28 agosto 2008
Il sacro e il santo nei sacramenti cristiani: "Il rito tra visibile e invisibile" (Inos Biffi per l'Osservatore Romano)
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Il sacro e il santo nei sacramenti cristiani
Il rito tra visibile e invisibile
di Inos Biffi
Il "santo" e il "sacro": ne parliamo dalla prospettiva cristiana, per osservare subito che il valore assoluto è il "santo", ossia lo stato di grazia, di comunione con Cristo, di vita secondo lo Spirito.
Per un cristiano non c'è nulla che valga e sia definitivo come la santità, che è la ragione stessa dell'esistenza dell'uomo, creato per essere conforme al Figlio di Dio (Romani, 8, 29), nel quale è stato eletto per essere "santo e immacolato" (Efesini, 1, 4).
La grazia, destinata a compiersi nella gloria, è una proprietà che segna la persona, che le appartiene e la qualifica; essa non serve a qualche cosa di ulteriore; non è una qualità transeunte o provvisoria, né una condizione mediativa, ma è fatta per permanere ed essere definitiva e conclusiva, come fine ultimo.
Modello originale e compiuto della santità cristiana è Gesù Cristo, l'umanità perfettamente santa è la sua umanità, alla cui pienezza tutti siamo chiamati ad attingere.
Diverso è invece il valore del "sacro". Esso ha una funzione mediativa.
In ambito cristiano possiamo riconoscere anzitutto come realtà sacra i sacramenti, e quanto, per così dire, ne sono come l'irraggiamento e l'imitazione, i "santi segni", direbbe Romano Guardini, o le cose sacre: dallo spazio, al tempo, agli edifici, agli arredi, al canto, alle figure, alle persone, ai libri: si direbbe tutta un'"estetica" sacra. Essi non fermano a sé e non sono conclusi in sé: a differenza della santità sono mediativi e funzionali. Ma occorre una precisa articolazione.
Riguardo ai sacramenti è illuminante la distinzione che facevano i teologi medievali - il cui principio già si trova in Agostino - che permetteva loro di mettere in luce quasi gli "strati" o i "livelli" dei sacramenti stessi.
Essi ne parlavano distinguendo: anzitutto il livello visibile, celebrativo, chiamato, con espressione tecnica, sacramentum tantum; segue quindi un secondo livello, quello della "virtù" del sacramento, che nell'Eucaristia corrisponde alla presenza reale del Corpo e del Sangue del Signore; per giungere al terzo livello, quello della res del sacramento, noi diremmo della sua riuscita, che nel caso dell'Eucaristia equivale alla partecipazione con la carità di Cristo o alla comunione e unità ecclesiale, senza della quale la pura sacramentalità o visibilità celebrativa, e la stessa presenza obiettiva di Gesù Cristo, sarebbero private del loro senso ultimo e della loro finalità, essendo sì in se stesse valide, ma risultando "inefficaci" o senza successo in chi le pone o vi prende parte.
E qui ritorna il tema del "santo": il sacro sacramentale è "valido" se il suo esito è la santità cristiana, cioè la carità di Cristo, che è la sostanza del sacrificio della Croce, presente compiutamente nell'Eucaristia e "virtualmente" negli altri sacramenti.
Nel caso quindi dei sacramenti il sacro corrisponde al rito, che non ha in sé la sua ragion d'essere, tutto orientato com'è alla santità come al proprio fine.
Ecco perché a valere non è la ripetizione rituale, come non lo è la presenza della virtus passionis, e neppure del Christus passus, ma la loro assunzione al fine di conformare la vita a Gesù Cristo, ed è come dire: al fine di essere santi.
I sacramenti si "giustificano" non come valori assoluti in sé; essi come celebrazione sono transeunti e funzionali, quali mezzi per il conseguimento del fine, che è la santità. Essi predicano la nostra disponibile dipendenza, o l'obbedienza della nostra fede, che passa attraverso i segni liturgici, ma non si ferma e non si conclude in essi.
