11 luglio 2008

L'insegnamento di san Benedetto nell'era postmoderna: "Un antidoto al fascino illusorio dell'autonomia" (Osservatore)


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R.

L'insegnamento di san Benedetto nell'era postmoderna

Un antidoto al fascino illusorio dell'autonomia

di Anna Maria Cànopi
Abbazia Benedettina Mater Ecclesiæ
Isola San Giulio - Orta (Novara)

Oggi si parla di postcristianesimo e pure di postmodernità; siamo stranamente nell'epoca dei "post". Tale è, infatti, la rapidità dei cambiamenti e degli sviluppi delle situazioni che, appena viene raggiunto un traguardo, subito lo si sorpassa, generando inevitabilmente un forte senso di destabilizzazione. Dopo lo sgretolamento delle grandi ideologie del secolo scorso, la cultura-mentalità dominante nella nostra società si caratterizza innanzitutto per un dilagante relativismo esteso ormai a ogni sfera dell'esistenza. La ricerca della verità cede il posto al dominio dell'opinione; il bene è facilmente sacrificato all'utile e al piacevole, al successo e alla realizzazione personale; la libertà è intesa come autonomia e autogestione, con la conseguente fragilità di ogni forma di vita comunitaria.
Se "comunicare il Vangelo in un mondo che cambia" è la grande sfida proposta dai vescovi italiani come programma in questo inizio di terzo millennio, "mostrare Dio in un mondo smarrito e confuso" è certamente la missione specifica del monachesimo contemporaneo. Pur essendo separato dal mondo, il monachesimo non è indifferente ed estraneo a esso, anzi, ne assume dall'interno il travaglio. Missione non facile, perché l'ideale monastico si incarna in comunità concrete i cui membri provengono da quella stessa società che è malata e bisognosa di cure. Cercando di assumere le fatiche e lo smarrimento del mondo, di vincerne le tentazioni e di smascherarne gli inganni, come pure di coglierne i più segreti aneliti positivi, le comunità monastiche - non semplicemente i singoli monaci - si presentano come segno di contraddizione, che interroga e inquieta gli animi, li attrae e al tempo stesso li sgomenta per la sua radicalità.
Di fronte al dilagante relativismo, la chiave di volta della vita monastica è l'amore assoluto alla persona di Gesù, Via, Verità e Vita. "Nulla anteporre all'amore di Cristo", chiede san Benedetto ai suoi monaci. Da questo primato deriva tutto il resto: una regola di vita, istituzioni, voti. Storicamente la vita monastica si è concretizzata in varie forme (eremitica, semi-eremitica e cenobitica); nel trascorrere dei secoli sono nate diverse Regole con le loro specifiche caratteristiche. Al di là delle differenze, pur importanti, alcuni elementi fondamentali accomunano tutte le esperienze monastiche e danno a esse quel "volto" caratteristico che nasce dall'unione di libertà e obbedienza, austerità e dolcezza, povertà e grazia, lotta e pace, desiderio e appagamento.
Silenzio, preghiera, lavoro scandiscono le giornate dei monaci, di coloro che, rispondendo alla divina chiamata, consacrano tutta la loro esistenza a cercare Colui che hanno già trovato e dal quale sono già stati trovati, ma che rimane sempre oltre. Appunto in questa continua ricerca dell'Assoluto consiste l'aspetto dinamico e ascetico della vita monastica; essa comporta una sofferta esperienza di continuo esodo - ossia di distacco e di rinunzia - vissuto però come tensione verso la piena visione del Volto di Dio finora conosciuto solo per fede, dietro il velo del mistero.
In questo cammino è simboleggiato il viaggio interiore, il viaggio del distacco da se stessi, dalla terra di schiavitù - che è il nostro io - verso la terra della vera libertà che è l'adesione spontanea e gioiosa al disegno di Dio. Per intraprendere e portare a compimento tale viaggio sono richiesti grande coraggio e fiducioso abbandono, perseveranza e umiltà. È questo il prezzo quotidiano che il monaco deve pagare senza avarizia, sapendo che sta portando con sé verso la "terra promessa" l'immenso popolo di Dio radunato da tutta l'umanità.
