23 luglio 2007

Lettera del Papa alla Cina: l'opinione di Introvigne e Magister


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Quei timidi segnali di disgelo fra Pechino e il Vaticano

di Massimo Introvigne

Dopo la «Lettera ai cattolici cinesi» di Benedetto XVI, da Pechino è giunto un segnale difficile da decifrare. Il tema principale della lettera del Papa era il superamento dello scisma della Chiesa Patriottica, una Chiesa che da cinquant’anni è controllata dal regime e separata dalla Santa Sede. Benedetto XVI aveva offerto al regime cinese l’apertura di un dialogo su questioni delicate come il mandato dei vescovi clandestini fedeli a Roma e i rapporti fra il Vaticano e Taiwan, ma aveva anche ribadito che il principio per cui solo la Santa Sede può conferire ai vescovi il mandato non ammette deroghe, e che anche nella Cina che ha il record degli aborti e regola per legge il numero dei figli la Chiesa non rinuncerà a predicare sulla vita e sulla famiglia.

La lettera del Papa rilevava anche che una riconciliazione fra le due Chiese, Patriottica e clandestina, era di fatto già iniziata, e che la «grande maggioranza» dei vescovi «patriottici» nominati dal regime si era più o meno segretamente riconciliata con Roma facendosi riconsacrare da vescovi in comunione con il Papa. Una recente visita in Cina ha confermato a chi scrive che il clero e i cattolici cinesi, anche «patriottici», hanno accolto il messaggio pontificio con speranza ed entusiasmo.

Il 20 aprile di quest’anno è morto il vescovo «patriottico» di Pechino Michael Fu Tieshan, uno dei pochi irriducibili leali non solo al Partito ma anche all’eredità di Mao, ostile a ogni ipotesi di riconciliazione con Roma. Nella Chiesa Patriottica i vescovi sono eletti da rappresentanti del clero, delle suore e dei laici, ma la loro elezione deve essere confermata dal Collegio dei Vescovi Cattolici della Cina (che il Papa nella sua lettera ha denunciato come un simulacro di conferenza episcopale controllato dallo Stato). La Chiesa Patriottica ha atteso l’annunciata lettera del Papa prima di riunire, il 16 luglio, i 93 delegati che hanno eletto il nuovo vescovo di Pechino, la cui nomina deve essere ora confermata dal Collegio dei Vescovi, cioè - in pratica - dal governo. È stato eletto Joseph Li Shan, quarantenne parroco della chiesa di San Giuseppe, chiamata Dongtang, dove vanno a Messa i cattolici «patriottici» ricchi del centro della capitale. Qualche agenzia occidentale ha parlato di un candidato concordato con la Santa Sede, che non ha confermato. I vescovi australiani, di solito bene informati sulla Cina, invitano alla prudenza, e fanno notare che il neo-eletto vescovo è anche consigliere comunale di Pechino, una carica di solito riservata ai fedelissimi del partito. Ma è anche vero che i suoi fedeli descrivono Li Shan come un moderato lontano dagli estremismi dottrinali del defunto vescovo e piuttosto scettico sull’ideologia marxista.

Il segnale che Pechino manda a Roma è dunque ambiguo. La sua decifrazione potrà avvenire solo nei prossimi mesi, quando apertamente o discretamente Li Shan con ogni probabilità chiederà di farsi consacrare anche da vescovi fedeli alla Santa Sede. È troppo presto per dire che la nomina di Li Shan è un segnale positivo che il regime manda a Benedetto XVI. Ma è certo che un delicato dialogo continua.

© Copyright Il Giornale, 23 luglio 2007


Il papa scrive, le autorità di Pechino non rispondono

Cautela e riserbo dopo la lettera di Benedetto XVI alla Chiesa di Cina. Due linee politiche si confrontano. Ma anche tra i cattolici c'è polemica. Il cardinale Zen accusa il sinologo Heyndrickx di travisare il pensiero del pontefice

di Sandro Magister

ROMA, 23 luglio 2007 – La lettera di Benedetto XVI ai cattolici della Cina era stata data in visione alle autorità di Pechino già dieci giorni prima della sua pubblicazione, alla fine di giugno.

Ma "di reazioni ufficiali per ora non ve ne sono", ha detto il 18 luglio il segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone. Solo un laconico comunicato del ministero degli esteri cinese poche ore dopo la pubblicazione della lettera, con la rituale riproposta al Vaticano delle due pre-condizioni di sempre: la non ingerenza negli affari interni e la rottura dei rapporti diplomartici con Taiwan.