Indispensabili nel tempo della Chiesa, sono destinati a cessare alla venuta del Signore. Paolo parlava dell'annunzio della morte del Signore, "fino a che egli venga (1 Corinzi, 11, 16)".
La santità è escatologica, la ritualità è temporale.
D'altronde, sottolineare l'intenzione ultima dei sacramenti che è la santità non significa disistimare o sminuire il valore della celebrazione, che trova la sua genesi radicalmente nella volontà di Cristo, che l'ha istituita per il raggiungimento della conformità a lui.
Da qui la massima cura che per il rito liturgico. Trascurarlo, o secolarizzarlo, spogliandolo dei suoi riferimenti a Gesù Cristo, contestarne il carattere sacro - fu una delle non poche follie postconciliari - significherebbe alla fine riconoscere nella natura e nelle possibilità dell'uomo la fonte della giustificazione, e quindi sottrarlo all'opera e alla grazia di Cristo.
È il tratto che primariamente deve risaltare nella ritualità e che la catechesi e la pastorale liturgica devono anzitutto mettere in luce: il rapporto della celebrazione con il Signore.
A questo punto, per far risaltare in modo perspicuo la distinzione tra santo e sacro, può essere pertinente una riflessione sulla persona "sacra" del sacerdote, per osservare che l'ordine sacerdotale, che la contrassegna, non denota e non produce per ciò stesso la santità personale del ministro, che non opera efficacemente a motivo del suo essere in grazia: la sacralità che egli possiede è l'oggettiva potestà di Cristo che risiede in lui a servizio della santificazione della Chiesa.
Senza il sacramento dell'ordine, neppure il membro più santo del popolo di Dio può validamente presiedere l'Eucaristia e rendere presente, "in rappresentanza di Cristo", il sacrificio della croce.
Come segni sacri, tuttavia, non abbiamo solo i sette sacramenti.
Da essi distinti, ma quasi come loro proiezione o "propagazione", abbiamo tutto il mondo di altri "santi segni", con i quali la Chiesa ha circondato e impreziosito le sue celebrazioni.
Se pure questi sono solo di istituzione ecclesiale, talora con una matrice nel senso religioso naturale che è originariamente creatore e ricercatore di simboli; e se essi non hanno la virtù salvifica dei sacramenti, sono, tuttavia, un richiamo eloquente a Gesù Cristo, ne sono direttamente o indirettamente la trasparenza; la Chiesa li ha segnati della sua impronta e li ha orientati a lui, anche perché facilmente ne sono la fonte la Scrittura e la storia sacra.
Anche questi, che possiamo generalmente chiamare "sacramentali", posseggono un oggettivo valore sacro e sono in funzione della santità, per i pensieri spirituali che essi ispirano, i sentimenti religiosi che suscitano, la fede che alimentano e la contemplazione che sorreggono.
Contestarli o trascurarli come superflui, nella pregiudiziale che tutto è ugualmente e naturalmente sacro, avrebbe alla fine come conseguenza lo smarrimento del senso della stessa celebrazione cristiana e alla fine della concezione della salvezza come dono di Dio.
Certamente, c'è anche il rischio di una sopravvalutazione e di una specie di compiacenza rituale.
Questo, tuttavia, non è il rischio del nostro tempo, quando, non di rado, si celebra dovunque e comunque, con ogni foggia e ogni canto, e assai spesso con la connivenza della banalità e della bruttezza; quando, per esempio, gli spazi e gli edifici, sorti come case di Dio e del suo Popolo cristiano, sono violentemente sottoposti a qualsiasi uso, disponibili a qualsiasi cattedra o spettacolo, con l'esito di far loro perdere la destinazione per cui sono stati edificati e quindi il messaggio nativamente ricevuto.
Ciò che era sorto per essere un simbolo chiaro, incisivo e consueto, perde la sua identità, diviene confuso e fuorviante: il tempio diventa piazza, o si fa teatro, e in tal modo, con l'illusione di progredire, si regredisce fino allo smarrimento del senso religioso naturale.
(©L'Osservatore Romano - 29 agosto 2008)
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