31 dicembre 2007

Il teologo della Casa Pontificia, Wojciech Giertych, commenta l'enciclica "Spe salvi" (Osservatore Romano)


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Nicola Gori

"Io spero che..." o semplicemente "io spero"? È racchiusa in quel "che" la differenza tra le piccole speranze umane e la grande speranza cristiana. Con questa suggestiva chiave interpretativa il domenicano padre Wojciech Giertych, teologo della Casa Pontificia, rilegge la Spe salvi, la seconda enciclica di Benedetto XVI che ha segnato questo ultimo scorcio dell'anno. "Davanti alla sofferenza, davanti alla morte, davanti al futuro sconosciuto - spiega in un' intervista a "L'Osservatore Romano" - cadono tutte le "speranze che", le speranze umane, e rimane solamente "la speranza" fondamentale, aperta all'ineffabile mistero di Dio".

Il 2007 si chiude nel segno di questa enciclica dedicata alla speranza. Con quali parole si potrebbe definire oggi la speranza?

Come domenicano, vorrei iniziare con san Tommaso, il quale distingue quattro tipi di speranza. Il primo è l'affetto della speranza, cioè la passione, l'emozione, che anche gli animali possiedono. Per fare una cosa difficile, ardua, si deve avere una forza fisica e una dinamica affettiva per affrontare le difficoltà. San Tommaso chiama questo spes; però questo significa qui il livello corporale delle passioni, il livello delle emozioni.
Il secondo tipo è la virtù della magnanimità. Si tratta qui di una virtù morale acquisita che tramite la direzione della ragione e della volontà inserisce la forza affettiva in un'attività scelta. Questa virtù dà vigore per affrontare le difficoltà di questo mondo. In polacco, la parola speranza - nadzieja - deriva da agire; dunque la speranza è la virtù che dà la forza per agire. La magnanimità è una virtù morale che permette di affrontare le difficoltà, le realtà di questo mondo facendo le cose grandi e di valore.
Il terzo tipo di speranza è la stessa virtù della magnanimità, però infusa, dunque collegata con la vita della grazia. L'oggetto di questa virtù è la stessa realtà di questo mondo, ma vista nel contesto del rapporto personale con Dio realizzato attraverso le virtù teologali, della fede, speranza e carità.
Il quarto tipo del quale il Papa scrive nella sua enciclica, è proprio la virtù teologale della speranza. Essa ha come oggetto non le cose di questo mondo, ma Dio, il Dio vivente. Come frutto della grazia, radicato nella nostra volontà, la speranza teologale fa sì che possiamo affrontare le cose difficili ed accettare volontariamente il futuro, convinti che tutto è nelle mani di Dio. La virtù teologale della speranza collega il nostro futuro con Dio misterioso, però sempre buono e misericordioso.
Con questa distinzione di san Tommaso, si vede la differenza tra la speranza umana - spero che ci sarà lo sviluppo economico, spero che domani ci sarà il sole - e la speranza indirizzata verso Dio. La speranza teologale è una realtà diversa, simile alla speranza umana, ma non uguale. Benedetto XVI ha scritto questa enciclica soprattutto sulla speranza teologale, notando però che nei secoli della modernità la speranza umana, la speranza nel progresso, ha preso nel pensiero di molti in Europa il posto della speranza teologale.

Da cosa si differenzia la speranza cristiana da quella laica?

La differenza sta soprattutto nell'oggetto e nella provenienza di questa speranza. L'oggetto della speranza laica è solamente il progresso economico, il successo, la riuscita in politica. Nella modernità - il Papa lo dice - la speranza laica è nata dalla scoperta della mancanza della giustizia nel mondo. In fondo nel marxismo c'era la coscienza dell'ingiustizia nel mondo: dunque, occorreva avere la speranza e lottare per creare un sistema politico giusto. Poi gli stessi marxisti si sono accorti che anche questo non si poteva realizzare, che le ingiustizie rimanevano. Quindi, in questa speranza laica, che aveva la prospettiva ridotta solo a questo mondo, vi era il momento dell'orgoglio, della fiducia nelle forze solamente umane. La speranza teologale è una realtà diversa, che non nega le speranze umane, però apre una prospettiva più lontana, più profonda. La speranza teologale è un dono della grazia, dato insieme con la fede e la carità che caratterizzano la vita spirituale, la vita sacramentale iniziata con il battesimo. Questo dono della grazia è radicato nella nostra facoltà, nella nostra volontà che si apre ad una prospettiva più lontana dove c'è Dio. Questa speranza teologale ha delle conseguenze anche per questa vita, non soltanto per la vita futura, perché offre una forza duratura. La differenza tra un rivoluzionario laico e un cristiano sta in questo: il rivoluzionario laico vede che le cose non vanno nella società, che manca la giustizia, e trova la forza in se stesso per affrontare queste difficoltà, sperando di vedere i frutti del suo lavoro nella sua vita prima di morire. I rivoluzionari lottavano per la rivoluzione perché volevano vederla realizzata durante la loro vita e se non vedevano il cambiamento profondo finivano nella delusione. Un cristiano invece - che anche reagisce alle ingiustizie con la sua magnanimità e la sua carità - allo stesso tempo sa che l'ultimo risultato del suo sforzo viene da Dio, attraverso la redenzione. Quindi sa che insieme con il suo agire si deve anche pregare, e forse anche soffrire, e che il frutto finale della sua speranza si realizzerà nell'eternità, perché l'oggetto di questa speranza non sono le cose di questo mondo; l'oggetto è Dio e la sua bontà. Nello sviluppo della vita spirituale Dio stesso purifica la speranza, per assicurare che il cristiano sia veramente ancorato, radicato in Lui, perché abbia una prospettiva più sicura, più fondamentale. Per questo il simbolo della speranza cristiana è l'ancora. La speranza cristiana è dunque più solida, più sicura di quella laica.

