25 dicembre 2007

Il Natale secondo i Vangeli canonici dell'infanzia (Mons. Ravasi per l'"Osservatore Romano")


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Il Natale secondo i Vangeli canonici dell'infanzia

Un Figlio tra due Testamenti

Gianfranco Ravasi

«Oggi siamo seduti, alla vigilia / di Natale, noi gente, misera / in una gelida stanzetta, / il vento corre di fuori, / il vento entra. / Vieni, buon Signore Gesù da noi, volgi lo sguardo: / perché Tu ci sei davvero necessario». Era Bertolt Brecht, apparentemente così lontano dal cristianesimo, a ricordare, in una delle sue poesie degli anni 1918-'33, questa "necessità" autentica e profonda del Natale di Cristo per gli ultimi della terra e per tutti i "poveri" (spesso tali non solo a livello sociale). In questo Natale vorremmo riscoprire l'evento radicale e "necessario" dell'Incarnazione attraverso una semplice e immediata rilettura di alcune pagine di quei quattro capitoli evangelici due di Matteo e due di Luca che totalizzano 180 versetti e che hanno ricevuto la tradizionale titolatura di "Vangeli dell'infanzia di Gesù". Cominceremo, però, con una sorta di premessa di metodo.

Due itinerari opposti

Nella mentalità semitica c'è un modo di esprimersi simbolico che gli studiosi hanno chiamato "polarismo": se io colgo i due poli di una sfera, riesco a sollevarla e a reggerla. Nascita e morte, Vangeli dell'infanzia e Vangeli della pasqua sono stati il "polarismo" della vita di Gesù e della predicazione della Chiesa. Agli inizi del cristianesimo, nella meditazione sull'incarnazione natalizia e sulla risurrezione pasquale si raccoglieva sinteticamente tutto l'annuncio salvifico cristiano. Per questa ragione i due mini-Vangeli a cui attingeremo non sono tanto una folcloristica sequenza di scene orientali, di sentimenti delicati, di vicende familiari e classiche riguardanti il delizioso "Bambino di Betlemme" a cui anche l'arte sacra ci ha abituati; sono invece un primo canto al Cristo glorioso la cui apparizione nel mondo è già il compendio cifrato e decifrabile della salvezza che egli ci porta.
Si tratta, quindi, di un racconto storico carico di immagini e di segnali simbolici ma anche e soprattutto carico di teologia. In pratica queste due narrazioni, parallele ma autonome, sono dirette dalla fede in Cristo e dirigono la fede in Cristo di chi le medita. Al centro, infatti, non c'è una dolce e drammatica storia familiare ma il mistero fondamentale del cristianesimo, l'Incarnazione, la Parola nelle parole, Dio nella tenda della "carne" fragile dell'uomo. "I due mondi da sempre separati, il divino e l'umano - scriveva il filosofo danese Soeren Kierkegaard - sono entrati in collisione in Cristo. Una collisione non per un'esplosione ma per un abbraccio".
Proprio per questa densità teologica i due libretti evangelici dell'infanzia sono difficili, sono tutt'altro che pagine per bambini, come ancora qualcuno sospetta. Sotto la superficie smaltata dei colori, dei simboli, delle narrazioni, si apre un testo che è simile ad una cittadella ben compatta e armonica di cui bisogna possedere la mappa per raggiungerne il cuore. È necessario avere una "attrezzatura" interpretativa per entrare correttamente in queste pagine, attrezzatura che è offerta da una bibliografia sterminata. Gli interrogativi sono molteplici, di ordine letterario, storico, teologico. Pochi sanno, ad esempio, che l'ultimo libro ad essere messo all'Indice, prima dell'abolizione di questa prassi, fu una Vie de Jésus (1959) di un noto biblista francese, Jean Steinmann, proprio a causa del capitolo dedicato ai Vangeli dell'infanzia.
Due sono le sponde da evitare. La prima è quella storicistica o apologetica. È visibilissimo anche in superficie che queste pagine sono differenti da quelle che compongono il resto dei Vangeli; il loro nucleo storico di eventi è avvolto in un velo di interpretazioni, di approfondimenti, di rielaborazioni teologiche, di simboli, di allusioni bibliche (donde le diverse catalogazioni degli esegeti: racconto omiletico cristiano, storia simbolica, storia popolare, e così via). Sono ardui e spesso vani, allora, gli sforzi di quelli che vogliono dimostrare e documentare storicamente ogni asserto. Solo per fare un esempio, pensiamo allo spreco di energia esegetica e scientifica che ha causato la stella dei Magi: c'era chi ricorreva, come Keplero, a una "nova" o "supernova", cioè a una di quelle stelle deboli e lontane che improvvisamente, per settimane o mesi, crescono in intensità visiva a causa di un'esplosione colossale interna; c'era chi si affidava alla cometa di Halley (apparsa però nel 12-11 avanti Cristo) chi ipotizzava una congiunzione Giove-Saturno, e così via.
C'è, tuttavia, un'altra sponda da evitare ed è quella mitico-allegorica. In questa prospettiva il testo è solo un "pretesto" per illustrare tesi cristologiche o per rivestire di consistenza fantasie popolari o per rielaborare miti antichi oppure per suscitare emozioni spirituali e morali. Va in questa direzione quella melassa religiosa, sentimentale, infantilistica che è versata a piene mani su queste pagine da un certo "clima natalizio", complice il consumismo interessato. I Vangeli dell'infanzia, invece, sono testi per adulti nella fede, i cui segreti storici e teologici si aprono solo a chi vuole comprendere autenticamente le Scritture.

