28 agosto 2008
Mons. Pezzi (Mosca): «Io, arcivescovo cattolico amico degli ortodossi» (Dignola)
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«Io, arcivescovo cattolico amico degli ortodossi»
Monsignor Paolo Pezzi racconta il suo primo anno a Mosca «Momento drammatico non solo per la Russia, ma per il mondo»
dall'inviato
Carlo Dignola
RIMINI
Auditorium gremito, come al solito centinaia di persone sedute per terra o in piedi: erano in diecimila ad ascoltare monsignor Paolo Pezzi che dal marzo dell'anno scorso è arcivescovo cattolico di Mosca. Non siamo neppure a metà strada e nei padiglioni riminesi non si gira già più: se va avanti così l'anno prossimo anche la Nuova Fiera, costruita solo cinque anni fa, non basterà più a contenere il Meeting. Ieri per l'incontro con una certa Vicky Aryenyo, sconosciuta «protagonista» del Meeting Point di Kampala, e la sua terribile e straordinaria discesa e risalita dall'inferno dell'Aids c'è stato un vero assalto: erano migliaia le persone rimaste fuori dalla sala che guardavano l'incontro in video sui maxischermi allestiti all'esterno. Non sono gli incontri culturali, e neanche quelli con i politici ad attirare la massa critica del Meeting, che si passa la voce e si ritrova agli incroci più impensati di storie umane, storie di crisi e di scoperte, di morti e di rinascite, di piccole rivoluzioni interiori che toccano, cambiano, trascinano per i continenti – in Kazakistan, a Taipei, in Canada – gente qualunque, gente non famosa.
Una di queste persone era Paolo Pezzi, che Benedetto XVI ha mandato a Mosca in un ruolo estremamente delicato in un momento come questo.
Lui lo definisce «un momento drammatico non solo per la storia della Russia ma del mondo, e i fatti recenti lo dimostrano». Della situazione di quello che ormai è diventato il suo Paese non vuole parlare, non fa nessuna conferenza stampa, non commenta nessuna dichiarazione della Duma o di Medvedev o di Putin sull'Ossezia, ma si mette a raccontare di quando, 25 anni fa, da ragazzo era qui a montare il palco del Meeting mettendo assieme tubi Innocenti di varia lunghezza con un amico molto esperto in questo genere di prosaiche costruzioni.
«Non credo che quello che faccio oggi sia molto diverso da quello che facevo allora: ognuno di noi risponde, istante per istante, alla chiamata del Mistero. È dicendo sì al Mistero che la vita si compie, non cercando di raggiungere l'eccellenza in qualche suo particolare» dice. «La vita – come diceva Paul Claudel – va cavalcata, non sgrossata nel tentativo di renderla un po' più facile», meno abrasiva.
Quello che fa oggi monsignor Pezzi è guidare la piccola comunità cattolica all'interno di una Mosca che dopo la caduta del comunismo ha riscoperto l'ortodossia, e cercare di intendersi con le gerarchie della Chiesa russa che temono come il fumo di Satana il «proselitismo» cattolico, lo vivono come un attacco al loro stesso essere cristiani.
Pezzi ha cambiato stile rispetto al suo predecessore, ha un'idea dell'ecumenismo e dei rapporti tra cattolici e ortodossi che mostra accenti nuovi. E ha alle spalle un Papa che – a differenza del polacco Wojtyla – piace anche a Mosca.
«La vita quotidiana, anche di un vescovo – racconta – è spesso piena di cose aride, burocratiche, di problemi amministrativi. A volte mi trovo fermo per ore nel traffico caotico di Mosca, il tempo scorre inutilmente e tu non puoi farci letteralmente niente. Il giorno dopo, invece, magari ti chiama il presidente della Repubblica russa, o il Patriarca ortodosso. Non decidi tu il livello di ciò che ti è dato di fare, ma in qualsiasi circostanza puoi offrire la tua vita».
