20 ottobre 2007
Il Papa ed il Concilio: un'intervista del Santo Padre a Johannes Nebel (novembre 2006)
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IL LIBRO
Il Papa: il Concilio, poi una Chiesa confusa
di JOHANNES NEBEL
Dopo il Concilio ecumenico Vaticano II, la situazione della Chiesa «era estremamente confusa e irrequieta e la stessa posizione dottrinale non era più sempre chiara». Lo dice Benedetto XVI in un'intervista che apre il libro Il mondo della fede cattolica. Verità e forma del cardinale Leo Scheffczyk, scomparso nel 2005. «Io stesso — dice ancora papa Ratzinger — ero in quel contesto quasi troppo timoroso rispetto a quanto avrei dovuto osare».
ANTEPRIMA Benedetto XVI rievoca la figura del cardinale Leo Scheffczyk e il clima irrequieto degli anni Sessanta
Ratzinger: dopo il Concilio fui troppo timoroso
«Cresceva la confusione nella Chiesa, era a rischio la vitalità della fede. Dovevo osare di più»
di JOHANNES NEBEL
Santo Padre, ha qualche ricordo di Leo Scheffczyk relativo al suo periodo di seminario nella città di Frisinga?
«Certamente. Io sono arrivato nel seminario di Frisinga il 3 gennaio del 1946 e anche Leo Scheffczyk si trovava lì come profugo di guerra. Riesco ancora a vederlo, in modo molto chiaro, davanti a me come un uomo silenzioso e, per così dire, molto sensibile. Naturalmente, c'era una grande distanza tra i nostri corsi; mentre noi eravamo all'inizio, lui stava terminando i suoi studi teologici — aveva, infatti, già studiato a Breslavia la parte più cospicua della teologia — sicché i contatti personali tra noi non furono molti. Nonostante la sua riservatezza — forse dovrei dire: nonostante la sua timidezza — e la sua grande umiltà, egli era, però, noto a noi tutti. Nel dicembre del 1946 lui e suoi compagni di corso sono stati consacrati diaconi e come diaconi hanno dovuto predicare nel Duomo. Per tale ragione, attraverso l'ascolto, l'intero corso che quell'anno veniva consacrato ci è entrato, per così dire, negli occhi e nel cuore». (...)
Lei ha incontrato Scheffczyk ripetutamente nella sua attività di professore, di arcivescovo di Monaco e di Frisinga e come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Si ricorda qualcosa di questi incontri?
«Dopo la sua ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1947, Leo Scheffczyk è diventato cappellano a Grafing e a Traunwalchen, in un luogo molto vicino alla nostra terra natia; ma in quell'epoca viaggiavamo davvero poco. Sapevo soltanto che lui era impegnato in quella regione, senza che ci incontrassimo ancora. Ben presto lui fu dispensato in vista dello studio, conseguendo il dottorato sotto la guida del suo maestro di Breslavia, Franz Xaver Seppelt, del quale io stesso avevo avuto l'occasione di sentire le lezioni di Storia della Chiesa. In seguito, lui è passato alla Teologia dogmatica; non molto tempo dopo siamo venuti a sapere che insegnava questa disciplina a Königstein. Poi siamo diventati entrambi professori — credo pressoché contemporaneamente —: lui a Tubinga e io a Bonn, sicché, a partire da quel momento, abbiamo cominciato a seguire reciprocamente le pubblicazioni l'uno dell'altro. A quel tempo lui scriveva saggi di Medievistica che io ho letto, in modo particolare una sua pubblicazione dedicata a Giovanni Scoto Eriugena. Già in quella lettura ho avuto modo di rendermi conto della sua straordinaria cultura. Ho trovato, inoltre, particolarmente significativa un'altra importante pubblicazione, vale a dire il fascicolo sulla "creazione" da lui curato all'interno del Manuale di storia dei dogmi, in cui era evidente una notevole erudizione sul piano della conoscenza della storia dogmatica e teologica. Ben presto ho poi potuto accorgermi della sua capacità di prendere posizione anche rispetto ai temi attuali: a partire dalla tematica della creazione, per esempio, ci si trovava davanti a una discussione delle tesi di Teilhard de Chardin. La sua teologia è sempre stata pervasa da una notevole ricchezza di conoscenze e di spiritualità. Concretamente, ci siamo incontrati di nuovo soltanto quando, dopo il Concilio, è stata istituita la Commissione dottrinale della Conferenza episcopale tedesca, alla quale abbiamo partecipato entrambi come teologi.