Al centro c'è un uomo e quindi una storia che è l'antipodo del mito. Un uomo reale, segnato dalle frontiere del tempo che si chiamano nascita e morte. Un uomo come tutti, contrassegnato da una sua identità spaziale, culturale, temporale e linguistica. Ma su questo uomo si proietta la luce della Pasqua e del mistero. Un uomo, allora, diverso da tutti perché il suo tempo cela in sé l'eterno, perché il suo spazio abbraccia ogni altezza, larghezza e profondità, perché le sue parole non tramonteranno mai, perché le sue opere non sono sue ma di Dio stesso, perché il suo amore è infinito, perché la sua nascita modesta è rivelazione cosmica, perché la sua morte è vita per tutti.

Un ritorno alle profezie

Inizieremo il nostro percorso con un'inversione di marcia, risalendo verso il passato che sta alle spalle di Gesù di Nazaret e della sua stessa vicenda personale e di quella della cristianità. Ci rivolgeremo, cioè, innanzitutto alle Sacre Scritture ebraiche. "La prova più grande di Gesù Cristo sono le profezie. Esse sono la preparazione della nascita di Gesù Cristo, il cui Vangelo doveva essere creduto in tutto il mondo. Fu necessario non solamente che ci fossero delle profezie per farlo credere, ma che queste profezie fossero divulgate in tutto il mondo per farlo abbracciare da tutto il mondo": così annotava Blaise Pascal nei suoi Pensieri (numero 526, secondo l'edizione di Chevalier).
Sul tema delle profezie dell'Antico Testamento come annunzio del Cristo, il grande filosofo e credente francese ritornerà a più riprese e con passione nei suoi scritti. D'altronde per secoli l'arte cristiana ha raffigurato alcuni profeti protesi verso l'alba del Natale di Cristo. Ed è proprio dalle profezie dell'Antico Testamento che noi partiamo per il nostro itinerario all'interno dei Vangeli dell'infanzia di Gesù.
Tra i profeti eccelle Isaia: già nel II secolo, in uno sbiadito ma suggestivo affresco nelle catacombe romane di Priscilla sulla via Salaria, la Madonna siede tenendo in grembo il piccolo Gesù nudo, che si volge con vivacità verso il profeta Isaia. In alto, una stella, verso la quale accenna il profeta, evoca l'oracolo messianico del mago Balaam, la cui storia è narrata nel libro biblico dei Numeri (24, 17: "Una stella spunta da Giacobbe, uno scettro sorge da Israele"). Se vogliamo citare un'altra rappresentazione pittorica più vicina a noi, pensiamo all'Isaia affrescato da Raffaello attorno al 1512 nella chiesa romana di Sant'Agostino: mentre due "putti" angelici reggono una tavoletta scritta in greco e dedicata al Cristo, a Maria e a sant'Anna, il profeta srotola una pergamena che porta in ebraico una frase di Isaia (26, 2: "Aprite le porte: entri il popolo giusto che mantiene la fedeltà").
Il desiderio di gettare un ponte tra i due Testamenti, d'altra parte, era sbocciato già negli stessi evangelisti, in particolare Matteo, che costella il suo Vangelo di una settantina di citazioni esplicite dell'Antico Testamento e di continue allusioni, proprio per collegare l'attesa d'Israele alla figura e alla parola di Gesù. Non per nulla nel 1954 uno studioso scandinavo, Krister Stendahl, in un'opera intitolata The school of saint Matthew, aveva liberamente ipotizzato che il Vangelo matteano fosse sorto in una specie di scuola di "rabbini" cristiani. Non potremo segnalare tutti gli ammiccamenti, i sottintesi, le allusioni bibliche che intarsiano il testo matteano dell'infanzia di Gesù. Ci accontenteremo solo di vagliare le citazioni profetiche che Matteo esplicitamente connette a Gesù bambino, di solito attraverso una solenne frase di "compimento": "Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta". Si pensi che una simile formula, tipica di Matteo, risuona con varianti 14 volte nel Vangelo e i due nostri capitoli la riecheggiano per ben 5 volte.

Prima di iniziare il nostro cammino all'interno di queste righe cariche di significati, dobbiamo però rispondere ad una domanda preliminare. Perché gli evangelisti, e Matteo in particolare, si sono preoccupati di questo raccordo tra il Cristo e l'alleanza di Dio con Israele?

