28 agosto 2008
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India, ancora sangue. Il Papa: fermatevi
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di FRANCESCA MARINO
Altri tre morti in Orissa, sempre nel distretto di Kandhamal. Dove, nonostante il coprifuoco, si sono registrati altri scontri nella notte e dove la polizia ha ricevuto l’ordine di sparare a vista contro chiunque violi il coprifuoco o vada in giro armato. Il distretto è stato di fatto sigillato, e quattro battaglioni dell’esercito sono stati inviati in loco. Secondo il premier dello Stato, Naveen Patnaik, la situazione dovrebbe essere adesso sotto controllo. Si sono registrati però altri episodi di violenza in almeno nove distretti confinanti, in cui è stato imposto il coprifuoco. La residenza dell’ex capo della polizia di Raikia è stata attaccata, e si hanno notizie, un po’ in tutte le zone interessate, di famiglie che sono state costrette a cercare rifugio nella foresta, sotto la pioggia monsonica.
Benedetto XVI, durante la sua udienza del mercoledì, ha invitato «i leader religiosi e le autorità civili a lavorare insieme per ristabilire tra i membri delle varie comunità la convivenza pacifica e l’armonia che sono sempre state segno distintivo della società indiana». Il Papa ha poi condannato «con fermezza ogni attacco alla vita umana la cui sacralità esige il rispetto di tutti» ed espresso «spirituali vicinanza e solidarietà ai fratelli e alle sorelle nella fede così duramente provati».
Parole attentamente calibrate, cui hanno fatto ecco le preoccupazioni espresse dal governo indiano per la gravità della situazione che, alimentata dalle polemiche, non accenna a placarsi. Certamente, convivenza pacifica e armonia sono un tratto distintivo della società indiana e, soprattutto, dell’induismo. Che, non essendo una religione del libro, non ha mai avuto alcun problema ad ammettere l’esistenza e la co-esistenza di altri tipi di religioni e di credenze. E, soprattutto, non ha mai avuto alcun problema vero con i cristiani, che sono il 2,5 per cento della popolazione indiana, e con i cattolici in particolare.
Anzi. Le migliori scuole dell’India sono gestite da cattolici, e frequentate regolarmente da ragazzi di religione induista e da alcuni musulmani. Succede però che nelle zone a più alta densità di popolazione tribale o fuori casta, come l’Orissa, il Nagaland o il Tripura, una larga fetta della popolazione sia stata convertita al cristianesimo: in gran parte, a dire la verità, dalla Chiesa Battista americana o da evangelisti provenienti dagli Stati Uniti e dall’Australia.
La conversione non ha implicato soltanto una rottura con schemi culturali radicati e quindi conflitti tra tribù, ma ha avuto anche conseguenze economiche di un certo rilievo. I tribali, così come le caste svantaggiate e i gruppi minoritari, sono difatti protetti da uno specifico dettato costituzionale che garantisce loro, tra le altre cose, una specie di corsia preferenziale nell’ammissione alle scuole pubbliche e ai concorsi della Pubblica amministrazione. I cristiani, pur essendo un gruppo minoritario, non godono di questo privilegio. Chi, appartenente alle classi svantaggiate, cambia religione e si converte al cristianesimo o al buddismo, perde quindi il diritto di rientrare nelle cosiddette “quote riservate”. Ovviamente le battaglie, legali e di fatto, tra gruppi tribali e fuori casta per riservarsi dei privilegi, non fanno notizia neanche in India. Esistono, però. E sono alimentate da tutti coloro che hanno interesse nel provocare scontri e divisioni tra quella che è la maggioranza della popolazione dell’Orissa. Una maggioranza che vive in gran parte sotto la soglia di povertà, con un tasso di analfabetismo e di disoccupazione altissimi. Schiacciata da interessi economici enormi. Una maggioranza che è meglio si interessi di religione, dividendosi e massacrandosi in nome di Dio, invece che della rivendicazione dei propri diritti e delle terre di cui sono stati privati in nome dello sviluppo e del progresso.
© Copyright Il Messaggero, 28 agosto 2008 consultabile online anche qui.
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