Il riserbo delle autorità cinesi è giudicato in Vaticano "un fatto positivo". Si suppone che vi sia una differenza di vedute, in Cina, tra le massime autorità politiche – che puntano a una maggiore "armonia" con la Chiesa – e l'apparato del partito comunista, più ostile. Il 28 e 29 giugno, alla vigilia della pubblicazione della lettera papale, il Fronte Unito – un organismo che opera all'ombra del partito comunista per l'attuazione della politica religiosa – aveva radunato a Huairou, vicino a Pechino, un buon numero di vescovi ufficialmente riconosciuti dal regime, per inculcare in essi per l'ennesima volta la dottrina che la Chiesa cinese deve essere nazionale e indipendente da Roma.

Questa differenza di vedute si manifesta in particolare nella nomina dei vescovi della Chiesa ufficiale, quella riconosciuta dal governo.

Il 5 luglio il quotidiano di Hong Kong "Wen Wei Po", vicino al partito comunista, ha scritto che nuovi vescovi ufficiali saranno insediati nei prossimi mesi, senza e contro l'approvazione di Roma, nelle diocesi di Guangzhou, Guizhou, Hubei e Ningxia.

Intanto, però, il primo nuovo vescovo eletto in Cina secondo le procedure ufficiali, dopo la pubblicazione della lettera del papa, è quello di Pechino. E la persona prescelta è tale che in Vaticano la notizia della nomina è stata presa non come un affronto, ma con sollievo.

Il nuovo vescovo designato è Giuseppe Li Shan, 43 anni, pechinese, di famiglia molto cattolica, benvoluto dai fedeli che l'hanno avuto come parroco nel quartiere commerciale di Wangfujin: tutto l'opposto del suo predecessore Michele Fu Tie-shan, organico al regime comunista e mai riconciliato col papa. Il cardinale Bertone ha definito il nuovo eletto "una persona molto buona e idonea". E ha aggiunto: "L'elezione è avvenuta secondo i canoni della Chiesa ufficiale e adesso aspettiamo che l'eletto chieda l'approvazione della Santa Sede. Siamo ottimisti".

Le procedure ufficiali stabilite dalle autorità comuniste, in Cina, prescrivono che ogni nuovo vescovo sia designato non da Roma ma da un'assemblea ufficiale di sacerdoti, suore e laici del luogo, e successivamente confermato dal consiglio dei vescovi cinesi riconosciuti dal regime. Dopo di che avviene la sacra ordinazione. A giudizio della Santa Sede tale ordinazione è sacramentalmente valida, ma illecita. Per sanare l'illecito e rientrare in comunione con la Chiesa il nuovo vescovo deve chiedere e ottenere l'approvazione del papa. Di fatto, quasi tutti i vescovi ufficiali oggi presenti in Cina l'hanno ottenuta, più o meno esplicitamente.

La lettera scritta da Benedetto XVI ai cattolici della Cina detta appunto le condizioni per ricondurre all'unità – nella fedeltà di tutti a Roma e in accordo con le autorità dello stato – i cattolici di questo paese, sanando la frattura tra la Chiesa ufficiale e quella clandestina.

Le prime reazioni in campo cattolico sembrano andare in questa direzione. Ad esempio, il vescovo clandestino di Qiqihar, Giuseppe Wei Jingyi, ha fatto leggere in tutte le messe una sua lettera pastorale applicativa delle indicazioni del papa. In essa ha detto di volersi riconciliare con alcuni sacerdoti della diocesi che gli avevano rifiutato obbedienza poiché lo ritenevano troppo cedevole al regime comunista. E ha invitato tutti a partecipare ai sacramenti amministrati dai vescovi e dai sacerdoti ufficiali, purché in comunione con Roma.

Non mancano però dissensi e polemiche, tra i cattolici, non solo sull'interpretazione da dare alla lettera di Benedetto XVI ma anche sulla correttezza della traduzione in lingua cinese diffusa dal Vaticano.

Il cardinale Giuseppe Zen Ze-kiun, vescovo di Hong Kong, ha puntato il dito su due discrepanze che egli giudica gravi.

La prima, alla fine del capitolo 7 della lettera, è là dove il papa scrive che "nella procedura di riconoscimento [da parte delle autorità civili] intervengono organismi che obbligano le persone coinvolte ad assumere atteggiamenti, a porre gesti e a prendere impegni che sono contrari ai dettami della loro coscienza di cattolici".