A quel tempo la situazione era estremamente confusa e irrequieta e la stessa posizione dottrinale della Chiesa non era più sempre chiara. Venivano fatte circolare delle tesi che si presumeva fossero diventate improvvisamente possibili, nonostante non coincidessero, in realtà, con il dogma.
In questo contesto, le discussioni all'interno della Commissione dottrinale erano piene di pretese ed estremamente difficili. Ed è stato qui che ho potuto accorgermi di come Leo Scheffczyk — quest'uomo così silenzioso e piuttosto timido — fosse sempre il primo a prendere posizione in modo chiaro.
«Io stesso ero, in quel contesto, quasi troppo timoroso rispetto a quanto avrei dovuto osare per andare, in modo così diretto, "al punto". Lui, invece, diceva subito con grande chiarezza e, nello stesso tempo, con puntuale giustificazione teologica quello che andava e quello che non andava. Leo Scheffczyk era, così, il vero "rompi ghiaccio" di queste discussioni. Se fino a quel momento entrambi sapevamo solamente l'uno dell'altro, conoscendoci "da lontano", da allora in poi siamo diventati, invece, più intimi. Ci siamo resi conto del fatto che stavamo combattendo insieme per la vitalità della fede nella nostra epoca, per la sua espressione e comprensibilità da parte degli uomini di questo tempo, nella fedeltà di fondo alla sua profonda identità. Per tutte queste ragioni, il nostro comune lavoro nella Commissione dottrinale della Conferenza episcopale tedesca è il ricordo personale più forte che ho di Leo Scheffczyk, un ricordo che, nello stesso tempo, è veramente ricolmo di gratitudine per la profondità del suo pensiero, per la sua cultura, così come per il suo coraggio e la sua chiarezza.
«In seguito, siamo stati invitati entrambi — era il 1975 —, con un gruppo piuttosto numeroso dell'Accademia cattolica di Monaco, a un pellegrinaggio in Terra Santa. E così abbiamo avuto modo di trovarci ancora una volta insieme. In quell'occasione, ovviamente, non si trattava di prendere parte alla discussione teologica; piuttosto, ognuno era invitato a tenere un'omelia. Durante i viaggi in pullman Leo Scheffczyk e io ci siamo seduti spesso l'uno affianco all'altro, potendo, così, vedere confermata e approfondita la nostra "fraternità" teologica, se così si può dire.
«Quando ero arcivescovo di Monaco e di Frisinga, Leo Scheffczyk era per me una garanzia del fatto che — quale cattedratico di Dogmatica a Monaco — tale disciplina fosse insegnata in modo retto nella mia diocesi. Di tanto in tanto, ci vedevamo in occasione degli incontri che avvenivano con la facoltà teologica nel suo complesso, nel corso dei quali, però, non abbiamo mai avuto modo di avere colloqui particolarmente approfonditi.
«Devo aggiungere anche che Leo Scheffczyk era in un certo senso il pilastro dell'associazione di sacerdoti di Linz: la pietra angolare a cui guardare in una situazione teologica particolarmente confusa. Egli partecipava ogni anno all'Accademia teologica estiva arricchendone gli incontri con le sue relazioni: in questo senso Leo Scheffczyk ha fatto molto anche per l'Austria.
«Durante la mia attività di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede abbiamo richiesto spesso a Scheffczyk l'elaborazione di un Votum. Eravamo, infatti, consapevoli del fatto che, nel momento in cui gli si chiedeva qualcosa, egli non solo avrebbe effettivamente svolto il lavoro, ma lo avrebbe anche fatto bene. Questo è stato il frutto di una comunanza di cammino di molti anni e così Leo Scheffczyk è stato per me un grande aiuto.
«Infine, il Santo Padre mi chiese se in Germania ci fosse un teologo, d'età superiore agli ottant'anni, che fosse degno di essere creato cardinale. Già diverse volte avevo parlato con Papa Giovanni Paolo II di Scheffczyk, e anche lui lo conosceva personalmente. È stato Giovanni Paolo II a dirmi che il nome "Scheffczyk" è un nome polacco che significa "piccolo calzolaio". Noi tutti sappiamo come sia stato un bene che Scheffczyk sia stato creato cardinale. Ed è in questo periodo che ci siamo davvero rincontrati».
Che significato ha il cardinalato di Leo Scheffczyk?