La risposta è duplice. Innanzitutto essi hanno voluto identificare l'esistenza di un filo d'oro continuo tra le Scritture ebraiche e il Cristo per ragioni "apologetiche", cioè per argomentare, nei confronti della comunità giudaica di allora, che la fede in Gesù Cristo era nella linea dell'attesa dei profeti e di tutta la Rivelazione biblica. Un'altra ragione era, invece, di ordine "catechetico" e si indirizzava ai convertiti per mostrare loro che gli eventi della vita di Gesù entravano nel disegno divino già annunziato dalle Scritture. È per questo che anche elementi secondari della vicenda del Cristo venivano "appoggiati" a un testo profetico, spesso in forma molto libera e non rigorosamente storica e letteraria. Lo scopo, infatti, era quello di far rilevare l'unità tra i due Testamenti e dimostrare come il Cristo fosse il sigillo ultimo dell'attesa e della speranza dell'Israele di Dio.
Qualche studioso "radicale" in passato ha immaginato che gli eventi dell'infanzia di Gesù secondo Matteo siano stati "inventati" proprio a partire dalle profezie dell'Antico Testamento così da esaltare il Cristo. Ma l'ipotesi è molto fragile. Come, infatti, si può "creare" tutto il racconto dei Magi dalla profezia di Michea che, come vedremo, parla solo di Betlemme? Come "inventare" a partire dall'oracolo di Isaia sulla "vergine" che genera l'Emmanuele tutto il racconto che è l'annunciazione a Giuseppe? È, invece, probabile che i primi cristiani, per costruire quel ponte tra Gesù e l'Antico Testamento, abbiano attinto ai cosiddetti Testimonia del giudaismo.

Si trattava di florilegi di testi biblici di taglio messianico: si raccoglieva una sequenza antologica di citazioni anticotestamentarie per alimentare nei fedeli la speranza messianica. Uno studioso inglese, James Rendel Harris, ne ha ipotizzato l'esistenza nel 1915, e dopo il 1947, quando sono venuti alla luce i famosi manoscritti del Mar Morto, nella quarta delle undici grotte di Qumran sono state identificate alcune di queste raccolte bibliche, usate da quella comunità giudaica del I secolo avanti Cristo e I secolo dopo Cristo.

