gimignano alla International Summer School on Religions in Europe, sul tema "Babele e dintorni"


© Copyright Repubblica, 23 settembre 2007

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