Come stile del suo episcopato, come prima mossa invece di convocare «tavoli» e studiare strategie ha pensato «di dedicare tempo soprattutto a incontrare direttamente la gente. Perché la fede non può che comunicarsi da persona a persona. L'amicizia di Cristo non è possibile fra gli uomini senza una certa comunione di vita. Anche quando devo fare, come vescovo, dei discorsi, quello che mi preme di più è trovare questa familiarità di vita con le persone che incontro».
Per spiegare l'importanza della parola «cattolico» che noi latini abbiamo messo accanto a «cristiano» usa le parole di un pensatore che più russo non si può, Pavel Florenskij, grande scienziato, filosofo nonché prete ortodosso dell'inizio del ‘900: «C'è nel cristianesimo un peccato comune a tutte le confessioni: consiste nella dimenticanza del termine cattolico». Ma il cristianesimo – scriveva Florenskij - «è cattolico perché tutto è stato fatto per mezzo del Verbo eterno di Dio: l'orientamento della coscienza a Cristo implica dunque la pienezza e l'infinità delle sue manifestazioni». E spiegava che «senza rinunciare a nulla di ciò che è proprio di ogni singola chiesa, i cristiani devono issare innanzitutto il vessillo del cristianesimo». E «non può e non dev'essere troppo complicato questo vessillo»: bastano poche idee essenziali, che non cambiano a seconda delle diverse culture in cui la fede si incarna, e «senza le quali non vi sarebbe alcun motivo per dichiararsi cristiani».
Leggendo a Mosca queste parole, in questi primi mesi del suo episcopato all'arcivescovo sono tornate in mente quelle di un racconto mirabile e inquietante di un altro gigante del pensiero russo del ‘900, «L'Anticristo» di Solov'ev: «Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo – dice il vecchio starets all'Imperatore – è Cristo stesso. Lui stesso, e tutto ciò che viene da lui. Giacché sappiamo che in lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità». E anche la «Mistagogia» di Massimo il Confessore: «Cristo è tutto in tutti. Egli che tutto racchiude in sé secondo la potenza unica, infinita e sapientissima della sua bontà – come un centro in cui convergono le linee –, affinché le creature del Dio unico non restino nemiche ed estranee le une alle altre, ma abbiano un luogo comune dove manifestare la loro amicizia e la loro pace».
È questo cristianesimo «cattolico» – nel senso che è caratterizzato da un'apertura radicale –, in nulla avversario della tradizione ortodossa che interessa a monsignor Pezzi, e che lo spinge a creare relazioni nuove senza avere mai «la preoccupazione di ingrossare le proprie fila». Parla di una «gratitudine» che prova per la realtà della Chiesa ortodossa un vescovo inviato dal Papa nel cuore di una cristianità separata da Roma, e – precisa – «anche per altre realtà che sono presenti a Mosca, come alcune, seppur minuscole, comunità luterane». Ciò che avvicina i cristiani, di qualsiasi confessione – dice l'arcivescovo –, ma in ultima analisi ciò che avvicina ogni uomo è «il bisogno di Cristo, che è il bisogno più grande, ed è ciò che rende più grande il vero bisogno di ogni uomo».
Il motto che ha scelto per il suo episcopato è: «Gloria Christi passio». Altrimenti – dice – «di quale cristianesimo possiamo ancora parlare?». Senza quest'apertura, senza questo «ardore del fuoco che bruciava nel cuore di san Paolo» a cui Pezzi vorrebbe tornare (è l'anno paolino, e l'arcivescovo di Mosca porta lo stesso nome dell'Apostolo) «che cosa resterebbe di noi?», si chiede. «Non resterebbe niente» risponde. «Uno comincia a far proselitismo proprio quando muore la missione. Io voglio portare qualcuno dalla mia parte quando non voglio più portarlo a Cristo».
© Copyright Eco di Bergamo, 28 agosto 2008
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