26 luglio 2007

Il Papa, la cesura del 1968 ed il ruolo del Concilio


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PRIMA E DOPO LA CESURA DEL 1968

La Chiesa e il periodo della contestazione

Non si riferiva alla rivolta antiautoritaria, ma alla soggettività posta al centro della società
Papa Ratzinger ha definito, a ragione, quegli anni "una fase di crisi della cultura in Occidente"


EDMONDO BERSELLI

Il Sessantotto, ha detto papa Ratzinger, è una «cesura storica», e su questo sarebbe difficile dissentire. Ma poi ha aggiunto che rappresenta una fase di «crisi della cultura in Occidente», conferendogli un tratto di grandezza: anche perché lo ha affiancato a un´altra profonda cesura, «l´Ottantanove come crollo dei regimi comunisti».
Ora, è vero che il pontefice si riferiva ai contraccolpi che la tempesta sessantottesca determinò sul cattolicesimo post-conciliare: ma è l´espressione «crisi della cultura» che sollecita una riflessione. E non soltanto perché ci troviamo a un passo dal quarantennale del Sessantotto, che scatenerà un fiume di reinterpretazioni, ma perché sembra di cogliere nelle parole di Benedetto XVI un giudizio che su quell´anno fatale proietta un alone intensamente negativo. Crisi della cultura, dunque. Non c´è dubbio che il Sessantotto ha rappresentato una frattura, e che quindi nella vicenda occidentale, nelle società democratiche sviluppate, si può osservare un «prima» e un «dopo». Soprattutto in Europa, il maggio francese è stato l´epicentro di una rivolta che ha investito tutta la sfera della società e della politica: rivolta che si è manifestata in primo luogo contro le strutture e i simboli del potere (o meglio del Potere, con la maiuscola che si addice ai totem).
Nel suo estendersi in Germania e in Italia, la «contestazione generale» ha assunto caratteri specifici: se il maggio parigino aveva un contenuto insurrezionale, messo in pratica con modalità che prediligevano l´aspetto creativo e ironico, «l´immaginazione al potere», nella Repubblica di Bonn la ribellione si nutriva dei fermenti instillati dalla teoria critica di Adorno e dei francofortesi. Con il suo ordine conformista, il Modell Deutschland rappresentava agli occhi degli studenti un perfetto esempio empirico della «tolleranza repressiva» esorcizzata da Herbert Marcuse: la stabilità tedesca, ai tempi della Grosse Koalition fra Cdu e Spd, era un «sistema» che andava smascherato e messo a nudo nella sua intrinseca durezza fondata sul dominio di classe. Dunque c´era una differenza sensibile con il movimento francese: gli scontri degli studenti con la polizia nel Quartiere Latino non nascondevano un atteggiamento in cui la lotta coinvolgeva euforicamente l´immaginario: lo stesso frasario del Sessantotto a Parigi rivelava il lato ludico-situazionista della rivolta. Slogan come «Una risata vi seppellirà», «Vietato vietare» e «Siamo realisti, vogliamo l´impossibile» mettevano in chiaro quale fosse lo spirito dell´insurrezione: «Una follia estremistica», come la definì il generale de Gaulle, ma in cui emergeva la volontà di mettere a soqquadro, con le istituzioni, l´intero spettro degli stili culturali della tradizione.
I bersagli del Sessantotto erano l´autoritarismo, il paternalismo delle classi dirigenti, l´ossificazione ideologica della sinistra classica. L´avvento dei baby boomer sulla scena pubblica imprimeva un forte contenuto generazionale all´azione politica. Venivano messi in discussione i meccanismi del consenso, ma soprattutto gli istituti sociali della «repressione», a cominciare dalla scuola e dalla famiglia. Proprio per questo la ribellione parigina assumeva un profilo culturalmente radicale; e in questo senso si chiariva la differenza con il "movement" americano, tutto tematico, legato alla protesta contro la guerra nel Vietnam e ai diritti civili. La contestazione francese e più generalmente europea si esprimeva come un attacco ai nessi fondamentali della società dei padri, in cui la tonalità sovversiva era dominante.

