30 agosto 2008

«India: Cattolici scomodi, aiutano i deboli». I commenti di D’Souza, Kamdar e Padre Sequiera (Avvenire)


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«India: cattolici scomodi, aiutano i deboli»

l’attivista D’Souza

«Le nostre scuole educano all’emancipazione sociale»

«Molti gruppi svantaggiati diventano capaci di contrastare antiche oppressioni. Per questo tentano di spazzarci via Nessuno fa nulla»

DI STEFANO VECCHIA

Dolphy D’Souza è presiden­te della Catholic Sabha, che riunisce i laici della ' grande Bombay', e vicepresi­dente dell’Associazione dei laici cattolici dell’intera India. D’Sou­za ha guidato nelle scorse setti­mane la difesa delle scuole catto­liche della municipalità contro le pressioni e in certi casi gli attac­chi di gruppi indù contrari al so­stegno dato ai meno abbienti e al­le quote garantite agli studenti cri­stiani.

Signor D’Souza, perché questa si­tuazione di tensio­ne? E perché la protesta delle scuole?

Le forze 'fasciste' che si celano die­tro pretesti religio­si non hanno mai amato la presenza delle scuole cri­stiane e il loro im­pegno nell’educa­zione dei più pove­ri, in modo che siano capaci di contrastare antiche oppressioni. Gruppi sfavoriti finora sottoposti al potere di caste elevate e di la­tifondisti si ritrovano improvvisa­mente in grado, attraverso l’istru­zione, di chiedere giusti diritti e retribuzioni. Da qui il costante tentativo di spazzare via quanti si impegnano a migliorare le condi­zioni sociali degli svantaggiati. Anche oggi la situazione è molto difficile nel distretto di Kandha­mal, nello Stato di Orissa, dove non è possibile esprimere a paro­le il terrore che si è instaurato tra i cristiani disarmati, che sono po­veri tra i più poveri. Serviva un at­to di solidarietà nazionale e que­sta è stata la nostra risposta.

Le scuole sono al centro di conti­nue tensioni, nonostante il loro importante ruolo sociale nel Pae­se...

Le scuole cattoliche forniscono un’educazione di qualità e un si­stema di valori altamente positi­vi, per questo l’ammissione ai no­stri istituti è assai ambita da tutti gli strati sociali. Nella nostra città le circa 200 scuole cattoliche for­niscono educazione di qualità a 200mila studenti, all’ 80 per cento non cristiani. Ciononostante, po­litici e gruppi esercitano continue pressioni perché vi trovino spazio studenti da loro raccomandati. Molti, tra cui genitori degli stu­denti, associazioni di docenti e di cittadini, si sono impegnati nelle scorse settimane per l’autonomia delle istituzioni educative e con­tro le sopraffazioni, per ora vin­cendo il braccio di ferro.

Le tensioni sono continue, ma non sempre esplodono in aperta violenza. Perché ciò è accaduto nello Stato dell’Orissa?

La situazione in Orissa è grave ma ha più a che fare con la politica che con le fedi. Superata presto, come noi auspichiamo, questa e­mergenza, i cattolici dovranno continuare a impegnarsi positi­vamente – lì e altrove nel Paese – per incisive riforme sociali, anche a rischio della vita. Tutte le parti politiche vogliono raccogliere vo­ti capitalizzando le divisioni so­ciali nel nome della religione. Vo­gliono aggravare la polarizzazio­ne nella società a proprio benefi­cio. Così, mentre ci gloriamo del­la nostra laicità, la cronaca dipin­ge un’altra realtà. Ancora una vol­ta, guardiamo all’Orissa. Sia il go­verno dello Stato, sia quello fede­rale sono in imbarazzo profondo o vogliono far credere di riuscire a garantire la legge, mentre con­tinuano impuniti uccisioni e roghi. Di fatto nessuno o­sa porsi in contra­sto con gli indù ri­schiando di perde­re i loro voti. Ciò che è doloroso è che la Costituzio­ne indica diritti specifici per le mi­noranze, diritti che sono raramente at­tuati. Occorre con­tinuare a urlare perché qualcuno finalmente ascolti.

Tornando a Bombay, non sono mancati problemi per realizzare la protesta di ieri...

