8 luglio 2008
Dopo dodici anni la verità: "I monaci in Algeria uccisi dai militari". Il Vaticano: "Sconcerto e stupore" (Pellizzari e Galeazzi)
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"I monaci in Algeria uccisi dai militari"
Dopo dodici anni un alto funzionario occidentale svela la verità: «Un elicottero dell’esercito mitragliò il bivacco dov’erano tenuti»
VALERIO PELLIZZARI
HELSINKI
I sette monaci francesi sequestrati nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 a Tibhirine da un gruppo islamico, infiltrato dalla sicurezza militare, furono uccisi da un elicottero dell’esercito algerino. Il velivolo sorvolava la zona montuosa dell’Atlante attorno a Medea, assieme a un altro elicottero. Era metà maggio, dopo il tramonto. L’equipaggio aveva visto il fuoco di un accampamento e il caposquadriglia in persona, un colonnello, aveva sparato su quel bivacco». Le forze regolari non si avventuravano più da tempo sul terreno in quella regione impervia, scarsamente popolata, controllata dagli integralisti: si limitavano a fare ricognizioni aeree e a combattere con l’aviazione. Dopo l’attacco i velivoli atterrarono vicino al bivacco. Gli uomini a bordo capirono presto che avevano colpito il bersaglio sbagliato. Il caposquadriglia chiamò il comando del reparto elicotteri distaccato a Blida, da cui dipendeva, e disse chiaramente: “Abbiamo fatto un’idiozia, abbiamo ucciso i monaci”. Così si concluse quel sequestro».
Il signore che racconta questa vicenda parla per tre ore, in due incontri separati, senza la mediazione di alcun interprete. Si trova temporaneamente in Finlandia. È un alto funzionario di un governo occidentale, che in quegli anni lavorava ad Algeri, che aveva relazioni personali con personaggi locali importanti, e che non aveva contatti con il mondo opaco dell’intelligence. Ci tiene a ripeterlo con educata fermezza. È una persona che nel biglietto da visita può scrivere chiaramente la sua professione, senza ambiguità. «Certo conosco gli intrecci profondi tra la nomenklatura di Algeri, tra i clan, gli alti ufficiali, i funzionari della onnipotente compagnia petrolifera Sonatrach, e i Paesi stranieri interessati alle risorse energetiche di quella ex colonia. Interessati quindi, di riflesso, alla sua stabilità interna. Ma credo che la politica non possa scendere sotto un livello minimo di moralità. Personalmente sono obbligato a rispettare il segreto di Stato che ogni governo impone ai suoi funzionari. Ma in questo modo si perpetua anche la menzogna di Stato, con la quale non è facile convivere, soprattutto quando si prolunga nel tempo. Qualche anno fa la famiglia di padre Lebreton, una delle vittime, aveva fatto denuncia perché venisse aperta un’inchiesta in Francia. Credevo sinceramente che per loro, e le altre vittime, sarebbe arrivata finalmente una ricostruzione chiara, autentica, dei fatti. Invece nulla è cambiato».
