31 dicembre 2007

La marcia di Capodanno, dal Sessantotto in cammino per la pace (Intervista dell'Osservatore a Mons. Bettazzi)


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La marcia di Capodanno, dal Sessantotto in cammino per la pace

Marco Bellizi

"La pace non è americana, come non è russa, romana o cinese: la pace vera è Cristo": così diceva padre David Maria Turoldo, in una espressione che fu assunta come titolo della prima marcia della Pace di Capodanno organizzata nel 1968 da Pax Christi a Sotto il Monte, nel paese natale di Giovanni XXIII. Una marcia voluta allora per contestare l'impostazione consumistica della festa di fine d'anno e per affermare, in anni nei quali si andava in carcere per renitenza alla leva, la legittimità dell'obiezione di coscienza. La marcia è dunque a ridosso dei suoi quarant'anni: un percorso attraverso il quale si può facilmente rintracciare il filo della storia italiana e mondiale, delle grandi questioni che si sono poste all'attenzione dell'opinione pubblica di tutti i Paesi, attraverso il tema che gli organizzatori di anno in anno hanno scelto, sempre riferendosi al messaggio che dal 1967 il Papa ha inviato a tutti gli uomini in occasione della Giornata mondiale della Pace. Oggi la marcia è organizzata, oltre che da Pax Christi, dalla Cei, dalla Caritas italiana e dalle diocesi che di volta in volta ospitano l'evento. La prima marcia fu però ideata su iniziativa dell'attuale vescovo emerito di Ivrea Luigi Bettazzi, già presidente di Pax Christi italiana dal 1968 al 1978 quando ne divenne presidente internazionale rimanendo in carica fino al 1985. E dopo aver partecipato a tre sessioni del Concilio Vaticano II. Anni delicati, quelli della presidenza di Pax Christi, in Italia e nel mondo, anni di guerra fredda e terrorismo. Gli anni della contestazione. Oggi monsignor Bettazzi ricorda molto bene l'atmosfera che si respirava allora. E, oggi come allora, ritiene che la pace ha bisogno di giustizia e che non si può essere pacifisti senza agire.

Nel 1968 nasce la marcia della Pace. Mentre è di moda l'eskimo, anche nelle élite intellettuali, e a Parigi debutta la contestazione, i cattolici rivendicano la loro idea di pace. Come è nata questa esperienza?

Furono i giovani stessi di Pax Christi a chiedere in anni difficili come quelli del 1968 un Capodanno alternativo: un momento di riflessione e di digiuno, un'iniziativa il cui ricavato potesse essere destinato in opere di solidarietà in Italia e all'estero. Si era ancora nell'atmosfera della Pacem in terris. Non fu semplice organizzarla, qualche ostacolo lo trovammo. Alla fine ci ritrovammo nella cappella del seminario di Bergamo. Furono momenti molto intensi. Si continuò poi a confrontarci con la sfida dell'obiezione di coscienza al servizio militare e alla guerra. Era ancora molto forte l'eco delle questioni sollevate dall'azione di padre Ernesto Balducci e di don Lorenzo Milani. Alla fine si pensò di organizzare la seconda edizione della marcia presso il carcere di Peschiera dove allora era rinchiuso un buon numero di obiettori. La questione dell'obiezione era molto sentita, volevamo fortemente portare la nostra testimonianza. Si discuteva di questioni complesse, come quella di Filetto di Camarda, il paesino vicino L'Aquila, dove ci fu l'episodio del capitano Matthias Defreger, poi divenuto vescovo ausiliare di Monaco, che fece uccidere diciassette partigiani salvando così il paese dalla rappresaglia nazista. Riuscimmo a manifestare a Condove, nel 1971, dove un'azienda di riparazione di carri ferroviari si stava per convertire in fabbrica di carri armati. La lotta degli operai conseguì alla fine la vittoria: l'azienda venne riconvertita a produzione civile.

Insomma, un esordio impegnativo su temi che allora sembravano appannaggio solo dei movimenti terzomondisti e della contestazione. Quale fu la linea che seguiste?

La Chiesa seppe collocarsi in modo appropriato all'interno del movimento pacifista. Con la Populorum progressio, di cui si è celebrato quest'anno il quarantennale, si fece un cammino che portò alla realizzazione del Pontificio Consiglio per la Giustizia e Pace. Noi eravamo le avanguardie. Quando poi la responsabilità dell'organizzazione della marcia nel 1981 passò alla commissione giustizia e pace della Cei, divenne più facile recarsi in tutti i luoghi d'Italia. L'impegno poi si è diversificato, abbiamo girato tutto il Paese, dal Belice, al Friuli a Sarno. Siamo stati a Varese, per protestare contro la produzione ed il commercio delle armi, abbiamo testimoniato la necessità del dialogo interreligioso.

La pace in ogni luogo e sotto ogni declinazione: anche in Italia, come accennava, la questione ha assunto diverse forme. Ne ricorda qualcuna in particolare?

L'impegno contro le mafie è stato particolarmente articolato. Nel 2001 siamo stati a Locri, ad esprimere la nostra solidarietà e la nostra vicinanza a monsignor Bregantini. Ma siamo stati ugualmente presenti a Palermo, nel 1984, a Reggio Calabria nel 1987, a Ragusa nel 2004.