Alcune scuole hanno organizzato localmente diverse marce. La Scuola Don Bosco, del distretto di Borivali, ha mobilitato in una marcia di solidarietà con i catto­lici dell’Orissa circa 750 studenti delle superiori e questo nono­stante l’opera di dissuasione del­le autorità scolastiche e della po­lizia. La stessa polizia non ha in­vece dato il permesso alla marcia, annunciata con ampio preavviso, della scuola intitolata a San Fran­cesco d’Assisi. Il divieto è stato motivato con la campagna d’odio del Bajrang Dal, gruppo indù, as­sai attivo e aggressivo nello Stato del Maharashtra, di cui Bombay è capitale. Non è servito appellarci alla polizia e la marcia è stata so­spesa. Questo a riprova che i de­boli hanno oggi poco spazio in In­dia, contrariamente ai violenti.

© Copyright Avvenire, 30 agosto 2008

l’analista Kamdar

«Il nazionalismo indù teme il progresso e l’uguaglianza»

«È uno scontro soprattutto politico. Gli estremisti vogliono riguadagnare consensi in un momento di forti cambiamenti»

DI NELLO SCAVO

«No, non chiamatelo scontro religioso. I cristiani massacrati sono vittime di violenza esclusiva­mente politica. La religione è solo un pretesto brandito dai nazionali­sti indù per riconquistare spazi di potere con il sangue». Mira Kamdar insegna al World Policy Institute di New York. Esperta di questioni in­diane, è analista di Cnn, Bbc e scri­ve per l’International Herald Tribu­ne.
Il suo Planet India, appena pub­blicato da Sper­ling& Kupfer con il titolo India, l’inva­sione mite, è un te­sto di riferimento per capire «come cambia l’India, ma soprattutto come l’India sta cambian­do il mondo», dice Kamdar, che in que­sti giorni è ospite di 'Parolario', la rasse­gna culturale in cor­so a Como.

Perché sostiene che quelli in atto sono scontri di natu­ra politica?

Gli indù dicono che i cristiani devo­no smetterla di promuovere le con­versioni, ma è solo una scusa. In pas­sato, hanno fatto lo stesso con i mu­sulmani, massacrandoli perché la terra indù non poteva essere violata dalla costruzione di moschee. I mo­tivi però erano e sono altri.

Quali?

Tutte le volte che in India sono in corso grandi e positivi cambiamen­ti, c’è sempre qualche nazionalista pronto ad interromperli. Non era forse un estremista indù l’assassino di Ghandhi?

Chi c’è dietro l’ondata di persecu­zioni?

Ecco, credo che il Bharatiya Janata Party (Partito del popolo indiano) c’entri qualcosa. Il Bjp è la maggio­re forza conservatrice del Paese, fau­tore di una politica nazionalista e di difesa dell’identità induista. Dopo aver governato il Paese dal 1998 al 2004, ora è la principale compo- nente di opposizione al Partito del Congresso di Sonia Gandhi e, non a caso, è il partito di maggioranza nel­lo Stato dell’Orissa, dove stanno av­venendo le violenze.

Il Mahatma Ghandhi venne accu­sato dagli indù di debolezza con il Pakistan e con i musulmani. Al di là dei proclami religiosi, perché nel mirino ora ci sono i cristiani?

I nazionalisti temono che il messag­gio cristiano possa aprire gli occhi alla gente e promuovere una rivolu­zione culturale proprio in quelle re­gioni dove più grave è l’arretratezza e più forte il radica­mento indù. Se c’è una cosa che gli indù integralisti non sopportano, è l’idea di eguaglianza insi­to nel cristianesimo, così come la pro­mozione del ruolo della donna. Punti di vista che in una società basata sulle caste vengono con­siderati destabiliz­zanti anche per gli assetti del potere.

In quali contesti gli integralisti mie­tono consensi?

L’India è un Paese in rapido cam­biamento. Coesistono aree con il massimo dell’innovazione tecnolo­gica e intere regioni prigioniere di u­na grande arretratezza culturale, e­conomica e sociale. Vi è una picco­la minoranza di ricchi, una classe media in crescita, e poi 800 milioni di persone che vivono con meno di due dollari al giorno. Chi si sente ta­gliato fuori dalle prospettive di be­nessere è facile preda dei rigurgiti dell’estremismo. Sentimenti che u­na parte del mondo politico cavalca allo scopo di capovolgere gli equili­bri e riconquistare il potere perduto con le ultime elezioni.

Come evitare il ripetersi di questi attacchi?