Sono dodici anni che la morte di quei religiosi rimane avvolta dalla reticenza delle istituzioni, e dall’indolenza della giustizia. Solo nel dicembre 2002 Abdelkader Tigha, un giovane sottufficiale del Centro di ricerche e informazioni di Blida, che aveva già abbandonato la Sicurezza militare algerina e si era rifugiato all’estero, dichiarò pubblicamente che i monaci erano stati portati la notte stessa del sequestro nella sua caserma, con due veicoli dei militari. Nell’operazione gli islamici, i terroristi, rappresentavano solo la manodopera. I registi veri erano i militari «deviati». Quella era la prima smentita precisa, parziale, della menzogna di Stato. Ma sulla tragica conclusione della vicenda il muro di gomma ha resistito fino ad oggi. «L’elicottero era un MI 24, un velivolo di costruzione sovietica, con tutta una dotazione ben nota di armamenti, usato con grande frequenza durante la guerra in Afghanistan. Era una macchina da guerra, corazzata, molto diversa dagli elicotteri leggeri che i francesi avevano venduto agli algerini, dotati di raggi infrarossi e di altre apparecchiature elettroniche utili per la ricognizione. I corpi dei monaci erano crivellati di colpi e per questo, al momento dei funerali, nelle bare furono messe solo le teste. Le autorità invece parlarono subito di “spoglie ritrovate”. E avrebbero continuato con quella formula rituale e ingannevole se un monaco, padre Armand Veilleux, all’epoca Procuratore dell’ordine dei cistercensi, non avesse insistito per dare l’ultimo saluto ai suoi confratelli e ottenere la riapertura delle bare. Prima di lui però il medico legale dei francesi aveva visto quei corpi, sapeva bene che le spoglie erano impresentabili, e aveva riferito ai suoi superiori. Quei cadaveri martoriati avrebbero rivelato a tutti chi aveva sparato ai sette bersagli inermi. Perché quei proiettili potevano appartenere solo agli arsenali di un esercito regolare, non erano certo in dotazione ai guerriglieri islamici, che spesso nelle loro incursioni sanguinarie ricorrevano all’arma bianca, che organizzavano finti posti di blocco utilizzando le divise della gendarmeria, che parcheggiavano auto esplosive nelle vie più affollate».
Dopo la strage, per alcune giornate febbrili e confuse, fu costruita una versione ufficiale dei fatti che con il passare degli anni ha mostrato falle e contraddizioni. Quel rapimento al monastero era stato progettato per mostrare la pericolosità dilagante degli islamici, per sollevare l’indignazione internazionale durante la prigionia dei sette bersagli inermi, ma per concludersi con la liberazione, dimostrando così l’affidabilità, l’efficienza delle autorità locali. Doveva essere la ripetizione, allargata, più clamorosa, del finto sequestro compiuto nel 1993 quando tre funzionari del consolato francese ad Algeri erano stati catturati, ma anche liberati in settantadue ore senza un graffio. «Una settimana dopo l’attacco dell’elicottero, emergeva il comunicato numero 44 del Gia, del Gruppo armato islamico, con l’annuncio che i monaci erano stati uccisi il 21 maggio. Dieci giorni dopo le autorità colmavano il ritardo e dichiaravano che erano state ritrovate le “spoglie”. Chi aveva analizzato il messaggio attribuito ai fondamentalisti, consultandosi con alcuni specialisti dell’islam - anche senza sapere cosa era avvenuto sette giorni prima attorno al fuoco del bivacco - lo considerava un documento fasullo, malamente costruito da mani militari. Ma si era rivelato ancora più fasullo il documento precedente, il numero 43, con le citazioni errate dei versetti del Corano, rispedito corretto dai sequestratori una seconda volta, e trasmesso dalla radio di Tangeri. Era firmato dall’emiro Djamel Zitouni, un venditore di polli notoriamente incolto, infiltrato dalla Sicurezza militare negli ambienti islamici, salito rapidamente ai vertici della gerarchia integralista, e altrettanto bruscamente eliminato. Il comunicato 44 doveva coprire l’attacco dell’elicottero, confermare la responsabilità degli islamici. Le autorità algerine avevano annunciato il ritrovamento dei corpi il 31 maggio, esattamente due ore dopo la morte naturale del cardinale Duval, un personaggio leggendario in quel Paese. Era una coincidenza di tempi palesemente sospetta. Nei loro calcoli l’emozione per la scomparsa serena, incruenta, di Duval doveva in un certo modo deviare, contenere, neutralizzare, l’emozione ben più diffusa - soprattutto all’estero - per l’uccisione dei monaci inermi di Tibhirine, brutalmente decapitati, ancora una volta con il rituale dell’arma bianca. E i funerali infatti verranno celebrati nella cattedrale di Algeri, dedicata a Notre Dame d’Afrique, unendo in un’unica cerimonia Duval e i trappisti dell’Atlante».