Che ruolo ha la preghiera per alimentare la speranza?

Benedetto XVI indica tre momenti per lo sviluppo della speranza: la preghiera, l'azione e la sofferenza, la prospettiva del giudizio ultimo. Nella preghiera si entra nel rapporto personale con Dio. La preghiera è una maniera per esprimere e sviluppare la fede, la carità, la speranza. Senza la preghiera non c'è speranza teologale. Però si può aggiungere l'insegnamento di san Giovanni della Croce: la purificazione della speranza teologale avviene attraverso la purificazione della memoria. La memoria come fatto psichico è una cosa buona; è bene ricordarsi delle cose. Però l'uomo può essere troppo attaccato alla sua memoria, sia positiva, sia negativa. Per accettare il mistero che Dio ha in programma nella nostra vita è importante purificare la memoria, per non essere attaccati ad essa ed accettare le novità che Dio ha per noi. Anche i ricordi buoni si devono lasciar cadere. La purificazione dei ricordi buoni è un elemento necessario per approfondire la speranza. Vi sono anche dei ricordi cattivi, per esempio di coloro che hanno sofferto molto nel passato. Si deve lasciare questa sofferenza nelle mani di Cristo, che ha vinto il peccato e la morte, e accettare la novità della vita. La preghiera aiuta in questa purificazione della memoria, perché Dio è il Signore della storia, il Signore del passato, del presente e del futuro. Possiamo lasciare il passato nel Cuore di Cristo e accettare il futuro che ci è sconosciuto. Quindi nella speranza teologale possiamo indirizzare la nostra volontà verso questo futuro che rimane sempre misterioso ed è un dono di Dio. Un approfondimento di questo atteggiamento della virtù della speranza attraverso la preghiera dà la forza per accettare il futuro e per andare avanti nella vita. Questo è fondamentale non soltanto per gli individui, ma anche per la società, per le Chiese locali, per le nazioni. Occorre purificare la memoria storica per non esser attaccati troppo alla sofferenza o alla gloria del passato e per vivere il presente, sperando il futuro che Dio ha preparato per noi, piuttosto che il futuro che vogliamo imporre a Dio.

Il Papa nell'enciclica cita i due grandi temi della "ragione" e della "libertà". Qual è il loro rapporto con la speranza?

