30 agosto 2008

Essere e tecnica da Heidegger a Conrad: "Quella strana «passione» per le macchine" (Oddone Camerana per l'Osservatore)


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Essere e tecnica da Heidegger a Conrad

Quella strana «passione» per le macchine

di Oddone Camerana

Diceva il filosofo Martin Heidegger: "La tecnica, la cui essenza è l'essere stesso, non permetterà mai all'uomo di dominarla. Questo vorrebbe dire che l'uomo è padrone del suo essere". In altre parole Heidegger ci ha messo in guardia di fronte al fatto che l'essere si esprime nella tecnica.
L'abbinamento tra essere e tecnica è stato ripreso da René Girard là dove lo studioso francese risale a Eraclito e assegna alla rivalità, al pòlemos, un posto centrale nello sviluppo dei rapporti umani. Se questi entrano in crisi violenta tra di loro perché il desiderio di molti converge sul medesimo oggetto indivisibile, è la tecnica a risolvere il conflitto - il primo conflitto che si conosca - assumendo così essa il ruolo trascendentale di "essere" che le assegna Heidegger. Nella sua forma primordiale si tratta qui di quella tecnica che si manifesta nella produzione di un vero e proprio "prodotto", quello prodigioso, magico e tremendo del meccanismo del capro espiatorio. Meccanismo "tecnico" questo, complesso e ingegnoso di espulsione di ciò che, in quanto rigettato, si rende capace di convertire il male del conflitto nel suo opposto benefico di una pace, ancorché di durata temporanea.
Di qui il bisogno infinito di richiamare in vita lo stesso "prodotto" miracoloso, ripetendone preventivamente nel rito le circostanze originarie di formazione. Lo stabilizzarsi millenario di questo miracolo sarebbe all'origine della cultura stessa, di tutte le culture fondate in quanto tali sul rito di espulsione della violenza attraverso il nascondimento della violenza stessa. "Nella cultura tutto è rito: la metallurgia, la fabbricazione del pane..." scrive René Girard in "La pietra scartata" (1993). Anche l'industria manifatturiera, se ne può dedurre. La quale, ancorché sia in grado di produrre in grande quantità beni la cui penuria susciterebbe altri conflitti, oltre a quelli che già nascono per altri motivi, e di accontentare il desiderio di molti, non sfugge al vizio di origine che la vede compromessa con la violenza culturale da cui proviene.
È per questo che, restando sul piano dell'essere, viene considerata distruttiva e senza senso. O carica di un senso il cui significato è in funzione del punto di vista dei dominatori, i quali sarebbero perciò costretti a cercare "i mezzi per la propria sicurezza nel cuore stesso del terrore" (René Girard, "Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo", 1983). La tecnica ha dunque qualcosa di religioso. "Le religieux, dans son ensemble, est donc une technique de détournement de la violence" (Charles Ramond, "Le vocabulaire de Girard").
A riflettere sui destini della tecnica si era dedicata una volta anche la letteratura industriale o il romanzo del lavoro.
Composizioni così definite in considerazione del luogo, le fabbriche, dove le vicende si svolgevano e in omaggio alle persone che vi erano rappresentate. Fu un nobile terreno di scontro che vide all'opera grandi narratori come Charles Dickens ed Emily Brontë, attenti, questi, all'aspetto sociale e umano dell'industria. O come Nathaniel Hawthorne e Hermann Melville, sensibili a quel tanto di ineluttabile e di ignoto che era più visibile nella tecnica ai suoi esordi.
O come Samuel Butler, le cui utopie negative sulla lenta ma incessante confusione tra uomo e macchine avevano anticipato il sorpasso di queste ultime fattesi intanto capaci di comandare i loro antichi padroni fingendo di esserne al servizio. Nonostante le pagine di questi e di altri romanzieri e nonostante la rappresentazione degli orrori della civiltà occidentale messi in luce da Joseph Conrad, ambientandola nella wilderness africana, la rivoluzione industriale ha proceduto il suo cammino. E si è realizzata fino a raggiungere i traguardi della arrendevolezza ai macchinari informatizzati e alla smaterializzazione del lavoro che per certi aspetti colpisce la classe operaia di oggi.
Nel frattempo con l'esaurirsi della letteratura industriale, gli edifici sopravvissuti delle fabbriche dell'ottocento e del primo novecento sono diventate "archeologia" e il loro aspetto di cattedrali della produzione è emerso con evidenza. Da quel momento il sacro sinistro della tecnica non è più un mistero per nessuno diventando anche una forma di moda culturale. Ha continuato a macinare riti, e chi è vissuto nel mondo della fabbricazione industriale, assistendo all'ultima rivoluzione del lavoro, ha potuto vedere il realizzarsi del fenomeno previsto da Melville e Hawthorne, quello relativo alla caduta delle rigidezze mentali sull'organizzazione del lavoro.
Nel 1986 l'ingegnere Vittorio Ghidella, sotto la cui guida c'era stata la trasformazione dei vecchi stabilimenti Fiat in gioielli della produzione, dovette lasciare FiatAuto. In pensiero di fronte al possibile declino delle fabbriche molti si erano chiesti: "E adesso? che cosa succederà delle fabbriche?". "Le fabbriche" fu loro risposto, "vanno avanti da sole". Era la voce di chi sapeva bene come la tecnica fosse in grado di procedere in autonomia e avesse dentro di sé le soluzioni che occorrevano agli stabilimenti per sopravvivere senza bisogno di suggerimenti.
Potenza della tecnica che indicava le parole con cui difendersi e trovava anche quelle per valorizzarsi. Un esempio di quest'ultimo fenomeno è contenuto in un'affermazione pubblicitaria usata in quegli anni. "Fiat Uno. Che passione!" era questo il messaggio della campagna a sostegno del modello che segnò il ritorno della fabbrica torinese al successo dopo gli anni di piombo.
