15 settembre 2008

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Il cantico francese del prof. Ratzinger

Secondo il Papa, che ha tenuto venerdì un discorso bello e profondo nella patria del razionalismo filosofico moderno, parlando alla cultura francese riunita al Club dei bernardini, i benedettini di San Bernardo di Clairvaux, l’universalità è un tratto che appartiene sia a Dio sia alla ragione umana aperta verso il mistero o il trascendente.
Attenzione. Sono parole che pesano, che hanno un senso non accademico, che non sono destinate agli addetti ai lavori soltanto, ai filosofi e ai dotti. Sono atti programmatici di un papato giovanpaolino e benedettino che segna il passaggio tra due secoli in cui la modernità è diventata un problema in ogni campo storico ed esistenziale, e l’alleanza tra fede e ragione è indicata come la soluzione.

E’ noto che il Papa, programma parecchio ambizioso ma inevitabile, vuole convertire e riconvertire l’Europa scristianizzata, ma intende farlo riconoscendo le impronte decisive del suo secolarismo laico, rileggendo insieme al popolo e alle classi dirigenti il vero significato del patrimonio europeo e occidentale di cultura e di spiritualità, e perfino (e forse principalmente) il suo immenso tesoro scientifico.

Fa parte di questo gioco teologico-politico l’idea indiscutibile che il progresso della libertà umana e dei diritti della persona sia figlio anch’esso del cristianesimo. Il palcoscenico francese è quello, dal punto di vista di un illuminismo cristiano, che si presta meglio alla bisogna.

E’ dunque universale, universalmente valido, l’operare di Dio, creatore e attore della storia tramite l’Incarnazione e il Logos. Chi ha fede, chi si sente figlio di Dio in Cristo Gesù, deve rendere ragione di questa sua speranza, come è detto nella Prima Lettera di San Pietro. Il che è possibile, appunto, perché la ragione non è solo ragione particolare, che dà conto di questo o quell’esperimento, di questo o quel fatto storico individuale, ma è ragione universalmente valida, ragione che conosce e sa valutare anche il limite proprio, il confine della sua stessa capacità di conoscere, appunto il mistero.

Per questo motivo, per il fatto che tra il divino e l’intelletto umano vale una analogia nel segno della verità e del bene, due concetti e criteri anche etici che stanno e cadono insieme, la laicità secolare, cioè il nostro mondo della libertà individuale e del pluralismo dei valori, del relativismo, deve essere aperta al significato e al senso pubblico del sacro. E’ poi questa la laicità positiva o matura di cui ha parlato con lungimiranza Nicolas Sarkozy nel suo discorso lateranense, che ha aperto la via a questo viaggio e alla solenne “liturgia filosofica” di ieri.

Il secolarismo laico non deve mai trasformarsi in una religione o in una caricatura della religione. Per esempio: il giurista moderno può cercare una misura di giustizia fondata su procedure conformi alla legge positiva, a loro volta basate su convenzioni umane mobili, ma non deve cancellare il significato di diritto naturale innato contenuto nei principi non negoziabili. Per esempio: lo scienziato ha da essere libero nella ricerca, curioso, aperto a sviluppi imprevedibili, ma non deve considerarsi un “creatore deiforme” e non può pretendere di decidere scientificamente e proceduralmente della differenza tra bene e male. Per esempio: il politico democratico-liberale occidentale deve fondare le sue scelte sul consenso possibile, ma non può credere e far credere che la verità sia quel che stabilisce una maggioranza provvisoria.

“Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi”: questa è dunque la logica e ammonitoria conclusione del discorso pronunciato ieri da Benedetto XVI, il secondo grande discorso teologico-politico dopo Ratisbona.
I discorsi di questo Papa sono semplificabili in formule chiare a tutti e che tutti richiamano alla responsabilità di pensare (o di assistere per lo meno allo spettacolo del pensiero distogliendosi dalla noiosa ripetizione dell’intrattenimento quotidiano).