La modernità ha ripreso l'antica tentazione che vi era nella Bibbia - basti ricordare la torre di Babele - di creare un impero, una città che risolvesse tutti i bisogni dell'uomo: cioè, una speranza nel progresso scientifico ed economico, che deve creare un mondo migliore dove saremo felici. Sembrava una prospettiva ragionevole, che dava anche la libertà.
L'illuminismo e la rivoluzione francese hanno messo al centro la ragione contro la fede, intesa come una superstizione, e la libertà contro la religione. Per elevare la ragione sembrava che fosse necessario distruggere la fede. Adesso, invece, vediamo che il mondo sta cadendo nello scetticismo, nel nichilismo, nel relativismo e proprio c'è la Chiesa che difende la dignità della ragione contro le correnti attuali, come si vede nell'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio e nel discorso di Benedetto XVI a Ratisbona. La Chiesa anche difende la libertà umana dall'oppressione, dai fondamentalismi, dalle ideologie nate dalla modernità. Il grande sforzo della modernità cercava di offrire una risposta al desiderio di felicità dell'uomo, però solamente dentro la storia, dimenticando l'apertura spirituale dell'uomo che sempre desidera una risposta più profonda, più fondamentale, la quale può solo venire da Dio.
Benedetto XVI nell'enciclica invita dunque la modernità a fare un'autocritica, come diceva Giovanni Paolo II prima dell'anno 2000, quando invitava la Chiesa a fare un esame di coscienza sul suo passato. Sia tutta la modernità, sia la Chiesa devono rendersi conto che la speranza puramente umana, apparentemente ragionevole e basata sulla libertà, non è riuscita a dare una risposta ai desideri più profondi dell'uomo. Proprio la ragione e la volontà hanno bisogno di Dio, hanno bisogno della pienezza della verità e della bontà, dunque di Dio. Senza Dio non si può dare una risposta ultima alla fame di felicità che è nel cuore dell'uomo. Oggi possiamo notare che le grandi speranze della modernità e le grandi ideologie sono fallite. Dopo il nazismo, il razionalismo, il comunismo, il mondo occidentale si trova in una situazione nella quale sembra che le uniche cose rimaste siano lo sviluppo economico e il piacere. E ciò non può rispondere ai desideri più profondi dell'uomo. Il piacere non è lo stesso che la felicità. Il Papa avverte che la fame spirituale attuale è un momento favorevole per l'evangelizzazione. All'inizio dell'enciclica cita una frase trovata in un epitaffio antico: In nihil ab nihilo quam cito recidimus, cioè "Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo": ciò esprime bene la mentalità moderna, cioè che il mondo vive dal niente fino al niente per niente; esistono soltanto il piacere e lo sviluppo economico. Nella società possiamo notare che fino a quaranta anni fa c'erano le masse popolari che lottavano per diverse cose in una prospettiva umana, laica, però almeno con una speranza ed una generosità. Adesso tutto è vuoto. Anche le speranze umane, laiche sono cadute. Benedetto XVI paragona questa realtà a quella che san Paolo ha visto ai suoi tempi. La religiosità pagana era diventata sorda come il mondo di allora, e non offriva nessuna risposta all'uomo. In tale contesto culturale vuoto entrò la parola salvatrice di Cristo. Similmente la Chiesa può oggi rispondere con la parola di speranza ad un mondo che sembra non averne, offrendo una speranza indirizzata a Dio.

Qual è l'aspetto che più l'ha colpita dell'enciclica?

La frase in latino che ho citato in precedenza: In nihil ab nihilo quam cito recidimus. Queste parole riprese dall'antichità mi hanno colpito come fossero un'espressione del mondo nel quale viviamo oggi. La critica che il Papa in qualche senso fa dell'illuminismo, della rivoluzione francese, di Kant e di Marx, è una risposta alle grandi speranze laiche del secolo passato. Per il secolo attuale forse il problema più grande è la mancanza di speranza piuttosto che la critica della speranza laica, che sembra essere già morta. Paradossalmente questo vuoto spirituale presenta un terreno pronto per l'evangelizzazione, per la speranza cristiana.

In definitiva, di che cosa ha bisogno l'uomo contemporaneo?

L'unico dono che la Chiesa offre al mondo è il Cristo. Lui è l'unica risposta alle profonde domande dell'uomo, l'unico dono che abbiamo. Benedetto XVI nell'enciclica ha fatto una bella distinzione: Dio non è soltanto "comunicativo", ma anche "formativo". Possiamo dire lo stesso dell'enciclica: non è soltanto "informativa" - cioè ha un contenuto intellettuale, che possiamo leggere e capire - ma indirizza anche verso il Dio vivente. La speranza teologale è dono della grazia, dunque una realtà che Dio offre, anche se lo sviluppo delle virtù dipende dal nostro sforzo. L'iniziativa però è sempre un dono di Dio. Possiamo essere consapevoli di aver ricevuto questo dono di Dio che cambia la nostra vita, in modo da essere ancorati in Lui. Quando, attraverso le virtù teologali, c'è questo contatto con Dio, l'unione con Lui e la sua grazia guariscono le ferite umane e danno un senso alla vita. Si può dire dunque che l'enciclica non sia solo "informativa", ma anche "formativa", perché come parola predicata dal Santo Padre è accompagnata dalla sua fede e dalla sua speranza. Benedetto XVI l'ha scritta nella preghiera e nella sua disposizione dell'apertura al dono dello Spirito Santo. Questo è un dono "formativo" per noi tutti, perché noi viviamo di più la nostra vita, radicati in Dio. In alcune lingue si fa la distinzione tra "io credo che" e "io credo", tra "io spero che" e "io spero". La speranza senza "che" è quella fondamentale. La "speranza che", per esempio, domani farà bel tempo, non è importante. Invece, la speranza senza "che" è la speranza essenziale. Davanti alla sofferenza, davanti alla morte, davanti al futuro sconosciuto tutte le "speranze che", le speranze umane cadono e rimane solamente la speranza fondamentale aperta all'ineffabile mistero di Dio. Se questa speranza inaridisce, rimangono la tragedia, la morte nell'assurdità e disperazione. Se invece questa speranza fondamentale continua l'uomo è radicato in Dio, la sua esistenza ha un senso. Tutta l'enciclica parla di questa speranza fondamentale che viene da Dio, che dà forza ad ognuno e che indirizza alla pienezza dell'amore di Dio.

(©L'Osservatore Romano - 31 dicembre 2007 - 1 gennaio 2008)

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