Per cominciare, riscoprendo il mes­saggio veramente rivoluzionario ve­nuto dall’India nel secolo scorso, quello della libertà conquistata con la non-violenza. È un valore che pos­siamo insegnare al mondo, a condi­zione di non inseguire sistemi eco­nomici e culturali che non appar­tengono al 'pianeta indiano'.

Perché è così diffidente nei con­fronti del 'modello occidentale'?

Non è solo una questione culturale, ma pratica. Il mondo intero e l’India non possono permettersi un miliar­do di persone che vivono, consu­mano e inquinano quanto un ame­ricano medio. Ostinarsi a persegui­re il modello di benessere norda­mericano vuol dire condannare l’In­dia alle disparità sociali e, dunque, a nuovi conflitti.

Quale sarebbe la 'via indiana' al progresso?

Sono necessarie politiche di svilup­po che non lascino indietro i più po­veri. Occorre accorciare il divario e­conomico, culturale e sociale, su cui fanno leva i fondamentalismi. Non sarà facile, ma è indispensabile tor­nare a mettere al primo posto la pro­mozione umana e l’armonia con l’ambiente. Questo dovrebbe essere lo scopo primario di ogni politica di sviluppo.

© Copyright Avvenire, 30 agosto 2008

il racconto

Padre Edward Sequiera è stato aggredito nell’orfanotrofio dato alle fiamme. «Erano in 30 armati di bastoni, salvato da Rajani, si è sacrificata per avvisarmi»

«Così volevano bruciarmi vivo»

Ci si stava preparando al pranzo nell’orfa­notrofio di Padam­pur, quando una giornata come le altre si è trasforma­ta in un incubo da cui padre Edward Sequiera, missiona­rio indiano del Verbo Divi­no, fa fatica a svegliarsi.
«E­ra l’una del pomeriggio, quando sono arrivati. Erano 25-30 persone, con bastoni, lame e attrezzi edili. Grida­vano: i cristiani hanno ucci­so Swami Laxamanananda, noi uccideremo i loro preti», ha raccontato all’agenzia Misna il missionario dal Me­dical college di Sambalpur, nello Stato dell’Orissa, dove è ancora in cura per le ferite riportate.
Lunedì scorso gli estremisti hanno raggiunto l’orfano­trofio istituito otto anni fa nel distretto Bargarh da pa­dre Sequiera, originario del Karnataka, come parte di u­na programma più vasto, concordato e ben accetto dalla popolazione locale per la riabilitazione dei lebbro­si e il sostegno a categorie di emarginati come i 'fuori ca­sta' e i cosiddetti tribali, co­munità indigene che seguo­no propri culti. «Rajani è venuta ad avvisar­mi che quella gente stava ar­rivando per uccidermi; se fosse scappata via ,ora sa­rebbe viva», dice il religioso, riferendosi alla giovane di 20 anni morta tra le fiam­me. «Non era cristiana, ap­parteneva a uno dei popoli tribali dell’Orissa; quando aveva 15 anni è venuta a vi­vere nell’orfanotrofio. Fre­quentava il college femmi­nile di Pudampur e il po­meriggio aiutava gli altri bambini dell’orfanotrofio a fare i compiti».
Quando il sacerdote ha af­frontato gli aggressori chie­dendo loro di andarsene e di non toccare i bambini, essi hanno cominciato a pic­chiarlo. «Ricordo bene le ur­la e i pianti dei bambini che guardavano la scena dalle fi­nestre – dice –. Poi mi han­no trascinato in casa, nella stanza che usavo come uffi­cio. Hanno gettato benzina su un grosso mucchio di ve­stiti: le fiamme sono divam­pate rapidamente e loro mi hanno chiuso dentro». Il missionario aggiunge che, con grande fatica per i dolo­ri causati dalle percosse, con un secchio d’acqua è riusci­to a contenere l’incendio; poi si è chiuso in bagno ed è svenuto. Intanto fuori si consumava il resto della tra­gedia. Più tardi è arrivata la polizia, ha sfondato la porta del bagno e soccorso il sa­cerdote, portandolo in o­spedale. Intanto i bambini, che erano scappati nella fo­resta e solo il giorno dopo sono tornati alla spicciolata alle rovine di quella che era la loro casa, sono stati por­tati dalle autorità in altri cen­tri o orfanotrofi.

© Copyright Avvenire, 30 agosto 2008

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