In questo senso, l´espressione «crisi della cultura» non risulta affatto fuori luogo. I linguaggi del Sessantotto erano la spia spettacolare di una critica senza appello alla tradizione.

All´aspetto libertario o anarchico tipico di un leader come Daniel Cohn-Bendit si affiancava a Berlino la tagliente ideologia di Rudy Dutschke, fondata sulla triade Marx-Mao-Marcuse. La carica distruttiva prevaleva sull´intenzione politica, la «controcultura» era un possibile fine in sé, la sovversione anche estemporanea era incorporata nel movimento come orizzonte praticabile prima di qualsiasi progetto o di qualsiasi programma. Anche in Italia il Sessantotto divenne il laboratorio di tutte le sinistre possibili: ma per certi versi con un orientamento più esplicitamente politico, e con l´idea di portare la protesta studentesca a fondersi con segmenti di classe operaia, superando e contestando la rappresentanza del Pci e del sindacato.
Ma più che dagli «eventi» rivoluzionari prodotti storicamente dalla rivolta, la «crisi» del Sessantotto è sintetizzata dal suo impatto complessivo, ossia dai suoi effetti materiali e immateriali. Un possibile bilancio, oggi, porterebbe con ogni probabilità a privilegiarne i profili sociali e culturali, prima che le ripercussioni sulle istituzioni. Se, sulla scorta di Tocqueville e di Hannah Arendt (che non nascose la sua simpatia per il movimento americano nei campus), si pensa che le rivoluzioni riescono quando producono assetti istituzionali nuovi ed efficaci, il Sessantotto non fu una rivoluzione. Fu invece il motore di un cambiamento sociale profondissimo, realizzatosi direttamente negli atteggiamenti e nei comportamenti collettivi e individuali. La «crisi della cultura» di cui parla il papa fu una rottura di paradigma che travolse la tradizione, innescando mutamenti ingentissimi nella configurazione sociale e finanche nel costume. Queste trasformazioni vanno identificate nella fine della deferenza verso l´autorità, così come nello stravolgimento dei canoni «morali» che presiedevano al rapporto fra uomini e donne; nell´emergere di una coscienza femminile che progressivamente portò al rifiuto dei ruoli di genere prefissati; in una enfatizzazione della cultura e dell´arte come avanguardia espressiva del conflitto; nella relativizzazione di tutti i codici, religiosi ma non solo, che istituivano le regole della vita privata e pubblica.
Già, «il personale è politico»: e basterebbe questa frase per dimostrare come il Sessantotto costituì effettivamente un principio di secolarizzazione. Mentre a distanza di quattro decenni altre caratteristiche della rivolta sono passate in secondo piano (il terzomondismo, per esempio, o la critica alla «società dei consumi», liquidata a partire dagli anni Ottanta dalla riscossa del mercato), sembra di poter osservare che l´aspetto tellurico del pensiero sessantottesco è dato dalla convivenza di due dinamiche: una spinta tutta rivolta al collettivo, alle interazioni di massa, alla «felicità pubblica» di Albert Hirschman, e una fase invece individualistica, che pone la soggettività e le sue pulsioni al centro delle relazioni sociali. Forse è questo secondo aspetto che oggi assume pienamente il senso di una frattura radicale rispetto al passato, e che probabilmente Joseph Ratzinger, custode della continuità con la tradizione, segnala come momento della crisi culturale dell´Occidente. Perché in fondo comincia lì il relativismo. Oppure, a seconda dei punti di vista, comincia o, meglio, accelera in quella fase, con ritmi ineluttabili, quel processo indistinto, anonimo, tendenzialmente irresistibile che in tutte le società avanzate non si può descrivere se non con il termine di modernizzazione.

