8 luglio 2008

Card. Martino: "Sui monaci uccisi vogliamo la verità" (Galeazzi)


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"Sui monaci uccisi vogliamo la verità"

Il card. Martino, ministro della Pace vaticano

GIACOMO GALEAZZI

Le nuove ipotesi sull’eccidio dei sette monaci in Algeria sono sorprendenti e inquietanti. E non possono essere liquidate a priori come pura fantasia perché non sarebbe la prima volta che, sull’uccisione di religiosi, vengono smentite le verità di Stato». Con in mano il ponderoso elenco di «Propaganda Fide» dei sacerdoti e suore trucidati ogni anno nel mondo, a denunciare il «tragico scollamento, a danno della Chiesa, fra verità dei fatti e verità ufficiali fornite dalle autorità nazionali» è il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, diplomatico vaticano di lungo corso, già nunzio in Nicaragua, Filippine, Libano, Canada, Thailandia, Onu, e molti altri Paesi. «Spesso i missionari sono scomodi sia per i regimi sia per i ribelli perché dimostrano che anche nelle aree di crisi si può vivere disarmati e fuori dall’odio - spiega il ministro vaticano della Pace -. Nelle guerre civili la prima vittima è la verità. Troppi omicidi vengono classificati in fretta come rapine o sequestri finiti male».

Dal caso riaperto dall’inchiesta de La Stampa sui monaci massacrati in Algeria alle strane morti di missionari in Sud America, scricchiolano le ricostruzioni ufficiali?

«La Santa Sede è uno Stato senza legioni militari e ogni anno deve far fronte a una trentina di casi di religiosi uccisi nel mondo. Sono stato recentemente in Brasile dove suor Dorothy Stang è stata assassinata nello Stato amazzonico del Parà: era da tempo nelle liste della morte dei latifondisti ma le autorità locali non hanno fatto nulla per difenderla nella delicatissima battaglia contro la deforestazione e a favore dei poveri. Adesso sta per essere introdotta la causa di beatificazione».

Troppi buchi neri nelle versioni fornite da regimi militari e governi del Terzo Mondo?

«Quando succede una tragedia, alla Santa Sede viene data una spiegazione formale che talvolta è di comodo. Io stesso, in diverse circostanze, mi sono trovato in contesti di grave pericolo e so che in terra di missione i nemici talvolta non sono quelli che appaiono. Spesso si finisce presi tra due fuochi. Per esempio, i militari e i ribelli. Ho appena visitato le comunità del Nord dell’Uganda. Lì i religiosi sono molto esposti e ne sono coscienti, proprio come lo erano i monaci d’Algeria».

Le sono capitate verità di Stato come quella che si ipotizza per l’eccidio algerino?

«Sì, mi è successo che le autorità ci avessero ammannito una versione addomesticata, di comodo, per giustificare violenze contro religiosi che avevano testimoniato con il sangue il servizio a Dio».

Cosa può fare la Chiesa?

«Cercare la verità autentica. I monaci d’Algeria erano collegati ai trappisti delle tre Fontane e l’abate del convento è andato personalmente in Algeria per capire come sono andate le cose. La loro missione è pregare, come le suore di clausura. Un segno che ha infastidito qualcuno. La Santa Sede deve esaminare da sola caso per caso, soprattutto attraverso le rappresentanze pontificie in loco. Penso al mio collaboratore alla Conferenza Onu del Cairo, Michael Courtney, nunzio apostolico ucciso in Burundi. I martiri sono uno “scandalo” perché dimostrano si può convivere pacificamente e mettere d’accordo gente divisa. Sono vittime facili, le autorità non le difendono come dovrebbero. Per suore e preti non mettono certo la scorta».

© Copyright La Stampa, 7 luglio 2008 consultabile online anche qui.

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