In questo modo la vicenda del sequestro si chiudeva nove settimane dopo il suo inizio, con l’esaltazione dei sette martiri cristiani uccisi ufficialmente dagli integralisti in un Paese islamico, e sepolti alle pendici della montagna dove per anni avevano vissuto, come in una seconda patria, bene integrati con la gente del luogo, lavorando insieme la terra del monastero. «Le autorità locali avevano almeno un sostenitore esterno autorevole, che condivideva la loro versione dei fatti. Henri Teissier, l’arcivescovo di Algeri, grande conoscitore del mondo islamico, aveva fin dall’inizio adottato una linea molto cauta e prudente su Tibhirine. Non era d’accordo sull’apertura delle bare, e sulla sepoltura dei monaci al monastero. Non voleva danneggiare i rapporti costruiti in tanti anni di lavoro paziente tra Chiesa cattolica e governo algerino, mentre attorno imperversava la guerra civile scoppiata dopo il 1992. Anche nei momenti in cui il terrorismo appariva più violento e accanito, la sua residenza in collina aveva sempre mantenuto il cancello aperto, e non c’erano militari in divisa a montare la guardia. Per lui la verità ufficiale non mostrava ombre allarmanti, ma al contrario poteva essere condivisa senza perplessità. In qualche modo lo aveva sostenuto in questa linea anche il generale Rondot, ai vertici della sicurezza francese per molto tempo e in quella primavera 1996 consulente del ministro della difesa a Parigi. Subito dopo il sequestro era sbarcato ad Algeri, assicurando l’arcivescovo che la vicenda si sarebbe conclusa positivamente molto presto. Rondot dopo il suo arrivo si recava regolarmente, ogni giorno, nell’ufficio del generale Lamari, responsabile della sicurezza algerina, suo vecchio amico da anni. Si può dire che Chiesa e militari in pubblico avevano la stessa posizione». Prima della conclusione tragica della vicenda c’era stata una trattativa per la liberazione, con una cassetta video che mostrava i monaci ancora in vita, ripresi in una caverna, con un giornale stampato in data recente. «Il 30 aprile era andato all’ambasciata francese un emissario dei sequestratori. Si era mimetizzato nella fila degli altri algerini che ogni giorno si presentavano per chiedere un visto. Le sue credenziali come inviato dell’emiro Zitouni erano abbastanza approssimative: non aveva mai fatto il suo nome, e aveva un atteggiamento molto sospettoso, come temesse una trappola. I francesi lo avevano preso egualmente sul serio. Chiedeva secondo un copione abituale uno scambio di prigionieri, soldi, e documenti per l’espatrio. Per proteggerlo i francesi lo avevano fatto uscire dall’ambasciata dentro una loro auto, gli avevano lasciato alcuni numeri telefonici di contatto ma dopo quel giorno non si era più fatto vivo. Si convinsero presto che era stato eliminato». A quella data i militari «deviati» non sapevano più dove fossero finiti i monaci, il finto sequestro era già deragliato. Alcuni ufficiali della Sicurezza erano convinti, già da tempo, che i religiosi di Tibhirine fossero rimasti nel monastero non solo per continuare la loro vita di preghiere e umile lavoro agricolo, ma anche per fornire di tanto in tanto informazioni ai francesi sul movimento di guerriglieri e soldati regolari nella zona. Che insomma, quelle tonache, proteggessero degli informatori saltuari. È una delle tante leggende, senza fondamento, cresciute in questi dodici anni di fuga dalla verità. «È vera invece un’altra cosa. Un gruppo di autorità locali, tra cui il più attivo era il prefetto di Medea, erano convinte che i monaci, con la loro neutralità, con le cure garantite a tutti da padre Luc, il medico, fossero una presenza impropria, disturbante in quella zona. Bisognava mettere paura a quei religiosi stranieri, convincerli ad abbandonare quel luogo. Il prefetto aveva insistito più volte perché si ritirassero. L’arcivescovo non aveva fatto pressioni, ma aveva comunque offerto come sede alternativa un convento delle suore clarisse, in un’altra zona. Il finto sequestro per impaurire quei religiosi cocciuti non era stato ideato al quartier generale di Algeri, ai vertici dell’apparato di sicurezza, ma in periferia. Anche il Centro di informazioni di Blida sosteneva quell’operazione. E non a caso i veicoli che avevano prelevato i monaci venivano da quella caserma, e lì erano ritornati con i prigionieri il 27 marzo. Mentre ad Algeri l’esercito regolare, e non la Sicurezza deviata, cercava con impegno i sequestrati. Chi passava nei giorni successivi sotto l’ufficio del generale responsabile del centro operativo vedeva la luce sempre accesa: aveva assicurato che avrebbe cercato i monaci con tutti i mezzi, e che non avrebbe mai dato l’ordine di sparare».