Matteo e i cinque passi profetici

La prima delle cinque citazioni bibliche è posta a conclusione dell'annunciazione angelica a Giuseppe invitato a "non temere di prendere con sé Maria, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo" (1, 20). Matteo fonda questo dato su un celebre oracolo indirizzato da Isaia al re di Giuda, Acaz, nel 734 avanti Cristo. Ma il testo originale ebraico non coincide con quello evocato da Matteo in un punto capitale. Infatti Matteo ha: "Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio" (1, 23), mentre Isaia aveva scritto in ebraico: "Ecco, la giovane donna concepirà e partorirà un figlio". (7, 14). Il vocabolo ebraico usato dal profeta non è quello preciso della verginità (betulah), ma quello generico della donna abilitata al matrimonio ('almah). Certo, secondo la prassi sociale e la morale antica d'Israele, la donna da matrimonio doveva essere vergine fisiologicamente, ma il profeta non ha voluto mettere l'accento su questo dato. Molti studiosi pensano che di per sé Isaia nel suo annunzio all'empio re Acaz forse intendeva soltanto alludere al figlio di Acaz, Ezechia, uno dei sovrani più giusti di Israele, nato dalla "giovane" moglie del re.
Tuttavia, come si vede nei capitoli successivi di Isaia - in particolare il 9 e l'11 - in filigrana alla fisionomia concreta di quel bambino, il profeta aveva disegnato il ritratto ideale del re atteso come inviato perfetto e definitivo di Dio. Non per nulla il suo nome sarebbe stato "Emmanuele", che in ebraico significa "Dio-con-noi". Se vogliamo fare un gioco di parole, potremmo dire che Isaia annunziava nel "messia" - il vocabolo di origine ebraica significa, come è noto, re "consacrato" - il "Messia" per eccellenza. Tutto questo combacia perfettamente con la figura del Cristo disegnata da Matteo: tra l'altro, l'ultima riga del suo Vangelo allude ancora alla prima pagina della nascita di Gesù perché il Cristo risorto promette di "essere sempre con noi sino alla fine dei tempi" (28, 20), di essere, quindi, l'Emmanuele. Ma la menzione della "vergine" come può essere giustificata? La risposta è probabilmente nel fatto che Matteo rimanda, come spesso avviene nei Vangeli, alla celebre versione greca della Bibbia del III-II secolo avanti Cristo detta "dei Settanta". In essa la "giovane donna" di Isaia è resa col termine greco parthènos, che significa appunto "vergine". Questo non implica che il giudaismo di quel tempo attendesse un concepimento verginale del Messia, ma solo che "una donna, che ora è vergine, concepirà" un bambino provvidenziale e straordinario. Matteo nel vocabolo vede, invece, profilarsi la realtà di Maria e di suo figlio, che non è generato da seme umano, "da carne e da volere di uomo, ma da Dio". Potremmo dire che l'evangelista recupera tutta la carica di speranza dell'oracolo di Isaia nei confronti del Messia sospirato, ma anche ne marca un nuovo lineamento, quello della sua nascita dallo Spirito di Dio e non dalla carne. Tra parentesi, ricordiamo che il cristianesimo e il giudaismo successivi entreranno in polemica proprio su questo elemento: alcuni testi rabbinici del II secolo chiamano Gesù "figlio di Panthera", ritenuto un soldato romano, giocando forse sull'assonanza tra parthènos, "vergine", e il nome Panthera. La polemica era passata anche nei rapporti tra cristianesimo e paganesimo, come è attestato dal famoso scrittore cristiano Origene, che cita e confuta il filosofo platonico Celso della seconda metà del II secolo - autore dell'opera andata perduta Dottrina verace - secondo il quale, "la madre di Gesù era stata cacciata da suo marito, artigiano di mestiere, che l'aveva accusata di adulterio con un certo soldato, di nome Panthera, il quale l'aveva messa incinta. Cacciata dal marito ed errando in modo miserevole, diede alla luce di nascosto Gesù". Passiamo ora alla seconda citazione, messa in bocca questa volta agli stessi "sommi sacerdoti e scribi del popolo". Essa risuona nei palazzi di Erode, davanti ai Magi venuti da Oriente a Gerusalemme con la domanda: "Dov'è il re dei Giudei che è nato?". La risposta è attinta dal libro profetico di un contemporaneo e forse discepolo di Isaia, il contadino Michea del villaggio di Moreset, 35 chilometri a sud-ovest di Gerusalemme. Predicatore appassionato e durissimo contro la corruzione dei politici e dell'alto clero del suo tempo - 3, 3: "Divorano la carne del mio popolo e gli strappano la pelle di dosso, ne rompono le ossa e lo fanno a pezzi come carne in una pentola, come lesso in una caldaia" - Michea apre nel finale l'orizzonte a una luce di tonalità messianica. Da Betlemme, piccolo villaggio ma patria di Davide, una partoriente darà alla luce un nuovo Davide, re di pace e di gioia, fonte di un'armonia cosmica. Ecco il passo che offre numerose varianti, microscopiche rispetto alla citazione di Matteo, pur coincidendo nella sostanza: "E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per stare in mezzo ai clan di Giuda, da te mi uscirà una guida di Israele... Dio li metterà in potere altrui fino a quando colei che deve partorire partorirà" (5, 1-2).
Matteo rappresenta il Cristo come il "figlio di Davide" perfetto, che, nascendo nello stesso villaggio del grande re d'Israele, si rivela al popolo di Dio come il Messia atteso. Anche nel Vangelo di Giovanni la folla osserva che "la Scrittura dice che il Cristo (Messia) verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide" (7, 42). Ponendo in bocca ai diretti avversari di Cristo l'annunzio di Michea, Matteo sottolinea che essi sono in grado di comprendere le Scritture ma non si decidono a credere in esse, le conoscono ma non le "riconoscono" come messaggio aperto alla pienezza che ora si sta attuando. D'altra parte, tutto il racconto dei Magi è un ricamo di allusioni all'Antico Testamento: dalla luce che sorge su Gerusalemme, e che fa "camminare i popoli e i re allo splendore del suo sorgere", all'"oro e incenso" offerti da quelli che giungono da Saba (Isaia, 60, 3.6), dalla stella di Balaam, già citata, al passo del Salmo 72 sui "re di Tarsis e delle isole, degli Arabi e di Saba che portano offerte e tributi" al re messianico...
Brevissima è la terza citazione, destinata a sostenere la fuga e il successivo rientro dall'Egitto della santa Famiglia. Evocando un tenerissimo passo del profeta Osea (VIII secolo avanti Cristo), in cui Dio è raffigurato come un padre che cerca di far mangiare e di far camminare il "figlio" Israele, Matteo vede nella frase del profeta, che commemora l'esodo dalla schiavitù egiziana, una prefigurazione del viaggio di Gesù bambino nella terra d'Egitto. Ora il protagonista non è più Israele "figlio primogenito" di Dio, come si dice nel libro dell'Esodo (4, 22) e in Osea, ma è il Figlio di Dio per eccellenza che inaugura in sé stesso il nuovo e perfetto esodo verso la liberazione definitiva. Si tratta quindi, come si usa dire, di una citazione "tipologica": nell'esodo antico è visto il "tipo", cioè il modello dell'esodo nuovo e conclusivo.