© Copyright Repubblica, 26 luglio 2007

La modernizzazione non e' sempre un fatto positivo, anzi...
Il '68 mirava a fondare una nuova societa' in contrasto ed in conflitto con quella dei Padri. Non si puo', a mio avviso, andare avanti senza radici e pretendendo di non voltarsi mai indietro. E' la teoria della rottura di cui parla Benedetto XVI
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Raffaella


SOGNI E SPERANZE NATI DAL CONCILIO

ENZO BIANCHI

Forse è ancora troppo presto per una lettura pacata e non animosa degli anni Sessanta, anche perché i protagonisti di quegli anni definiti "formidabili" sono ancora operanti in una società e in una chiesa molto cambiate. È indubbio che con l´annuncio del concilio da parte di papa Giovanni XXIII nel gennaio del 1959 si accesero molte speranze per la vita interna della chiesa e per un suo "aggiornamento" che le consentisse di essere più evangelica e più capace di collocarsi nella storia, dialogando con i non cattolici e lavorando con gli uomini "di buona volontà" alla costruzione di un mondo maggiormente segnato dalla giustizia e dalla pace.
L´evento conciliare accese speranze e sogni in tutti, dai vescovi al più semplice dei fedeli, e i testi del concilio parvero a tutti un orientamento autorevole in grado di accompagnare la riforma intrapresa. Negli anni immediatamente successivi, ci fu il fenomeno dei gruppi spontanei ecclesiali che indicavano tutta la vitalità cattolica nella scoperta della Bibbia e nel percorrere vie di spiritualità matura ed ecumenica. E quando venne il ´68, se è vero che vi furono cattolici impegnati nei movimenti e nelle iniziative vissute nell´ambito delle università, è anche vero che costoro non ponevano la loro qualità di fede come una bandiera. Certo, il ´68 spaventò molti per la sua novità di rivendicazioni e la forza dirompente che mostrava: era indubbiamente la crisi dell´assetto della cultura dell´occidente europeo. Ma una vera contestazione ecclesiale iniziò dopo, quando si manifestò il fenomeno delle comunità di base, dei "cristiani per il socialismo", con la militanza anche di alcune comunità che si trovarono a essere escluse dalla comunione cattolica anche da pastori aperti e fedelissimi al concilio come il cardinale di Torino, Michele Pellegrino.
Sì, in quegli anni Settanta, gli anni della teologia della morte di Dio, della contestazione alla struttura gerarchica della chiesa, dell´assunzione delle categorie marxiste nell´analisi della società e della vita ecclesiale, una minoranza, piccola ma molto attiva, eloquente e capace di apparire sui media, alimentò una situazione che per molti aspetti fermò lo slancio dell´aggiornamento conciliare e favorì la nascita contrapposta di movimenti ecclesiali nostalgici del passato, diffidenti verso la chiesa di Paolo VI, tesi a creare una presenza nella società che non disdegnava di mostrare pretese e arroganza. Gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI risentirono di questa contestazione e parvero creare nel papa dubbi, perplessità, paure non certo infondate se si tiene presente che il movimento del ´68 nel decennio successivo si sviluppò in alcune frange con l´assunzione persino della lotta armata. Ma la chiesa continuò, in particolar modo in Italia, la sua riforma conciliare e soprattutto i vescovi assunsero il Vaticano II come ispiratore di tutta la loro pastorale: liturgia, catechesi, predicazione furono veramente rinnovate e il frutto è ancora sotto i nostri occhi. Se infatti non si registra una crescita numerica dei cristiani, tuttavia quelli che compongono la comunità ecclesiale appaiono oggi più saldi nella fede, più consapevoli della differenza cristiana, più adulti nell´abitare la compagnia degli uomini: comunità forse più piccole, ma più vive, come ha messo in risalto a più riprese Benedetto XVI.
Chi sottolineava la rottura tra la chiesa precedente e il Vaticano II lo faceva non per far emergere la novità, l´"aggiornamento" o, per usare il linguaggio di Benedetto XVI, la "riforma" della chiesa, ma per aprire cammini inediti svincolati dalla tradizione, oppure lo faceva in vista di un declassamento del concilio o di un suo oblio per un ritorno alla stagione precedente. Sì, con ogni probabilità, quelli che volevano spingersi troppo oltre il concilio erano già scomparsi negli anni Ottanta, ma quelli che lo volevano cancellare sono oggi più che mai presenti, anche se come infima minoranza.

