30 luglio 2007
Messa tridentina: riflessioni sui lati positivi del rito in latino di S. Pio V
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Riflessioni sui lati positivi del rito in latino di S. Pio V
Il vecchio messale dispiace? È quello del Papa buono...
Fu promulgato nel 1570 dopo il concilio di Trento. Infatti viene chiamato “tridentino”
Quel libro fece scuola al beato Papa Roncalli che lo ha rieditato nel 1962 per l’ultima volta
Il prete potrà dare le spalle ai fedeli girandosi verso l’altare maggiore (est): l’alba è un simbolo di Cristo
Riflettendo, in questi giorni, sulle varie reazioni che il documento del Papa a proposito della possibilità di celebrare la messa secondo le modalità vigenti prima della riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II sta suscitando, pensavo a come sia, alle volte, veramente curiosa la storia e al fatto che, comunque, essa è davvero “maestra di vita”. Il vecchio messale, ora “liberalizzato”, anche se non sappiamo ancora quale potrà esserne l’uso effettivo che se ne farà nelle nostre Chiese, è comunemente denominato “tridentino”, o “di san Pio V”. Infatti fu il domenicano Michele Ghisleri a promulgarlo nel 1570, in seguito alle indicazioni generali offerte dal Concilio svoltosi nella città di Trento fra il 1545 e il 1563.
Con alcuni lievi ritocchi durante i pontificati di Clemente VIII (1592-1605), di Urbano VIII (1623-1644), di san Pio X (1903-1914), di Benedetto XV (1914-1922), di Pio XII (1939-1958), tale libro liturgico conosce la sua ultima edizione nel 1962: è l’anno in cui inizia il Concilio Vaticano II, siamo durante il pontificato del beato Giovanni XXIII!
Esso si riallaccia all’ordine celebrativo che possiamo far risalire al tempo di san Gregorio Magno (il cui nome resta legato anche al canto proprio della Chiesa latina, il canto detto appunto “gregoriano”): e dunque siamo fra il VI e il VII secolo.
Ho voluto citare espressamente tutti i Sommi Pontefici che, nel tempo precedente al Concilio Vaticano II, lo stesso Benedetto XVI indica fra coloro che “fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura che la Chiesa di Cristo offrisse alla Divina Maestà un culto degno”.
Dunque, se il Messale “di san Pio V” o “tridentino” piace poco a qualche libero pensatore, chiamandolo “di papa Giovanni XXIII” le cose potrebbero andare un pochino meglio e ci potremmo mettere tutti a discuterne con più serenità.
San Pio V è il papa della battaglia di Lepanto e quindi non può essere simpatico a chi aborrisce, giustamente, la violenza, l’uso delle armi; a chi predica il dialogo e l’integrazione fra i popoli, le culture e le civiltà. E come non essere d’accordo?
Ma nel 1571 si ragionava diversamente e non possiamo fargliene noi, adesso, una colpa. Il Concilio di Trento, poi, voluto anche per reagire all’ondata protestante, oltre che reimpostare la vita cattolica secondo i parametri della più rigida disciplina ecclesiale, non gode di buona fama ed è spesso il simbolo di una cristianità che, si dice, non esiste più e non ha più senso nemmeno invocare o tentare di ricostruire. Insomma, con tutti questi precedenti, parlare di un ritorno del “messale di Pio V..., messale tridentino”, sembra stridere non poco con chi, invece, continua a parlare della “nuova stagione conciliare” (quella del Vaticano II) e di una liturgia che è finalmente uscita dalle ristrettezze del rubricismo e si presenta non più “ingessata” o “mummificata” come nel passato.
Sono discorsi che sentiamo spesso, anche in certe nostre assemblee pastorali.
