11 luglio 2008
Radicali dubbi sulla Corte: una sentenza di morte...ma si può? (D'Agostino)
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RADICALI DUBBI SULLA CORTE
UNA SENTENZA DI MORTE DAI GIUDICI. MA SI PUÒ?
FRANCESCO D’AGOSTINO
Eluana Englaro, in coma da anni e anni, è viva. Si può uscire da un simile coma? Potrebbe risvegliarsi Eluana? È molto improbabile, ma la scienza non ha criteri per escluderlo: la sua situazione, infatti, come quella di tutti i malati come lei, è definita di coma 'persistente', non di coma 'irreversibile'.
È sottoposta ad accanimento terapeutico, da parte delle suore che la accudiscono, la povera Eluana? La sua vita non è forse una tortura? La risposta è no. Eluana, come tutti i malati in coma, non soffre. Non è sottoposta ad alcun accanimento. Viene semplicemente alimentata e dissetata. Prendersi cura dei malati, dare loro da mangiare e da bere, anche quando sono privi di coscienza vigile, non sono pratiche mediche, ma atti essenziali, minimali, umanissimi di prossimità umana, portatori di un valore simbolico altissimo. Al contrario, far morire di inedia un malato, sospendendogli alimentazione e idratazione, è intuitivamente atroce, non perché il malato soffra, ma per la valenza di freddo distacco da lui che è implicita nella sospensione delle cure. Nessun sedativo che – si suggerisce – possa essere somministrato a Eluana può camuffare una simile atrocità.
Come definire la sua vita? Qualificarla come 'tragica' è dir poco. Qualificarla come 'artificiale' è insultante per la medicina, che con mille preziosissimi artifici aiuta tanti malati a sopravvivere. La si può qualificare come carente di dignità? Può farlo solo chi sostenga che la dignità non sia intrinseca alla vita umana, ma sia una sorta di qualità che si possa acquisire e si possa perdere (e magari vendere o comprare). Chi ritiene, ad esempio, che non abbia dignità una vita in quanto gravemente malata, o la vita di un portatore di un gravissimo handicap, o la vita di un demente, o la vita di un criminale – e che quindi tutte queste vite non meritino tutela piena ed assoluta, ma possano essere ragionevolmente soppresse – potrà certamente aggiungere a questo novero la vita di un malato in coma.
L’esito di queste posizioni, comunque, è chiaro: prima o poi si dovrà pur arrivare a determinare chi debba essere l’insindacabile giudice della 'qualità della vita'. Per quanto sgradevole e conturbante, questo esito (con le conseguenze che vengono in mente a tutti, anche perché l’esperienza storica ci dovrebbe pure aprire gli occhi!) è ineludibile.
Ma non è forse doveroso far sì che ognuno sia giudice della qualità della propria vita? Non abbiamo forse il dovere di rispettare la volontà di Eluana di non essere sottoposta a cure coercitive? Certamente, dobbiamo tutti avere un assoluto rispetto per la volontà dei malati, ma a due condizioni, che nel nostro caso appaiono entrambe irrealizzate.
La prima è che il trattamento cui Eluana è sottoposta (cioè l’alimentazione), e che in ipotesi essi rifiuterebbero, sia davvero da ritenere un cura medica: il che, come abbiamo detto, non è.
La seconda, ancora più importante, è che si abbia la certezza assoluta, al di là di ogni ragionevole dubbio, che comunque tale sia o sia stata davvero la volontà di Eluana. Ma noi non abbiamo nessuna prova certa al riguardo, se non testimonianze che, se fossero portate in tribunale contro un imputato, verrebbero demolite in pochi minuti dalla difesa.
Non sarebbe ragionevole estendere alla difesa della vita le medesime rigorose cautele che sovrintendono alla trasmissione dei patrimoni attraverso il normale strumento testamentario?
In breve, la vicenda della povera Eluana Englaro è terribilmente intricata, umanamente tragica, giuridicamente complessa. I bioeticisti discutono di vicende di questo tenore da anni ed anni e sono ben lontani dall’essere giunti a risposte condivise ai tragici dilemmi che suscita la vita dei malati in coma.
Ma ai giudici non spetta discutere; essi devono decidere. Di fronte a questioni laceranti i giudici adottano in genere la decisione più benevola: se nutrono fondati dubbi sulla colpevolezza, assolvono; se non sono certi di avere le prove definitiva dell’incapacità di un soggetto, si guardano bene dal togliergli la capacità di agire e di sottoporlo a tutela. Nel caso di Eluana hanno invece adottato la decisione più cruda, quella che apre le porte alla morte e le chiude alla vita.
Una decisione – ne saranno stati consapevoli i nostri buoni giudici? – obiettivamente necrofila.
© Copyright Avvenire, 11 luglio 2008
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