Un analogo procedimento regge la quarta citazione, posta a suggello della pagina insanguinata della strage degli innocenti. Matteo rimanda a un passo di Geremia, che, a sua volta, suppone un episodio della Genesi. Giacobbe con Rachele, la moglie amata, incinta, sta per giungere a Efrata, che è il circondario di Betlemme. La donna è scossa da un parto difficile e la sua situazione si fa drammatica: "Mentre esalava l'ultimo respiro, perché stava morendo, essa lo chiamò Ben-onì ("figlio del mio dolore"), ma suo padre lo chiamò Beniamino ("figlio della destra") cioè della fortuna". (Genesi, 35, 18).
Ancor oggi all'ingresso di Betlemme una sinagoga commemora la morte e la sepoltura di Rachele. Secoli dopo quell'evento, nel 586 avanti Cristo, davanti a Gerusalemme diroccata dall'esercito babilonese, Geremia riprende quel ricordo e lo ambienta a Rama, una località 17 chilometri a nord di Gerusalemme; Betlemme è, invece, a pochi chilometri a sud della città santa. Là erano stati concentrati dai Babilonesi tutti gli Ebrei che si sarebbero poi incamminati per l'esilio verso i fiumi di Babilonia. Su questa folla di disperati il profeta immagina che si erga la figura statuaria di Rachele: questa ombra sembra piangere non più la sua morte, ma quella dei suoi figli caduti nell'assedio di Gerusalemme e quelli ora deportati: "Una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d'essere consolata perché non sono più" (31, 15). Matteo, in dissolvenza, riproduce la stessa scena dipinta da Geremia ma riportandola a Efrata, cioè a Betlemme, ove si leva il pianto delle madri dei bimbi sgozzati da Erode.
Come è evidente, la connessione è libera e creativa e si basa su un modo di riferimento alla Bibbia praticato dallo stesso giudaismo e caro per secoli al cristianesimo. Esso non si cura di stabilire collegamenti diretti e puntuali, ma piuttosto di isolare una rete di legami simbolici che rivelano come Antico e Nuovo Testamento appartengano a un tessuto e a un progetto comune voluto da Dio. Per raggiungere questo scopo talora si ricorre a un rimando generico, fluido, quasi evanescente. È il caso della quinta e ultima citazione del vangelo dell'infanzia di Gesù secondo Matteo: "Andò ad abitare a Nazaret perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: Sarà chiamato Nazareno" (2, 23). Queste poche parole hanno fatto versare i classici fiumi d'inchiostro proprio perché il "detto" in questione non esiste in nessuna pagina dell'Antico Testamento, al quale Nazaret, tra l'altro, è totalmente ignota. L'evangelista rimanda forse a un libro non canonico ("apocrifo") dell'antica tradizione d'Israele a noi ignoto? Nel Nuovo Testamento c'è al riguardo un caso analogo, quello del verso 9 della Lettera di Giuda che cita l'Assunzione di Mosè, un libro caro al giudaismo ma apocrifo. Oppure Matteo si vuole genericamente appellare alla tradizione messianica dell'Antico Testamento vedendola confluire nel "nazareno" Gesù? È difficile scegliere tra queste e altre soluzioni dell'enigma presente nella dichiarazione di Matteo. Si potrebbe forse tentare di ricorrere al valore simbolico del termine "nazareno", al di là del suo legame con Nazaret. Nell'originale greco del vangelo abbiamo, infatti, Nazoràios, un vocabolo che può rimandare al "nazireo", cioè a quella persona che si è consacrata a Dio, mediante un voto e il cui ritratto è minuziosamente disegnato nel capitolo 6 del libro biblico dei Numeri. Una figura famosa di "nazireo" è quella dell'eroe Sansone, che si presenta così nel libro dei Giudici: "Io sono un nazireo di Dio", cioè un consacrato a lui con tutto il suo essere. Come è noto, Sansone tradirà il suo voto infrangendolo sotto il fascino di Dalila, una donna filistea emblema dell'idolatria cananea che tanto attirava Israele. Sapendo che uno degli impegni principali del "nazireo" era quello dell'astinenza dagli alcolici; vediamo che anche il Battista è tratteggiato come un "nazireo": "Non berrà né vino né bevanda inebriante e sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre" (Luca, 1, 15).
Matteo, allora, intreccia nella parola Nazoràios applicata a Gesù sia il riferimento concreto alla residenza anagrafica sia il legame spirituale all'Antico Testamento, ove erano emerse figure di "nazirei". Ma nessuno di loro era stato veramente il Santo di Dio, cioè la persona pienamente "consacrata" al Padre nell'adesione totale alla sua volontà. Come è evidente, il ponte con l'Antico Testamento è in questo caso molto sottile, affidato all'allusione e al sottinteso, secondo uno stile abbastanza comune al giudaismo, a cui Matteo e i suoi lettori appartenevano per nascita e cultura. Possiamo, però, ipotizzare un altro collegamento, forse ancor più sottile, segnalato da alcuni studiosi. Giocando sulle assonanze, Matteo avrebbe potuto alludere al vocabolo ebraico nezer, "germoglio", "virgulto", un termine che nell'Antico Testamento era diventato quasi il nome del re-Messia. Scrive, infatti, Isaia a proposito dell'Emmanuele: "Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse (il padre di Davide), un virgulto germoglierà dalle sue radici e su di lui si poserà lo Spirito del Signore" (11, 1-2).
Cristo è, allora, il germoglio di vita che sboccia nel mondo morto dell'uomo peccatore come un inizio assoluto di speranza e di grazia divina. Questo è intuito da Matteo attraverso l'accostamento tra la realtà "nazaretana" di Gesù e il simbolo del nezer, il "germoglio" messianico cantato da Isaia. Proprio quest'ultima citazione biblica di Matteo ci permette di comprendere appieno il modo con cui il Nuovo Testamento si è raccordato all'attesa dell'Antico. Da un lato le pagine anticotestamentarie, soprattutto quelle profetiche, sono percorse dall'attesa viva e intensa di un intervento definitivo di Dio nella nostra storia intricata e insanguinata. Un intervento che si renderà manifesto attraverso un uomo ideale, il Messia, il "consacrato", perfetto re, profeta e sacerdote, dal volto ancora ignoto. Come diceva suggestivamente la scrittrice Simone Weil, "i beni più preziosi non devono essere cercati, ma attesi come dono".
D'altro lato, gli autori ispirati del Nuovo Testamento, che hanno di fronte ai loro occhi la figura del Cristo, rileggono quelle parole antiche, ancora sfumate, incerte ma "aperte", attraverso la luce della realtà che essi vivono con Gesù di Nazaret. Intuiscono che sotto gli scritti e il pensiero dei profeti si muove il disegno di Dio stesso, che compone in un'unica trama di salvezza tutta la vicenda dell'uomo, portandola alla pienezza nel Cristo. I passi dell'Antico Testamento si allargano oltre il loro primo significato, rivelano nuove risonanze, acquistano valori inediti. Il Natale e i primi anni di Gesù vengono visti alla luce della speranza messianica dell'Israele di Dio e i testi profetici a loro volta sono illuminati dall'esistenza e dalla realtà di Gesù.