E ha il suo bel daffare, il nostro amato papa Benedetto, a spiegare che nella Santa Chiesa c’è continuità e che il nuovo non abroga ciò che è venuto prima, soprattutto quando esso ha costituito, come il Messale antico, fonte di santità per molti di quanti ci hanno preceduto nella professione dell’unica fede, uguale nei secoli. È, dicono i teologi, la “lex credendi” che si manifesta nella “lex orandi”, cioè la Liturgia con le sue regole e il suo stile, che magari offre sottolineature diverse a seconda delle epoche e delle culture, ma che comunque esprime sempre il solo e unico mistero cristiano.
Ritornando ora al nome del Messale che, partendo dal 14 settembre, sarà lecito usare senza più il complesso derivante dall’etichetta “tradizionalista”, si diceva che potremmo chiamarlo “Messale di papa Giovanni” e così il testo fa un po’ meno paura.
Papa Roncalli è infatti cresciuto alla scuola di quel Messale, l’ha usato nella sua lunga vita sacerdotale, l’ha rieditato per l’ultima volta nel 1962. E vi ha apportato quelle che a noi, abituati adesso ad una creatività senza limiti, quasi obbligatoria - scrive Benedetto XVI accompagnando con una lettera ai Vescovi il moto proprio - al punto da giungere a “deformazioni della liturgia al limite del sopportabile”.
Con la semplicità che lo contraddistingueva, papa Giovanni ha eliminato quel “perfidi giudei” del venerdì santo, che tanti temevano di riudire con la decisione di papa Ratzinger e ha aggiunto, cosa impensabile fino a quel momento, il nome di san Giuseppe, cui era tanto devoto, alla lunga lista dei Santi dell’allora unica Preghiera Eucaristica del Messale, cioè il Canone Romano.
Un nome può fare la differenza, dunque.
E così il Messale del papa buono potrà ritornare sui nostri altari, non certo in concorrenza a quello di un altro grande papa, Paolo VI, ma come possibilità in più per tutti. Non un contrassegno di scismatici e nostalgici, ma richiamo ad un’unica grande tradizione liturgica, sia pure espressa in forma ordinaria (i riti che conosciamo e celebriamo correntemente) oppure straordinaria (quelli caduti in disuso e tuttavia mai dichiarati abrogati o estinti).
Una possibilità che non mancherà d’interpellare e stimolare teologi, liturgisti, pastoralisti, a proposito di alcune questioni sempre attuali. Accenno solamente ad una: la posizione del sacerdote celebrante e quindi la collocazione dell’altare all’interno dei sacri edifici. Dovrebbe a tutti esser noto, infatti, che la differenza tra la “vecchia” e la “nuova” messa non consiste solo nella lingua (il latino o le varie lingue correnti dei popoli e delle nazioni), ma anche nell’insieme dei testi usati, dei riti, dei gesti, delle posizioni del corpo ecc…
Mi ricordo, in questo momento, di un curioso episodio, che io ho sentito narrare, e che sarebbe accaduto nel nostro seminario in occasione dell’entrata in vigore delle riforma liturgica: il rettore mons. Sartori, che era stato perito al Concilio Vaticano II (e che poi, ironia della sorte, si ritrovò arcivescovo nella città che ospitò il Concilio Tridentino), aveva segnato, sul registro delle messe, come memorabile il giorno dell’introduzione del nuovo rito.
Di lì a pochi giorni un’altra mano, quella di mons. Ernesto Dalla Libera, grande maestro di musica sacra e liturgica nella nostra Diocesi, che era andato a celebrare nella medesima cappella, vergava a fianco, riferendosi alla posizione del sacerdote, “aversio a Deo, et conversio ad creaturas!”: si tratta, nientemeno, che la definizione agostiniana del peccato (voltare le spalle a Dio e volgersi alle creature, al mondo...).
Si narra, ancora, che il futuro arcivescovo abbia poi nervosamente cancellato con un po’ di ghiribizzi sopra, quell’inaudita stoccata alla riforma liturgica! Ciò che più balza agli occhi è dunque il fatto che, nel rito straordinario, il sacerdote “volge le spalle” alla gente, e quindi si “isola” in una sua intimità devozionale poco consona allo spirito comunitario, dialogico, partecipativo cui siamo ormai abituati e che ci viene alle volte anche ossessivamente propinato.