«Penso che il suo significato sia stato quello di aver reso maggiormente pubblica la sua teologia, che è stata, così, anche considerata dalla Chiesa, dal Papa e dal Magistero veramente cattolica e contemporanea. Infatti, i libri scritti da Scheffczyk avevano certamente trovato diffusione, ma in un ambito relativamente ristretto. Solo attraverso il cardinalato la sua teologia è divenuta realmente "pubblica" in Germania a livello ecclesiale e ha potuto guadagnare, in questo modo, un ruolo all'interno dei grandi confronti con il peso che si deve riconoscere a un membro del "Sacrum Collegium". E, in tal senso, il cardinale Scheffczyk si è sempre mosso con grande stile nella sua posizione pubblica, rendendo nuovamente feconda la forza complessiva della sua cultura e della sua profondità spirituale, così come quella sua chiarezza di giudizio che nasceva dalla fede. È stato molto importante che Leo Scheffczyk sia diventato una "figura pubblica della Chiesa", perché con ciò ha avuto parte, con un notevole peso, alle grandi dispute del tempo presente, non potendo più essere ignorato o messo in disparte da un professore qualsiasi».
© Copyright Corriere della sera, 20 ottobre 2007
Il libro
L'intervista con il Papa pubblicata in questa pagina apre il libro «Il mondo della fede cattolica. Verità e Forma» (Vita e Pensiero, pp. 379, € 25), una delle opere principali del cardinale Leo Scheffczyk (foto), scomparso nel 2005
Il volume, in libreria dal 23 ottobre, sarà presentato l'8 novembre a Milano, presso l'Aula Gemelli dell'Università Cattolica (ore 17.30)
Al dibattito, che sarà aperto da un saluto del rettore dell'ateneo, Lorenzo Ornaghi, partecipano il cardinale Camillo Ruini, il professor Massimo Marassi e monsignor Philip Boyce.
© Copyright Corriere della sera, 20 ottobre 2007
IL COMMENTO
IL FUTURO DEL CATTOLICESIMO
Una scelta per il rinnovamento senza rotture
Gian Guido Vecchi
Certo, poteva andare peggio. Nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005, a quarant'anni dalla fine del Concilio Vaticano II, Benedetto XVI ricordava «il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l'uno contro l'altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti», ovvero il ritrattino che San Basilio aveva dedicato alla situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea (325), «una battaglia navale nel buio della tempesta». Ora, spiegava il Papa, non è che dopo il Vaticano II la Chiesa fosse messa così male. Però, insomma, «qualcosa di quanto avvenuto vi si riflette». Il clima è quello «degli anni intorno al 1968», che adesso Benedetto XVI racconta in chiave personale nell'intervista inedita che apre «Il mondo della fede cattolica» del grande teologo e cardinale Leo Scheffczyk, scomparso nel 2005.
Un'intervista che il Papa ha concesso nel 2006 a padre Johannes Nebel, curatore del libro pubblicato da Vita e Pensiero, casa editrice della Cattolica. Ratzinger ricorda Scheffczyk dai tempi del seminario di Frisinga, nel dopoguerra: i due professori si sarebbero ritrovati dopo il Concilio nella Commissione dottrinale della Conferenza episcopale tedesca. Ed è qui che Benedetto XVI rievoca «la situazione estremamente confusa e irrequieta di quegli anni».
Con straordinaria freschezza e onestà intellettuale dice: «Io stesso ero, in quel contesto, quasi troppo timoroso rispetto a quanto avrei dovuto osare». A fare da «rompi ghiaccio» pensava Scheffczyk, con la sua «chiarezza»: del resto basta leggere il libro, incentrato sull'«essenza del cattolicesimo».
Ratzinger, giovane teologo progressista, aveva partecipato al Concilio, aperto da Giovanni XXIII nel 1962 e chiuso da Paolo VI nel 1965. Quale fosse il problema, Benedetto XVI lo ha spiegato nel discorso del 2005: «Due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro». E una di queste ha «creato confusione», quella che vedeva il Concilio come «discontinuità e rottura»: l'idea dei sessantottini cattolici che consideravano l'assise un nuovo inizio della Chiesa, «una Costituente». L'altra ermeneutica, «che ha portato e porta frutti», è invece quella che lo legge come «riforma», un «rinnovamento nella continuità». Con buona pace, stavolta, dei tradizionalisti.
Di qui l'affinità con Scheffczyk, che nel libro rivendica a se stesso «di non stare né a destra né a sinistra: ma semplicemente di andare avanti lungo la strada che la stessa Chiesa cattolica ha fin qui percorso».
© Copyright Corriere della sera, 20 ottobre 2007
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