Al comitato di persone invitate a giudicare detta campagna, non sfuggì l'avvenuta trasformazione subita dal termine "passione". Da parola appartenente alla liturgia che richiamava e richiama la morte di Gesù, a parola ritenuta adatta a definire positivamente i tormenti suscitati dal desiderio di possedere quel particolare modello automobilistico. La metamorfosi era avvenuta e non restò che prenderne atto.
Erano passati pochi anni da quando negli stabilimenti di produzione torinesi la piaga dell'assenteismo in fabbrica era stata, se non debellata del tutto, fortemente ridotta.
Ragionando sulla correlazione esistente tra l'alto numero dei piccoli infortuni e l'alto numero di assenze, si era arrivati all'ipotesi che si potesse intervenire attraverso provvedimenti in area antinfortunistica. Si trattava di lanciare una campagna propagandistica all'interno della fabbrica sollecitando l'uso tassativo delle protezioni previste (caschi, guanti e altre apposite attrezzature).
Campagna di tipo ideologico, incentrata sul presunto potere di persuasione trasmesso da cartelli, poster, volantini eccetera, i quali avrebbero raffigurato l'uso corretto delle protezioni stesse in una cornice di atteggiamenti "eroici", intelligenti, moderni, comunque positivi. Accortisi che "il prodotto" da far "consumare" ai destinatari del messaggio non era nient'altro che un comportamento di obbedienza a una nuova imposizione aziendale o padronale, si preferì, dato il clima politico, di abbandonare l'idea, affrontando il problema da un'altra prospettiva: quella tecnica. Posto che la causa dei piccoli infortuni e quindi dell'assenteismo risiedeva nella natura delle macchine, era con queste che bisognava cercare di trattare.
Fu così che si decise di "negoziare" con esse, di "parlare" con le tecnologie di produzione più o meno robotizzate. Si era intuito che con le macchine bisognava e si poteva cercare di "colloquiare" considerandole, alla maniera di Heidegger, se non proprio espressioni dell'essere, quanto meno delle "persone", in altri termini delle creature. E fu così che, messa da parte la campagna sopraddetta, si diede il via all'aumento del numero dei punti di medicazione e di sale mediche a cui ricorrere al minimo incidente causato da una macchina.
Affrontati in modo dialettico, gli strascichi dei piccoli infortuni si ridussero notevolmente facendo precipitare le alte percentuali di assenteismo a livelli cosiddetti fisiologici. Senza volerlo era stato scritto una specie di apologo della storia delle relazioni uomo-macchina, il cui insegnamento faceva presente come la tecnica proceda allo stesso modo della natura. Per raggiungere i loro fini, scelgono entrambe la via più breve, la più economica e la più veloce alla quale non c'era che da adattarsi.
Ma è nella tecnomedicina e nella biologia che la centralità, l'indipendenza, l'autonomia e l'egemonia dalla tecnica si rivelano con maggiore evidenza. Rendendo possibile di mantenere in vita artificialmente persone che altrimenti è probabile avrebbero finito di vivere, la tecnica domina anche la morte. Molti scienziati e medici fanno presente come la permanenza della libertà di scelta sia in ogni modo garantita e per questo respingono l'idea di una tecnologia che impone l'obbligo di utilizzarla.
Sarà così, ma se non si tratta di obbligo, bensì di libertà di scelta, questo non toglie che la tecnica imponga di scegliere tra due violenze. Si è così tornati ai due torti di fronte ai quali veniva a trovarsi l'eroe della tragedia classica. Nelle Coefore di Eschilo, Oreste deve decidere se uccidere la madre Clitemnestra o disubbidire all'obbligo di vendicare il padre Agamennone.
Qualcosa di "esterno" a lui glielo impone. Fatta la scelta matricida, subisce la persecuzione delle Erinni. Violenza contro violenza. Quanto all'assoluzione salvifica proposta dall'Areopago, il tribunale convocato da Atena, non è meno violenta. Ritenendo Oreste non colpevole perché la figura del maschio e padre prevale su quella della femmina e madre, il tribunale ottiene che le Erinni siano trasformate in Eumenidi. È un passo avanti, un risultato di pace, sennonché è stato raggiunto grazie alla ripresa sotto altra forma della via dei persecutori. Una via in fondo alla quale c'è sempre qualcuno che paga.
I torti con i quali Oreste ha dovuto confrontarsi, cambiate le cose e i riferimenti, si ripresentano oggi nella scelta tra la durezza di tenere in vita forzatamente il paziente in stato vegetativo e quella di farlo o lasciarlo morire. Una scelta tormentata dalla confusione di non sapere dove stia di casa la violenza. Uno stato dentro il quale si è infilata surrettiziamente la tecnica nella sua dimensione rappresentata dal "possibile", nuova trascendenza dei nostri giorni.
In questa prospettiva uno si chiede come ci si debba regolare nei riguardi della tecnica e soprattutto della tecnoscienza. Non è facile rispondere, considerato che esse sono in grado di indicare da sole soluzioni seducenti: le loro. Il fatto è che non sappiamo da dove vengono e non lo sapremo mai. Quel tanto di ignoto che le accompagna, che ci supera, che ci appare estraneo e che ci affascina, ci mette però anche in guardia circa la loro provenienza e circa la presunta possibilità di farci scoprire ad esempio che cosa è la vita. La Passione che ha reso inoperante la tecnica primordiale del ricorso alla vittima per il controllo automatico della violenza dovrebbe renderci prudenti e responsabili verso tutto ciò che sa di tecnico che sembra avviato ad essere sacralizzato al posto della vita stessa.

(©L'Osservatore Romano - 30 agosto 2008)

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