Per diversi motivi - storici e culturali - viviamo oggi in un'epoca di sradicamento. Nella sua continua ricerca di un oltre, il monaco, in certo senso, assume e vive questa dolorosa situazione di precarietà e di esilio dell'umanità; nello stesso tempo, con il suo radicarsi in Cristo, testimonia di aver trovato la "perla preziosa" che dà valore alla sua vita.
Per il suo "santo viaggio" il monaco attinge grazia dalla celebrazione del mistero di Cristo. Nella sacra Liturgia egli ascolta la Parola; dalla Parola è rigenerato alla fede; nella fede impara l'obbedienza da Colui che, in obbedienza d'amore, si è offerto sulla croce; alla scuola della croce si forma alla carità e all'umiltà del servizio.
Proprio per il fatto che persegue la sapienza della croce, il monaco appare un essere "assurdo", incomprensibile all'uomo d'oggi. Il sapere tecnico-scientifico cerca, infatti, in ogni modo di eliminare la sofferenza; la filosofia nichilista, a sua volta, si ritrae davanti al confronto con i grandi temi esistenziali del dolore e della morte. Ma da questa esasperata ricerca di una facile felicità deriva una visione della vita senza vera speranza, frammentata - come si legge nella Lettera Enciclica Spe salvi - nelle tante piccole speranze. Ed ecco che, allo stremo delle forze, quasi come a un'ultima spiaggia, l'uomo contemporaneo bussa alla porta dei monasteri per ricevere una parola di vita e di luce.
San Benedetto dedica all'ospitalità uno dei capitoli più belli della sua Regola dove afferma: "Tutti gli ospiti che giungono al monastero siano accolti come il Cristo in persona". Qui essi scoprono subito, con grande stupore, che regna un altro modo di intendere il tempo e di conseguenza anche il lavoro e la festa. Il caratteristico motto Ora et labora, prega e lavora, sintetizza bene una concezione della vita improntata a saggezza ed equilibrio. Contrariamente a quanto avveniva nell'antica società greco-romana, il lavoro è tenuto in alta considerazione. Non solo esso è indispensabile per non vivere da parassiti, facendosi servire dagli altri, ma è espressione di quell'amore che spinge a impegnarsi per migliorare le condizioni stesse della vita comune e per aiutare i fratelli più bisognosi. Il monaco non lavora per sete di guadagno o di autoaffermazione, ma con la consapevolezza di essere "operaio nella vigna del Signore", e dunque sa sopportare ogni fatica con generosità, con quella gioia e gratuità che la carità gli ispira.
Se tale concezione del lavoro è già rivoluzionaria rispetto alla mentalità corrente, c'è un aspetto ancora più importante da sottolineare: nell'uso del tempo il lavoro deve avere il suo giusto posto
. Per lavorare bene, è indispensabile sapere per chi e per che cosa si lavora; è necessario conoscere quale fine ha la nostra vita e orientarla a esso: il primato spetta dunque alla preghiera. Nelle comunità monastiche è normale scandire la giornata non secondo le ore dell'orologio, ma secondo le Ore liturgiche. Così tutto il tempo da semplice chrónos diventa kairós e la grazia della vita in Cristo qui sulla terra prepara la gloria del Cielo.
Questo è l'ideale perseguito con sincero desiderio dai monaci di ogni epoca, ma - com'è ovvio - nell'attuazione pratica anche su di loro può influire la mentalità corrente. I monaci di oggi ne sono ben consapevoli e cercano con umiltà di rinnovarsi continuamente. A tale scopo la Regola di Benedetto li impegna con il voto di conversione permanente, perché non avvenga che si conformino al mondo anziché al Cristo, mentre la loro vocazione consiste essenzialmente nel far intravvedere al mondo la meravigliosa realtà del Regno di Dio.

(©L'Osservatore Romano - 11 luglio 2008)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Qualcuno mi sa dire perchè si fa memoria oggi di San Benedetto anche se la sua morte è avvenuta il 21 marzo? Nell'antico rito la sua festa è appunto il 21 marzo.

Marco