Ciò avviene – si legge – "in non pochi casi concreti". Ma la versione cinese omette di tradurre queste successive parole del papa: "se non quasi sempre".

Una seconda discrepanza il cardinale Zen la rileva nella nota esplicativa anonima che la Santa Sede ha diffuso assieme alla lettera del papa.

Mentre la lettera papale, al capitolo 8, si limita a descrivere in modo neutrale il comportamento di alcuni vescovi che "sotto la spinta di circostanze particolari hanno acconsentito a ricevere l'ordinazione episcopale senza il mandato pontificio", la nota esplicativa dice di più: aggiunge che questi vescovi hanno fatto ciò "solleciti soprattutto del bene dei fedeli e guardando al futuro".

Zen lamenta che la nota, tributando questa lode ai vescovi che accettano l'ordinazione illecita, "mette in cattiva luce gli altri che rifiutano di cedere, come se a loro non importassero il bene dei fedeli e le sorti future della Chiesa". E aggiunge: "A nome di questi ultimi è mio dovere elevare viva protesta".

Come tribuna per questa sua denuncia, il 3 luglio, il cardinale Zen ha scelto l'UCA News, la più importante agenzia cattolica dell'Asia dell'Est.

E altrettanto ha fatto, il 18 luglio, per replicare a un commento della lettera papale scritto alcuni giorni prima per la stessa UCA News da uno dei più rinomati sinologi cattolici: padre Jeroom Heyndrickx, fiammingo, direttore del Ferdinand Verbiest Institute dell'Università Cattolica di Lovanio.

Padre Heyndrickx aveva sostenuto che la lettera papale incoraggia gli appartenenti alla Chiesa clandestina a uscire allo scoperto, a chiedere e ottenere il riconoscimento delle autorità civili e a condividere i sacramenti con i vescovi e i preti della Chiesa ufficiale.

Il cardinale Zen replica che tutto questo non c'è nella lettera di Benedetto XVI; che i sacramenti possono essere condivisi solo con i vescovi e i preti della Chiesa ufficiale in comunione col papa ma non con quelli in rotta con Roma; che la Chiesa clandestina continua ad avere una ragion d'essere almeno fino a quando le autorità comuniste pretendono di controllare e soggiogare la Chiesa; e che i vescovi clandestini non hanno alcun motivo di chiedere il riconoscimento ufficiale se ciò comporta – come avviene "quasi sempre" – assumere obblighi "contrari ai dettami della loro coscienza di cattolici".

"È stupefacente – scrive il cardinale Zen – che, intelligente e informato com'è, padre Heyndrickx arrivi a travisare a tal punto la lettera del papa ai cattolici della Cina".

Il cardinale avanza un sospetto: che i frequenti viaggi di studio di padre Heyndrickx in Cina "comportino degli obblighi" e che "ogni sua iniziativa abbia bisogno dell'approvazione di Liu Bainian, il capo dell'Associazione Patriottica dei cattolici cinesi, e debba essere svolta alle condizioni imposte da lui".

Un sospetto micidiale. Perché Liu Bainian è ritenuto dalla gran parte dei cattolici cinesi, anche appartenenti alla Chiesa ufficiale, il loro peggiore nemico, colui che più impersona la politica di asservimento della Chiesa al regime.

Da Lovanio, padre Heyndrickx ha reagito alle accuse del cardinale Zen con una nota uscita su UCA News il 20 luglio.

Egli ribadisce che la finalità principale della lettera di Benedetto XVI è di incoraggiare le due comunità cattoliche cinesi, l'ufficiale e la clandestina, a pregare e a celebrare l'eucaristia insieme.

Sostiene che la sua interpretazione della lettera papale è condivisa da numerosi esponenti della Chiesa cinese: e porta come esempio la lettera pastorale del vescovo Wei Jingyi.

Rivendica di obbedire solo alla Chiesa e al papa, non ai dirigenti cinesi con i quali si sforza di dialogare.

Poiché "il dialogo non è sinonimo di debolezza, ma è lo spirito della lettera del papa che noi tutti dobbiamo seguire. [...] Un dialogo aperto tra una Chiesa cinese unita e un governo cinese unito risolveranno più problemi di uno scontro tra una Chiesa divisa e un governo diviso".

www.chiesa

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