© Copyright Repubblica, 26 luglio 2007

Mi pare che Enzo Bianchi confermi esattamente e perfettamente il pensiero di Papa Benedetto. Da quello che intuisco dalla sue parole, il Concilio non deve interpretarsi come una rottura con la tradizione, ma deve porsi in continuita' con essa. E' proprio la riflessione di Papa Ratzinger, solo che quest'ultimo e' molto piu' pacato e sereno nel giudicare chi, ancora oggi, rivendica l'amore per la tradizione ecclesiale.
Non capisco questo insistere sulla infima minoranza. Se Enzo Bianchi si riferisce ai gruppi che rivendicano il diritto di celebrare la Messa in latino, penso che non abbia nulla da temere.
Quando al fatto che oggi i Cristiani siano piu' consapevoli della propria fede, beh, non ne sarei cosi' sicura...purtroppo!
Mi auguro che tanti sacerdoti leggano la conversazione che il Papa ha fatto in Cadore con i loro colleghi
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Raffaella


LE OPINIONI

PIETRO SCOPPOLA

Il pontificato di Giovanni XXIII, prima del Concilio, introduce elementi di novità anche sul piano culturale

GIOVANNI FRANZONI

La nostra generazione era convinta che i suoi valori anticonservatori fossero validi per le generazioni future

DON LORENZO MILANI

Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l´obbedienza non è ormai più una virtù

DON LUIGI GIUSSANI

Ciò che avvenne dal ´63-´64 fino allo scoppio del ´68 fu un processo di cedimento all´ambiente

© Copyright Repubblica, 26 luglio 2007

Un ringraziamento a "Repubblica" per l'analisi di uno dei tanti argomenti toccati da Papa Benedetto in Cadore.
Assordante il silenzio di quotidiani come Corriere e La Stampa
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R.

4 commenti:

mariateresa ha detto...

Il discorso che sembra fare Bianchi in questo caso è che dopo il Concilio e con il '68 effettivamente ci furono fughe in avanti, da parte di chi voleva andare ben oltre le speranze di rinnovamento e che ha anche finito per uscire dalla realtà ecclesiale e fughe, se così si può dire, all'indietro da parte di chi il Concilio non lo digeriva affatto I primi, secondo l'opinione di Bianchi, si sono estinti alla fine degli anni '80 e qui già non sono d'accordo, dei sopravvissuti ci sono eccome, basta navigare nella rete, non so se sono pochi o molti, ma sono sempre intervistati; i secondi invece, anche se "infima minoranza " secondo il suo pensiero, non vedono l'ora di fare le scarpe al Concilio.
Insomma mi pare che sia un po' esagerato e soprattutto strabico: ci possono essere persone che apprezzano il Concilio ma non tengono il salame sugli occhi, dopo tanti anni azzardano un bilancio, seppur ancora parziale, e ne vedono le luci e anche le ombre, che ci sono state e ci sono . Proprio in Rapporto sulla fede , nel dialogo con Messori, il Cardinale Ratzinger parlava di queste ombre, insomma sono dati, non chiacchere: non è che la comunità cristiana non è cresciuta ma si è foritificata in una fede più consapevole, come dice Bianchi, è prorprio che un numero grande, molto grande di preti ha preso la porta e se ne è andata; quanto alla gente comune, tutto questo rafforzamento della fede non mi sembra così evidente, per alcuni può anche darsi che si sia trattato di un percorso positivo, consono alla propria sensibilità, ma per parecchi nel tempo c'è stata disaffezione e molte chiese si sono riempite di ragnatele. O no? Nessuno ha la ricetta in tasca per risolvere problemi così grandi , ma almeno bisogna ammettere che un certo ordine di problemi si è creato, perché continuare a dire come Candido che dopo il Concilio tutto è stato rosa e fiori, è una posizione assurda, se non una strana forma di fondamentalismo. Proprio da un confronto realistico sulla situazione può uscire qualcosa di buono, ma non dalla canonizzazione di un evento che è stato importante, fondamentale, irripetibile, quello che volete , ma non ha esaurito la vita della Chiesa. Ci sono anche quelli che accettano di ragionare su questo e non so se sono così infimi.
Se poi vediamo che le comunità tradizionalista hanno numeri in crescita , ecco questo dovrà suggerire una riflessione. Insomma le affermazioni accorate possiamo accettarle se si guarda a tutta la realtà e non solo a quella che fa comodo, per sostenere una tesi.

