21 settembre 2007

Messa tridentina: le perplessità dei sacerdoti campani di fronte al divieto del vescovo di Caserta


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SILVESTRO MONTANARO

«Non permetto la messa in latino» ha ribadito più volte il vescovo di Caserta Raffaele Nogaro. Ma, all'indomani delle dichiarazioni di solidarietà al Santo Padre, rilasciate ad un importante quotidiano nazionale da Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, a proposito delle «voci critiche sul magistero del Papa mosse da cattedre discutibilissime», l'interrogativo nei corridoi della Curia diocesana può riassumersi, con una punta di malizia, così: «Qual è l'umore di Nogaro? È soddisfatto il vescovo?».
C'è da aggiungere poi che nel dibattito tra intellettuali seguito alle parole di Bagnasco, l'allusione fatta dal presidente della Cei è diventata esplicita ponendo l'esempio sul nome di Nogaro. Rinvigorita, dunque, la corrente che, evidentemente, non si riconosce nella linea sostenuta con decisione dal prelato, per sua funzione unico moderatore della liturgia in Diocesi. Del resto gli orientamenti degli Uffici della Curia sul Motu proprio di Benedetto XVI «Summorum Pontificum» erano, prima della posizione assunta dall'Ordinario della Diocesi, differenti. E in modo sensibile. Si tratta in tutto di quattro o cinque chiarimenti dati - nel periodo intercorrente tra la promulgazione (a luglio) e l'entrata in vigore (in settembre) del Motu proprio - a presbiteri che ne avevano fatto richiesta.
Ma sono tutti del medesimo tenore: si sottolineava che «il documento pontificio offre la grande opportunità di scegliere il rito in italiano o quello in latino; e che, in definitiva, non si tratta di un ritorno al passato perché la Chiesa va sempre avanti. Anzi è una prova di democrazia».

Più nel dettaglio è rivisto il concetto di gruppo stabile: «Nel Motu proprio non si fa riferimento - ci dicono - soltanto a nuclei scismatici o potenzialmente tali da ricondurre in seno alla chiesa universale ma anche ad esempi del tipo della chiesa Ambrosiana o dei cattolici ucraini che, in pratica, adottano il rito ortodosso».

Altro punto in discussione è il carattere straordinario dell'utilizzo del «Missale Romanum» come forma di celebrazione liturgica: «Non lo neghiamo affatto - affermano - ma esso non si deve intendere come "una tantum" bensì che - come è nel nostro caso - su 60 sacerdoti diocesani ve ne sia solo uno che quotidianamente offici la messa in latino secondo la versione del Messale Romano licenziata da Giovanni XXIII nel 1962 oppure avvalendosi di quella di Paolo VI, risalente al 1970». Sono queste le basi concettuali che spiegano (o spiegherebbero) il proliferare delle celebrazioni in latino a Roma come anche in altre diocesi di Terra di Lavoro. Con riferimento diretto al testo del Motu Proprio si osserva che: articolo 2 «Nelle Messe senza il popolo ogni sacerdote cattolico può usare il Messale Romano in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Pasquale, senza bisogno di alcun permesso né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario»;
art. 4 «Alle celebrazioni della Santa Messa di cui sopra possono essere ammessi anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà»;
art. 7 «Nel caso in cui un gruppo stabile di fedeli laici non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco, se ne informi il Vescovo diocesano che è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio».

© Copyright Il Mattino, 21 settembre 2007

Ricordo che l'affermazione di Mons. Bagnasco sulle "cattedre discutibilissime" non e' contenuta in una intervista ma nella prolusione di fronte al "parlamentino" della CEI.
Raffaella

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