16 gennaio 2008

Mons. Ravasi: "Una grande sconfitta della cultura" (Radio Vaticana)


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"Una grande sconfitta della cultura": così mons. Ravasi sulla vicenda della mancata visita del Papa alla Sapienza

"Una pagina nera della storia della cultura": con queste parole mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, definisce la vicenda che ha portato all'annullamento della visita del Papa all'Università romana della Sapienza. Il presule, parlando della vittoria del "fondamentalismo culturale" di una minoranza, ha espresso la speranza che la maggioranza reclami la necessità del confronto e del dialogo. Ascoltiamo mons. Ravasi al microfono di Giovanni Peduto:

R. – Questa vicenda merita sicuramente anche un giudizio dal punto di vista strettamente culturale, prescindendo proprio dalla figura in questione, che è la figura del Santo Padre, una figura quindi di grande profilo religioso. Infatti, secondo me, questa vicenda ha nel suo interno, segnala e scandisce, una grande sconfitta della cultura. La cultura di sua natura è fatta di incontro e di dialogo, che può anche supporre ad un certo momento la dissonanza, la differenza delle prospettive, ma che non può mai essere definito come culturale quando esplode e diventa mera negazione, quando diventa mero rifiuto, senza la possibilità, appunto, di un incontro. In questo caso abbiamo, quindi, da un lato una sorta di fondamentalismo culturale che si è manifestato con questa negazione di principio – quasi – dell’ascolto e dell’incontro; dall’altra parte direi che è veramente insensato che il mondo della cultura non consideri anche il discorso religioso, il discorso teologico o il discorso in senso lato ed anche spirituale che ha condizionato ed ha arricchito per secoli tutta la vicenda dell’Occidentale, ma anche la vicenda universale e che non la voglia assolutamente mettere nell’interno del proprio orizzonte, considerandolo come qualcosa del tutto estraneo. In questa luce, direi, che queste due dimensioni e quindi da una parte proprio l’incapacità dell’ascolto e dell’incontro e quindi il semplice rigetto; e dall’altra parte il non considerare il fenomeno religioso e il fenomeno spirituale come una componente rilevante della cultura, ha fatto sì che questa vicenda sia ora una pagina nera all’interno non tanto del discorso dei rapporti con la religione, ma sia una pagina nera della storia della cultura.

D. – Quali sviluppi - lei prevede – per il futuro, dopo tutto quello che è accaduto?

R. – Questa è indubbiamente una ferita che si è creata soprattutto per quanti vogliono il confronto, vogliono il serio dialogo, vogliono la capacità di avere anche voci diversi che sanno però entrare in confronto diretto, immediato ed anche vario. Tutto questo probabilmente si arresterà e sarà come un peso, un macigno sulla strada. Dovremmo ritornare all’inizio, tenendo conto però di un fatto che non è sottolineato a sufficienza: questo rifiuto è stato marcato da una minoranza. Una minoranza - e certamente questo lo si è ripetuto – di docenti, ma anche degli stessi fruitori dell’università, perché questo gruppo di studenti, cresciuto ed accresciuto anche artificiosamente con presenze esterne, non rappresenta il desiderio di conoscenza anche da parte di studenti e di docenti, che non sono credenti, ma che vogliono sempre guardare al di là della loro siepe e vedere questo mondo. Mai come in questo tempo, per esempio, c’è stata una crescita della produzione di tipo editoriale religioso. Questo vuol dire che i confronti interessano. Noi speriamo che proprio questa autentica base continui a reclamare la necessità degli incontri, la necessità del confronto e del dialogo. Questo è sicuramente il futuro in cui dobbiamo sperare, dopo questa tappa così nuvolosa e così tenebrosa.

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1 commento:

Anonimo ha detto...

La eccessiva reazione nasce da quegli animi che si riconoscono limitati non avendo le capacità altrui e anziché rimanere quieti nel loro stato di “orfani” d’un regime, ahimè, prematuramente scomparso perché fallimentare per l’umanità ,e meditare sulla validità della cultura diversa da quella delle università franchiste o saigoniane, si abbandonano alla detestazione e alla fomentazione dello scontento (quest’ultima cosa “gravissima” per una categoria di persone che dovrebbero insegnare la tolleranza in un mondo sempre più multirazziale).
Goethe notava che «la consolazione più alta del mediocre è di pensare che anche il genio dovrà morire».
La Chiesa non morirà per l’ignoranza di pochi - giustificata negli alunni sempre più ignoranti in una scuola sempre più contestata dalla società civile ma non nei docenti che non sanno leggere e quindi estrapolare (se non a scopo di strumentalizzazione) una citazione da un contesto, né sanno parlare l’italiano, stando alle interviste - ; la cultura può morire e bisogna attivarsi perché ciò non avvenga; la cultura scientista è già sul letto dell’agonia se per ossigenarsi ha bisogno di ospitare in cattedra persone che per un’ideologia o un’altra hanno martoriato famiglie del proprio popolo.
Mons. Ravasi, nel “mattutino di Avvenire” dell’11 dicembre scorso, quasi profeticamente scriveva:
“INSEGNARE”
Dimmi e io dimentico; mostrami e io ricordo, coinvolgimi e io imparo. Se insegni, insegna a dubitare di ciò che insegni. Ecco oggi due frasi da meditare cercando di individuare il comune filo conduttore, ossia l'insegnare. È, questa, una delle attività più alte e delicate che una persona compia nei confronti di un'altra. Ed è significativo ciò che osserva, nel primo aforisma, Benjamin Franklin, sì, l'inventore del parafulmini che fu anche scrittore e politico del Settecento americano. Egli distingue quasi tre gradi nell'insegnamento. Il primo è quello - ahimé molto "scolastico" - del dire le cose agli altri perché le imparino, secondo il metodo dell'allevamento dei polli: li ingozzi perché assorbano cibo. È naturale che l'esito sia solo quello dell'evacuazione nell'oblio. Diverso è il secondo caso. La dimostrazione motivata, che nasce da un convincimento o da un'esperienza dello stesso maestro, incide e convince il discepolo che ricorderà il messaggio ricevuto. Infine c'è la testimonianza: il docente non solo dimostra ma rivela che quella verità ha guidato le sue scelte, l'ha aiutato nel percorso della vita e allora le sue parole non saranno solo ricordate ma diventeranno un esempio da imitare, coinvolgendo l'alunno in pienezza. È ovvio che questa triade vale non solo per gli insegnanti ma per tutti gli educatori e ciascuno di noi lo è nei contatti quotidiani col prossimo. Un cenno merita anche la seconda frase che è del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset (1883-1955). È un monito da assumere con una precisazione. Il dubbio è come una spezia o come il sale, è necessario perché la nostra ragione è limitata e quindi dev'essere bandita ogni arroganza intellettuale, ma se il sospetto diventa eccessivo, ci costringe a sputare il cibo inghiottito. Ci sono due estremi da evitare: non dubitare di niente e dubitare di tutto.