Qualcuno però dovrebbe spiegare ai nostri fedeli il perché di tale posizione che non ha nulla di offensivo o di degradante, per loro (le persone in chiesa, del resto, generalmente si volgono le spalle le une alle altre... e allora come la mettiamo?).
Senza andar troppo per le lunghe, con il rischio di tediare quei lettori che hanno la bontà di seguirmi in queste mie riflessioni, ricorderò solo che il sacerdote volgeva (e volgerà ancora quando si potrà riutilizzare tranquillamente l’antico rito) le spalle, perché anch’egli guardava ad oriente, nella direzione cioè in cui erano spesso costruite le nostre chiese.
È il punto cardinale del sorgere del sole, simbolo del Signore che viene ad illuminare e a salvare il suo popolo. Tutti quindi, anche il prete, “rivolti al Signore” (è questo il titolo di un volume di padre Lang, un religioso inglese, che ha fatto molto discutere, anche per le proposte di fatto avanzate, e la cui prefazione è stata scritta dall’allora card. Ratzinger).
Si aggiunga poi il fatto che tale posizione del sacerdote mette più in risalto l’aspetto sacrificale della Messa, oggi, almeno tendenzialmente trascurato in favore della altrettanto importante (ma non esclusiva!) dimensione conviviale.
Non sono, questi, discorsi da “tradizionalisti”: mi risulta, infatti, che anni fa circolavano delle idee, provenienti se non erro dalla Comunità ecumenica di Bose, in favore di una parziale recupero della posizione verso oriente, almeno durante le preghiere presidenziali (quelle che il sacerdote pronuncia da solo) della Messa.
Penso che anche la risistemazione degli antichi presbiterii potrebbe trarre qualche giovamento dalla celebrazione “straordinaria” della Messa.
Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che alcune soluzioni sono state, e sono, del tutto infelici e che si sarebbe potuto evitare questo inconveniente proprio accettando di non scartare a priori la possibilità di continuare ad usare i vecchi, in qualche caso bellissimi, altari maggiori. Per essere più chiari: perché, pur celebrando con il nuovo rito e il messale ordinario (di Paolo VI), non si possono usare quegli altari?
Che difficoltà ci sarebbe da parte dei sacerdoti, a “voltare le spalle” ai fedeli per rivolgersi a Dio, in alcuni momenti della celebrazione, stando quindi posizionati sull’antico altare?
Si potrebbe benissimo, nelle chiese costruite in passato, ritornare a quest’uso: senza rimettere, per ciò stesso, in discussione la validità della riforma liturgica del Vaticano II.
La Liturgia della Parola, e altri momenti, “coram populo”; la Liturgia Eucaristica e le orazioni presidenziali, “coram Deo”.
Questo potrebbe essere un esempio di “convivenza” delle due forme dell’unico rito romano, secondo lo spirito, mi sembra auspicato da Benedetto XVI. Com’è triste, a me capita spesso, e anche difficoltoso celebrare sopra tavolini dove a malapena c’è posto per il messale, il calice, le ampolline, avendo alle spalle dignitosissimi, belli, e anche assai più comodi altari in pietra: rifiutati e spogliati semplicemente perché, si ritiene, e secondo me sbagliando, che siano incompatibili con la Liturgia ordinaria. Sto parlando, evidentemente, della antiche chiese dove spesso non sono proprio possibili soluzioni ottimali e nelle quali, giustamente, non si possono rimuovere i manufatti ricchi di secoli e di bellezza.
Diverso il discorso concernente le nuove chiese. Naturalmente, dico adesso concludendo, il discorso non riguarda neanche la nostra Chiesa Cattedrale: già, perché non vorrei proprio che qualcuno, a proposito delle tante chiacchiere su cattedra episcopale, ambone e altare, stesse pensando a una mia riproposizione ‘sic et simpliciter’ del meraviglioso altare di Aurelio dall’Acqua...
Don Pierangelo Rigon
© Copyright Giornale di Vicenza, 30 luglio 2007
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