Anonimo ha detto...

Si dovrebbe proprio evitare l'arroccamento sulle rispettive posizioni: quella per cui il Concilio e' stato tutto rose e fiori nonche' rottura con il passato e quella di chi pensa che dal Concilio non sia uscito assolutamente nulla di buono. Queste posizioni potevano andare bene alla fine degli anni sessanta, quando il Concilio si era appena concluso. Non hanno senso, nel 2007, a ben 42 anni di distanza. E' chiaro che occorre trarre dei bilanci da quella esperienza e non puo' essere accettata quella forma di fondamentalismo per cui il Concilio non si puo' criticare, analizzare o correggere. Laddove ci sono stati dei problemi e' giusto che si intervenga. Mi pare che, in questo senso, il Papa sia molto piu' moderno di certi commentatori ancora fermi al 1970. Dobbiamo andare oltre e tentare di accettare tutti, anche le infime minoranze, come le chiama Bianchi non senza un certo disprezzo.
Ciao

Scipione ha detto...

Come ha detto Raffaella: Il '68 mirava a fondare una nuova societa' in contrasto ed in conflitto con quella dei Padri. Bene – per modo di dire - ma adesso che i padri – se non nonni - sono loro, i sessantottini, perché si indignano e gridano allo scandalo se qualcuno vuole demolire loro e i loro disastrosi apporti “culturali e sociali”? Perché insistono a propinarci come esempio da imitare e su cui riflettere la loro di tradizione? Infatti 40 anni sono un po’ troppi per continuare e credersi giovanissimi e nuovissimi, soprattutto in un’epoca che, almeno a parole, dice di essere ultradinamica. Ma pensiamoci bene: tutta la Modernità ci sta ingannando. Si finge perennemente giovane e nuova ma in verità i suoi principi stanno dominando il mondo da quasi due secoli… proprio in nome della Modernità bisognerebbe modernizzarsi e sbarazzarsi della modernità stessa, certo delle sue aberrazioni!
Credo che il miglior modo per valutare la sensatezza di una posizione sia quella di considerare la sua intrinseca coerenza.
Il movimento di una generazione che combatte la tradizione, i padri, che vuole costantemente il nuovo… ma che dopo 40 anni è ancora padrona della scena culturale, politica, economica… beh… non è contraddittorio?
Così come un sistema, la Modernità, che nasce come rivoluzione permanente, come ariete che scardina tutte le tradizioni e tutte le autorità… ma che dopo due secoli è divenuta monolitica, potentissima e immutabile e si difende con le unghie e con i denti da ogni minimo tentativo di riforma gridando subito alla restaurazione, all’oscurantismo, al ritorno al passato… come considerarlo? Ma piaccia o no oggi il passato comincia ad essere proprio la modernità… o lei crede di essere perennemente moderna?
E che dire dei relativisti, per cui tutto è relativo… ma nel momento stesso in cui affermano una simile assurdità sono costretti a porre un assoluto? Ossia appunto che tutto è assolutamente relativo?
Insomma ce ne sarebbe da dire…
Quanto all’articolo SOGNI E SPERANZE DEL CONCILIO… beh a me invece pare che con subdola abilità Bianchi lo stravolga il pensiero del Pontefice, o meglio ne modifichi con la mano sapiente di chi i mezzi di comunicazione odierni li usa e li può usare a piacimento o quasi (altro che le minoranze di cui si lagnava) per dire e far prevalere ad ogni piè sospinto le proprie di opinioni, il senso. Come in un ritratto: basta arcuare di pochi millimetri in su o in giù la linea delle labbra e colui che prima rideva ora è triste.
Non so ma io più analizzo la posizione dei tanti “Bianchi” che ci sono in giro, più la trovo inaccettabile, contraddittoria… e, permettetemi di dire, quasi eretica.
Inaccettabile in quanto arrogante, nel suo porsi – e non solo surrettiziamente ma anche spesso esplicitamente - come posizione dei giusti, dei moderni, dei buoni, degli aperti, dei molti in contrapposizione a quella dei pochi – infimi – dei vecchi, dei fanatici, dei retrogradi, degli ottusi sconfitti dalla storia, dei residuati in via di esaurimento insomma…