Le tre «annunciazioni»

Abbiamo voluto riservare così ampio spazio all'orizzonte che sta alle spalle degli inizi storici di Gesù Cristo, perché di solito questa dimensione, che era di grande rilievo per la cristianità delle origini e per la tradizione successiva, si è un po' appannata ed è stata accantonata dall'attenzione popolare che ha puntato i suoi occhi soprattutto sul fatto della nascita. Noi ora ci accontenteremo di evocarne le varie componenti in modo molto essenziale e partiremo da un evento preliminare che si sfrangia in una sorta di trittico di scene. Intendiamo riferirci alla cosiddetta "annunciazione" della nascita di Cristo: essa si ramifica in tre diversi annunzi. Il primo è quello rivolto alla futura madre, Maria; il secondo è indirizzato al padre legale Giuseppe, mentre il terzo ha come destinatari un gruppo di pastori nomadi. In questa e nelle altre scene dell'infanzia di Cristo noi entreremo in modo lieve e descrittivo, senza affrontare le mille questioni esegetiche che hanno coinvolto la lettura degli studiosi e che sono trattate come si è già detto in una fitta bibliografia, fatta spesso di opere molto impegnative.
A questo proposito, anche noi, come i nostri lettori, siamo in attesa del secondo volume del Gesù di Nazaret promesso da Benedetto XVI, destinato a comprendere anche un'analisi delle origini storiche di Cristo, attraverso l'approfondimento delle pagine evangeliche che ora noi scrutiamo solo dall'alto, in uno sguardo panoramico.
C'è, dunque, una prima annunciazione, quella che coinvolge Maria, la ragazza nazaretana chiamata a un'avventura umana e spirituale unica. A narrare questo evento è Luca in un racconto (1, 26-38) modellato su uno schema già presente nell'Antico Testamento, quello degli annunzi delle nascite di alcuni personaggi famosi come Sansone (Giudici, 13-16) o il citato re-Emmanuele di Isaia (7, 10-17).
Siamo a Nazaret. Un francescano archeologo, Bellarmino Bagatti, ha trovato una traccia antichissima della devozione delle origini in una casa nazaretana adibita allora a luogo di culto dai giudeo-cristiani: "Nell'intonaco si trovò un'iscrizione in caratteri greci. Essa recava in alto le lettere greche XE e, sotto, MAPIA. È ovvio riferirsi alle parole greche che il Vangelo di Luca mette in bocca all'angelo annunziatore: Chàire Maria". Ebbene, attraverso quella comunicazione angelica, segno di una rivelazione trascendente, si delinea nel testo di Luca come un piccolo Credo che offre una perfetta definizione dell'identità di Cristo.
Ascoltiamo infatti l'annunzio a Maria, dopo il saluto dell' "Ave": "Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce, lo chiamerai Gesù. Sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo. Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine. Lo Spirito Santo scenderà su di te, la potenza dell'Altissimo stenderà su te la sua ombra; colui che da te nascerà sarà Santo e chiamato Figlio di Dio" (Luca, 1, 32-33.35). È la stessa proclamazione dell'incarnazione, cioè dell'incontro tra il divino e l'umano in Gesù, che è espressa da Giovanni nella frase essenziale "Il Logos si è fatto carne" (1, 14). È per questo che Maria è allusivamente rappresentata come l'arca dell'alleanza del tempio di Sion su cui si stendeva l'"ombra" della presenza divina ed è interpellata dall'angelo come kecharitomène, cioè come "ricolma di grazia" da parte di Dio. Suo figlio sarà, come dice il poeta tedesco Novalis nei suoi Inni alla notte scritti tra il Natale 1799 e l'Epifania 1800, "frutto infinito di misterioso amplesso". E il filosofo Johann G. Fichte in una predica pronunziata nella festa dell'annunciazione a Maria, il 25 marzo 1786, esclamava: "Ci sembra poco che fra tutti i milioni di donne della terra soltanto Maria fosse l'unica eletta che doveva partorire l'Uomo-Dio Gesù? Ci sembra poco l'esser madre di Colui che doveva rendere felice l'intero genere umano e grazie al quale l'uomo sarebbe divenuto un'immagine della divinità e l'erede di tutte le sue beatitudini?".

