9 luglio 2008
Gli Anglicani davanti al passo più rischioso (Mazza)
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VIGILIA DELLA CONFERENZA DI LAMBETH
GLI ANGLICANI DAVANTI AL PASSO PIÙ RISCHIOSO
SALVATORE MAZZA
Facile pensare che, in questo momento, nessuno vorrebbe essere al suo posto. Perché, in effetti, quello occupato dall’Arcivescovo di Canterbury Rowan Williams sembra decisamente scomodo. Tra una fuga in avanti e l’altra, tra scismi minacciati e striscianti, la Comunione anglicana appare irrimediabilmente ansimante, e le vie per venirne fuori sembrano più che impervie. Il tutto alla vigilia della decennale Conferenza di Lambeth, che rischia di trovarsi convocata semplicemente per certificare la fine della Comunione quale fino a oggi l’abbiamo conosciuta. E come cattolici, ne parliamo con un’apprensione speciale, unita alla preoccupazione per il ricorso a un lessico il più possibile rispettoso delle persone e dei processi in corso.
A lacerare la Chiesa di Enrico VIII sono due questioni principali. La prima 'esplosa' con l’ordinazione nel 2003, negli Stati Uniti, di un vescovo coinvolto in un’unione omosessuale, considerata 'logica conseguenza' della tendenza diffusa in varie diocesi verso un rito di benedizione per le coppie omosessuali. La seconda, recentissima, il 'sì' della Chiesa d’Inghilterra alla consacrazione episcopale delle donne. E se per la prima Williams era riuscito a ottenere una 'moratoria' proprio in vista dell’imminente Conferenza di Lambeth, questa nuova bomba, benché attesa, non ha fatto altro che allargare ulteriormente la faglia d’attrito, portando il fronte dei cosiddetti 'tradizionalisti' ad allargarsi e allungarsi, dall’Asia e dall’Africa, fin nel cuore stesso della Gran Bretagna. Aumentando il rischio che molti, o moltissimi, finiscano per abbandonare del tutto la Comunione anglicana, cercando una risposta al proprio travaglio, come anche
L’Osservatore Romano oggi rileva, «con un’adesione alla Chiesa cattolica o ad altre confessioni cristiane». Al di là di quest’ultima possibilità, che potrebbe aprire un fronte di neo-uniatismo probabilmente non visto con favore da nessuna delle parti coinvolte, il problema che la crisi anglicana mette a nudo ha molte facce. Anzitutto quella interna alla Chiesa d’Inghilterra; dove i nodi che cominciarono a intrecciarsi alla fine degli ’80, con la prima apertura al sacerdozio femminile, sembrano essere arrivati fatalmente al pettine. Nodi che si chiamano liberalism
(nell’accezione americana del termine), 'correttezza politica', relativismo. E sfide che i 'tradizionalisti', più semplicemente, interpretano come un’allontanarsi dal Vangelo e dalla rivelazione cristiana, il cedimento cioè a una mondanità alla moda. E non esitano a scomodare la parola più dura: un tradimento.
C’è poi la causa ecumenica che, come ha detto ieri apertamente il cardinale Walter Kasper, non potrà non accusare pesanti contraccolpi in seguito alle decisioni che la Chiesa Anglicana ha già assunto e che potrebbe ulteriormente assumere. Un «ulteriore ostacolo alla riconciliazione» che, se non fermerà il dialogo, certamente ne potrebbe condizionare il futuro in modo forse irreversibile.
A Lambeth, quasi sicuramente, il punto focale di tutta la discussione saranno le due proposte con le quali il Windsor Report, elaborato in vista della Conferenza, intende rispondere a chi già dichiara la comunione 'finita': limitare l’autonomia delle singole province, rafforzando il ruolo dell’Arcivescovo di Canterbury; e costituire un Anglican Covenant (Patto Anglicano), che le diverse Province dovrebbero adottare per rendere «la lealtà e i legami di affetto caratterizzanti le relazioni tra le Chiese della Comunione espliciti e saldi». Williams ha puntato molto, quasi tutto, su queste proposte. Il problema è che, anche se venissero approvate, potrebbe essere tardi per rinsaldare la frattura.
© Copyright Avvenire, 9 luglio 2008
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