Contraddittoria perché che una simile visione, che di fatto nega qualsiasi dignità all’avversario tanto da eliminare alla radice ogni possibile dialogo con esso – che senso ha infatti dialogare con un fondamentalista ottuso e perdente per inappellabile giudizio della storia? – provenga proprio da coloro che si vantano di essere aperti al dialogo universale, democratici e non assolutisti, contro le tradizioni (eppure adesso cominciano ad essere loro… la tradizione!) e le autorità (e adesso sono loro ad essere l’autorità se è vero che sono molti e gli altri un’infima minoranza), a favore dei cambiamenti e contro la staticità (ma anche reintrodurre la messa in latino è un cambiamento… o loro sono solo per i cambiamenti che piacciono a loro?) ecc. ecc. non mi quadra, anzi mi indispone.
Infine “eretica” perché – e qui ci sarebbe da approfondire – questo neo-Conciliarismo (riveduto e corretto pro domo loro) che ripropone nei fatti una dottrina come quella della superiorità dei Concili ecumenici (in questo caso del solo Vaticano II!) sull’autorità papale mi lascia perplesso visto che tale dottrina è stata ufficialmente CONDANNATA dalla Chiesa fin dal ‘500 e definitivamente superata con la definizione, nel Concilio Vaticano I, del dogma dell’infallibilità papale. Eppure proprio da Conciliaristi del terzo millennio si comportano tutti questi che sono lì a vagliare su ogni minima affermazione del Pontefice per assicurarsi che non osi anche solo sfiorare e men che meno contraddire il sacrosanto concilio. E dire quasi sono subito pronti a bacchettarlo se lo fa!
Illuminante è la frase dell’Arcivescovo di Pisa, riportata qualche giorno fa su queste pagine, che invita i parroci della sua diocesi a verificare che i rispettivi fedeli dimostrino.. “una convinta accettazione del Concilio Vaticano II”. Davvero queste parole mi sconvolgono e mi fanno pure un po’ sorridere. E di quello di Nicea o di Efeso o dei ben 5 lateranensi, eminenza, possiamo infischiarcene? E in genere del Vangelo, dei dogmi ufficiali della Chiesa ecc. ecc di tutto ciò proprio non si preoccupa? Ma allora dobbiamo essere fedeli Cattolici, credere cioè nella Chiesa Una Santa Cattolica e Apostolica Romana nel suo complesso (complesso in cui, fra tutte e altre cose e in 2000 anni di storia, trovano posto anche altri 19 concili) o solo nel Concilio Vaticano II?
Insomma, come dice giustamente Raffaella, è ora di smetterla con questi fanatismi: il Concilio Vaticano II ha valore, come i precedenti 19, perché voluto da un Papa, ma il suo valore non trascende l’autorità papale né tanto meno quello della Chiesa e della Fede Cristiana nel suo complesso dato che ne è solo mero strumento; pertanto non solo può essere interpretato, modificato, riportato nelle sue giuste proporzioni… da qualsiasi pontefice (quindi figuriamoci da un Papa eccezionale come Benedetto XVI) ma, e qui i vari “bianchi” non sbianchino… pure superato da uno o da altri 20 più nuovi e adeguati concili ecumenici.
Un saluto.

Anonimo ha detto...

Cio' che disturba e' che i mezzi di comunicazione siano "offerti" sempre e comunque alle stesse voci e penne. Perche' non chiedere il parere anche alle infime minoranze che, come tali, dovrebbero essere tutelate? E non parlo di chi e' scismatico, ma, semplicemente,di chi non la pensa come questo o l'altro intellettuale che pretende, lui si', di avere la verita' in tasca e di essere l'unico, vero, interprete dello spirito del Concilio. Piu' leggo certe posizioni (vedrete oggi con l'incredibile e quasi "disperato" articolo di Politi) e piu' mi convinco che i veri integralisti sono coloro che utilizzano un giorno si' e l'altro pure il termine, appunto, integralismo per stigmatizzare le opinioni altrui.