La sorpresa di Giuseppe

Noi tutti abbiamo in mente la scena dell'annunciazione coi colori teneri ed estatici del Beato Angelico nel Convento di san Marco a Firenze. Nell'ultimo dei suoi Canti spirituali Novalis confessava: "In mille immagini, Maria, ti vedo / amabilmente ritratta / Ma nessuna di esse può fissarti / come ti vede la mia anima". L'annunzio dell'angelo a Maria è uno dei soggetti spirituali capitali nella memoria dell'Occidente: solo per citare un esempio a noi vicino, pensiamo a L'Annunzio fatto a Maria di Paul Claudel (1912). Già san Bernardo di fronte all'esitazione e allo sconcerto di Maria - che alla fine però si dichiara "serva del Signore", un titolo biblico di onore e di consapevolezza di un'alta missione - dichiarava: "L'angelo aspetta la tua risposta, o Maria! Stiamo aspettando anche noi, o Signora, questo tuo dono, che è dono di Dio. Sta nelle tue mani il prezzo del nostro riscatto. Rispondi presto, o Vergine! Pronunzia, o Signora, la parola che terra e inferi e persino il cielo aspettano... Alzati, corri, apri!".
L'improvvisa e sorprendente maternità di Maria crea, però, sconcerto in un'altra persona evangelica, il promesso sposo Giuseppe. Nella prassi matrimoniale ebraica antica il fidanzamento era considerato a tutti gli effetti il primo atto del matrimonio stesso. A segnalarci questo sconcerto è, invece, Matteo che ci narra una "annunciazione a Giuseppe". Leggiamone le battute fondamentali. "Maria, promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre stava pensando questo, ecco apparirgli in sogno un angelo che gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quello che in lei è generato viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù; egli, infatti, salverà il suo popolo dai suoi peccati" (Matteo, 1, 18-21). Giuseppe si trova di fronte ad una scelta drammatica. Il libro della legge biblica, il Deuteronomio, è chiaro: "Se la donna fidanzata non verrà trovata vergine, la si farà uscire sulla soglia della casa paterna e la popolazione della sua città la lapiderà per farla morire, perché ha commesso un'infamia in Israele" (22, 20-21). Il giudaismo posteriore aveva attenuato la norma, imponendo però il ripudio: è ciò che deve fare anche Giuseppe. Egli, però, da "uomo giusto", cioè mite e buono, vuole scegliere la via segreta, quella di un atto senza clamore, senza denunzia legale e processo ma solo alla presenza di due testimoni, come gli consentiva la legge. Maria se ne sarebbe ritornata alla casa paterna per una vita emarginata e infelice. Ecco, però, l'irrompere dell'angelo: egli è per eccellenza il segno di una rivelazione divina, come lo è il sogno - se ne contano cinque nel Vangelo dell'infanzia di Gesù secondo Matteo - è il simbolo della comunicazione di un mistero. Giuseppe è invitato a perfezionare il matrimonio con Maria, superando ogni perplessità o sdegno, e ad assumere la paternità legale nei confronti del nascituro: l'imporre il nome - che viene spiegato etimologicamente come "salvatore" ("Gesù" deriva dalla radice ebraica jasha', "salvare") - era un atto tipico della patria potestà.