Questioni richiamate anche nel tema scelto per il convegno nazionale di Pax Christi a Brescia, "Sicurezza fra bisogno e pretesto", un tema legato alla pace?

Certamente. Quest'anno andremo prima a Brescia, per il convegno di Pax Christi, poi nel paese natale di Giovanni XXIII per la nostra marcia.

A Brescia lei parlerà della "Populorum progressio" in un intervento intitolato "Sicuri perché giusti". Come intendere oggi la pace? Quali sono i luoghi dove principalmente va difesa?

La pace va difesa e promossa ovunque: è un atteggiamento dello spirito. Ma in ogni caso non va difesa con la violenza. Come diceva Giovanni XXIII nella Pacem in terris, ritenere che le guerre possano portare alla giustizia è fuori dalla ragione. Bisogna pensare alla non violenza attiva: non rassegnarsi, essere attivi ma in modi non violenti. È un po' la stessa concezione, se vogliamo, di Gandhi. Bisogna favorire i movimenti che parlano al cuore degli uomini. L'intervento radicale non è sempre indicato. Prendiamo ad esempio la questione della polizia internazionale, legata a sua volta al concetto di sicurezza preventiva: perché un intervento di polizia sia accettato da tutti, e compreso, occorre che sia ed appaia espressione di una autorità superiore realmente sopra le parti. Molti dei problemi che oggi si vivono nell'azione delle organizzazioni internazionali dipendono proprio dal fatto che esse sono fatalmente gestite dai Paesi più ricchi, dall'Occidente.

Attualmente ci sono nuovi movimenti che si battono per la giustizia: i movimenti no global, i disobbedienti. Come si colloca oggi l'azione della Chiesa per la pace in questo contesto?

Credo che il primo esempio concreto di collaborazione con i movimenti laici pacifisti rimanga la marcia Perugia-Assisi. Al suo inizio in verità c'era all'interno di questa iniziativa anche uno spirito anticlericale. Non a caso il percorso era ideato in modo tale da passare sotto il seminario regionale di Assisi, e puntualmente arrivavano epiteti vari. Oggi ci si è resi conto che la componente religiosa è imprescindibile per un discorso realistico sulla pace. E ritengo che la Tavola della pace di Assisi sia un esempio estremamente positivo di colloquio proficuo. Le basi comunque sono state gettate da molto tempo. Ricordo che feci anche una spedizione a Belgrado alla quale partecipò l'Arci. Anche per il Vicino Oriente sono state diverse le occasioni di collaborazione: a Betlemme, con la grande spedizione nel corso della quale incontrammo anche la comunità dei Rabbini per la pace, a dimostrazione che si possono gettare ponti con chi è disposto al dialogo. Certe volte poi bisogna inserirsi anche fra parti in conflitto. Subito dopo la prima guerra del Golfo fummo tra le prime organizzazioni di interposizione fra i belligeranti.

La pace, specialmente in questi anni, passa inevitabilmente attraverso il dialogo interreligioso. Su cosa puntare per giungere a dei risultati?

Penso all'intuizione di Giovanni XXIII, che volle un Concilio non dogmatico ma pastorale. Un colloquio pastorale parte dalla gente. Certo bisogna tenere conto che noi siamo portatori di verità dogmatiche, tuttavia bisogna prima di tutto lavorare sulla persona per trovare, il seme, l'elemento comune a tutti gli essere umani. Io credo che questo possa essere rappresentato dall'attenzione e dall'amore per il prossimo, un principio presente in molte religioni. Bisogna incoraggiare la parte migliore di ognuno di noi e valorizzare quello che di buono ci è trasmesso anche da mondi che ci appaiono diversi.

Il dialogo talvolta è turbato da incomprensioni legate anche ai timori reciproci di proselitismo. Come evitare queste accuse senza rinunciare alla missione evangelizzatrice?

La distinzione è questa: evangelizzazione significa portare l'amore di Cristo. Fare proselitismo significa credere che questo amore si realizzi subito nei modi che noi pensiamo. L'esempio di san Paolo è in questo senso emblematico, quando ha affermato che si può diventare cristiani pur essendo gentili, senza passare per l'ebraismo. Io aggiungo anche una parafrasi di san Giovanni, dicendo non che "Chi crede in Cristo sarà salvato" ma "chi crede, in Cristo sarà salvato".

Tornando al tema della marcia 2007, da quali riflessioni si può partire?

La marcia di quest'anno è dedicata alla famiglia, comunità di pace e accoglienza, luogo di amore, strumento di pace che illumina la Chiesa. Un tempo la famiglia era il primo grande agente educativo. Oggi il suo ruolo sembra essere sempre più marginalizzato, a favore dei grandi mezzi di comunicazione, internet in testa. Il sistema educativo che passa attraverso i computer troppo spesso disegna un mondo nel quale è prioritaria la valorizzazione di se stessi, il principio del successo, del dominio sull'altro, fatalmente sul più debole. Bisogna perciò riscoprire la funzione educativa della famiglia, sia al suo interno sia nella società, magari attraverso modalità associative. Contiamo molto su questa marcia e sulla partecipazione di molte persone, famiglie in testa. Perché la famiglia è, appunto, il primo agente di pace. Questo è suggerito nel messaggio di Benedetto XVI, che però si apre con insistenza anche all'appello per il disarmo nucleare e a una maggiore attenzione all'ecologia.

(©L'Osservatore Romano - 30 dicembre 2007)

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