Tuttavia i testi di Benedetto XVI, come quelli del cardinale Ratzinger prima di lui, sono cesello teologico di qualità, spartito gregoriano in prosa, e procedono sempre in modo sorprendente, generoso, stringente e divagante insieme, letterariamente brillante proprio nel senso dell’unione di quell’amor di Dio e di quell’amore per le lettere richiamato ieri sulla scorta dell’opera del compianto monaco bernardino Jean Leclercq.
(Legare le lettere a Dio e Dio alle lettere è un progetto di cui, in fondo, la cultura francese non si è mai liberata, malgrado la finale e provvisoria vittoria di Montaigne su Pascal).

Per arrivare al formulario o alla manualistica dell’antirelativismo, che genera spesso tanti equivoci e tante pappagallesche imitazioni, il Papa fa un giro lungo e argenteo, partendo dal monachesimo occidentale, dalla sua ricerca di Dio come “ciò che permane per sempre”, come il “definitivo”, quel quaerere Deum che si risolve in dedizione alla Parola e alle parole, interpretazione della Scrittura e delle scritture in una comunione spirituale che è il contrario dell’arbitrio culturale individuale, è salmistica, è musica, è lotta per il bel canto angelico contro il rischio della “dissimilitudine”. Sono concetti gioiosi e lucenti che ci arrivano dal mondo antico e poi medievale, quei mondi che il modernismo banale vorrebbe obliterare e raschiare via dalla storia dello spirito umano in un superamento secolare definitivo e irreversibile.

Nel discorso è specialmente notevole quel tratto che ho provato a chiamare di liturgia filosofica.

Questo Papa insiste infatti nel tenere dei discorsi che hanno una caratteristica unica: sono in parte omelie, in parte lezioni magistrali, in parte manifesti culturali e politici, cioè filosofici, sulle grandi questioni del tempo, e specie quelle incandescenti.

Come in una testarda insistenza dopo Regensburg e le aggressioni subite per aver osato la verità, il Papa descriveva ieri nuovamente la dialettica rabbinica e poi quella cristiana della parola, la vittoria con San Paolo dello spirito sulla lettera, dell’allegoria e della lettura di comunione della Bibbia sul nudo testo della Scrittura. La Parola scritturale non è mai un dettato di Dio, ragion per cui, ed è una conseguenza importante per la nostra cultura e il nostro modo di vita, il cristianesimo non è propriamente una religione del libro. Noi interpretiamo e facciamo esegesi e teologia della Parola, ecco il deposito insieme culturale e di fede comunitaria dove abbiamo trovato l’antidoto al letteralismo fondamentalista. Ecco la nostra libertà dello spirito. E chi vuol intendere, intenda.

A un certo punto il Papa dice: “Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione”. La libertà dello spirito è sempre in tensione con un legame “d’intelletto e d’amore”, dice Benedetto XVI con formula delicata e stilnovista, e senza quel legame, negato dagli esiti nullisti e libertari dell’approdo moderno, la libertà si distrugge. A occhio e croce, sembrerebbe non avere tutti i torti.

© Copyright Il Foglio, 15 settembre 2008 consultabile online anche qui.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Questo scritto è secondo me una magistrale sintesi del pensiero ratzingeriano da parte di Ferrara (c'è l'elefantino, l'articolo quindi è suo). "Querere Deum" come espressione delle alte possibilità della ragione umana, possibilità che il positivismo nega. Ancora, il cristianesimo opposto al fondamentalismo perchè esalta l'attività di esegesi della Scrittura e i relativi contributi che ci sono stati e cisaranno nei secoli. Infine, il richiemo ai principi del diritto naturale fondati sulla ragione, immutabili e quindi "non negoziabili" al mutare delle diverse circostanze. Questa sfida del cristianesimo, lanciata da Papa Ratzinger, sul terreno della filosofia, delle dottrine politiche e della storia è la più ambiziosa che sia stata mai concepita all'interno della Chiesa. A pieno titolo si può parlare oggi di un "illuminismo cristiano". Carla