Ma questa è un’ulteriore conferma delle due anime dell’esercito algerino. Diviso tra la componente patriottica, nazionalista, professionale, e la componente deviata della sicurezza, dei generali affaristi, legati a una gestione tortuosa del potere. Nel 1956 l’Algeria non era ancora un Paese indipendente, ma Ramdane Abane, ideologo del Fronte nazionale, denunciava i capi del nascente esercito di liberazione di incapacità e arrivismo. Verrà assassinato un anno dopo. Come nel 1992 verrà assassinato il presidente Boudjiaf, figura storica e rispettata della guerra di liberazione, nominato da pochi mesi ai vertici del Paese. Di quell’attentato non si è scoperto mai nulla. Tre anni dopo uno dei fondatori del Fronte islamico, in esilio in Francia, Abdelbaki Sahraoui, verrà ucciso dentro una moschea di Parigi. La cronaca dell’Algeria indipendente è carica di omicidi eccellenti, compiuti in patria e oltre confine. Come quello contro monsignor Claverie, vescovo di Orano. «Questa morte deve essere considerata un’appendice di Tibhirine. Due mesi dopo i funerali dei monaci il ministro degli Esteri francese, de Charette, era andato in visita ad Algeri. Aveva insistito per recarsi al monastero dove i monaci erano stati sepolti. Gli algerini erano infuriati per questa richiesta, e per l’ostinazione del ministro nel rinnovarla, la consideravano una dimostrazione di arroganza tipica degli ex colonizzatori. Lo avevano detto in pubblico, ad alta voce, senza alcuna reticenza. Quel sequestro era ancora un nervo scoperto, un capitolo imbarazzante nelle relazioni bilaterali. Alla fine cedettero. Era il primo agosto 1996. Il ministro incontrava in quella occasione anche il vescovo di Orano, monsignor Claverie, una personalità aperta, lontana dai metodi felpati e curiali. Il religioso gli aveva detto: conosciamo i responsabili per la morte dei monaci. Poco dopo Claverie prese un volo di linea, anticipando la partenza fissata per il giorno dopo. Pochissimi sapevano di quel cambiamento all’ultimo minuto, se non il protocollo, qualche funzionario di Air Algerie che aveva lasciato a terra brutalmente un passeggero, e i collaboratori più stretti. Al suo ingresso nel vescovado una bomba attendeva lui e il suo autista. Contro ogni legge della fisica la porta fu scagliata dall’esplosione in direzione opposta a quella indicata dal rapporto degli investigatori locali. Nella vicenda dei monaci il vescovo di Orano può essere considerato l’ottava vittima».
© Copyright La Stampa, 6 luglio 2008 consultabile online anche qui.
Il Vaticano
«Sconcerto e stupore»
«Non abbiamo motivi per mettere in dubbio la versione ufficiale del massacro dei monaci - commenta padre Federico Lombardi, portavoce papale -. Né improbabili variazioni di scenario muterebbero la santità del loro martirio per fede». Esprime «stupore e sconcerto» anche il cardinale Giovanni Battista Re, attuale ministro vaticano dei Vescovi: «Ho seguito da vicino la vicenda e non sono mai giunte alla Santa Sede informazioni tali da legittimare un intervento presso le autorità algerine per chiarire la dinamica dei fatti. Per noi è e resta la feroce soppressione di una presenza pacifica in un paese nel quale i manaci sapevano di essere in pericol».
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