Uno strano censimento

Come si è già detto, la verginità è, nel racconto evangelico sia di Luca sia di Matteo, un dato marcato a livello teologico: Cristo, anche se è generato nella pienezza di una maternità e dell'umanità, non è frutto della "carne" e del "sangue", cioè non deriva dai puri e semplici meccanismi biologici di una generazione creaturale. In lui c'è il sigillo del divino ed è a questo che è finalizzata la verginità della madre, che non di rado alcune miniature o dipinti amano raffigurare in evidente stato interessante. Alla fine Maria partorisce ed è Luca a collocare questo evento nella cornice di Betlemme, una cittadina nei pressi di Gerusalemme, patria del re Davide, in occasione di un censimento ordinato dal "governatore della Siria Quirinio" (si legga Luca, 2, 1-7). Pieter Bruegel il vecchio in una tela del Museo delle belle arti di Bruxelles (1566) ha rappresentato in modo delizioso l'accorrere a Betlemme, immersa nella neve, di un fitto stuolo di mercanti, contadini, straccioni per farsi registrare secondo un censimento condotto alle radici, cioè ai focolari d'origine delle famiglie, una prassi attestata nell'Egitto romano, anche se predominante era il censimento residenziale.
C'è, però, una difficoltà storica piuttosto grave. L'unico censimento documentato di Quirinio in Palestina fu eseguito nel 6-7 dopo Cristo, quando Gesù aveva almeno dodici anni e stupiva i dottori della legge nel tempio di Gerusalemme (Luca, 2, 41-52). Come è noto, il calcolo cronologico della nascita di Cristo è quasi certamente erroneo a causa del computo impreciso del monaco Dionigi il piccolo del VI secolo, che fissò l'evento nell'anno 753 dalla fondazione di Roma. In realtà, i Vangeli affermano che Gesù nacque sotto Erode il Grande che morì attorno al 4 avanti Cristo Luca, evocando quell'operazione censuale, ha forse confuso le date? Oppure l'ha fatto per imprimere alla nascita di Gesù un respiro universale? Sappiamo che i Vangeli, pur narrando la vicenda storica di una figura concreta come Gesù di Nazaret, non hanno rigorose preoccupazioni storiografiche. Tuttavia sappiamo anche che Luca è l'evangelista più attento al dato storico. È possibile, dunque, seguire due percorsi.
Da un lato, si può affermare - come scrive un certo importante commentatore di Luca, Heinz Schürmann - che "il tema del censimento pone la nascita di Gesù in rapporto con tutto l'impero. In lui non si compie solo l'attesa dei Giudei ma di tutta la terra. Si apre un orizzonte vasto come il mondo; è affermata l'importanza universale della nascita di Gesù". La questione sarebbe dunque da affrontare a livello teologico e simbolico, non certo storiografico. Come scrive un altro studioso tedesco, Emil Schürer, nella sua Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù, un'opera classica dell'Ottocento, "Luca avrebbe generalizzato in un unico evento i vari censimenti ordinati da Augusto in epoche e luoghi diversi", così da collocare la nascita di Cristo all'interno di un respiro universale e planetario.
D'altro lato, però, si può tentare di vagliare tutti i dati storici disponibili, come hanno fatto in forme diverse vari studiosi. Ad esempio, secondo lo storico Giulio Firpo, in un suo studio del 1983 su Il problema cronologico della nascita di Gesù, "il primo censimento", come lo definisce Luca (2, 2), sarebbe da inquadrare in un piano globale censuale progettato da Augusto, destinato a coinvolgere anche un regno autonomo ed esente, com'era quello di Erode, rex socius et amicus, cioè re alleato e amico di Roma. Nel 7-6 avanti Cristo si sarebbe eseguito, dunque, in Palestina un censimento amministrativo, connesso a un giuramento di fedeltà all'impero e condotto secondo il metodo tribale e non residenziale per ragioni di tattica e cautela politica. A gestirlo fu Quirinio, in quel momento reggente con incarico speciale la legazione di Siria, tenuta in via ordinaria dal governatore Sanzio Saturnino, allora impegnato in una dura guerra contro gli Armeni. Questo sarebbe il censimento durante il quale nacque Gesù. Quando diverrà responsabile, a pieno titolo della Siria, Quirinio ordinerà il secondo censimento, più noto e documentato, quello del 6-7 dopo Cristo. Certo è che, al di là delle questioni storiche -non manca neppure qualche studioso che cerca di confermare la datazione attuale dei secoli cristiani - Luca vede nella nascita di Cristo un evento dagli echi universali e dall'incidenza nella vicenda storica umana.
La dimensione teologica nel racconto del Natale di Gesù risulta, quindi, primaria, come ha sempre compreso la tradizione. Persino Jean-Paul Sartre, nel suo primo testo teatrale, Bariona o il figlio del tuono, composto per il Natale del 1940 nello Stalag XII D nazista di Treviri, riesce ad esprimere i sentimenti di Maria che partorisce non tanto in una stalla - come vorrà la tradizione - ma in una di quelle stanze, non di rado rupestri, che nelle case palestinesi servivano come dispensa e rifugio invernale, in compagnia di animali, stanza forse ceduta da un conoscente o parente.
Ecco qualche riga del testo di Sartre, una pagina veramente sorprendente per la sua intensità spirituale, soprattutto se si pensa alle successive scelte ideali di questo filosofo francese. "Cristo è suo figlio, carne della sua carne e frutto delle sue viscere. Ella lo ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio... Ella sente insieme che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che egli è Dio. Ella lo guarda e pensa: "Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Egli mi assomiglia. È Dio e mi assomiglia!". Nessuna donna ha avuto in questo modo il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolissimo che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio tutto caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e vive". Si intravede in queste righe la base della riflessione tradizionale cristiana che ha attribuito a Maria, nel concilio di Efeso (451), il titolo di Theotòkos, "madre di Dio".

L'annunciazione ai pastori

"C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge": queste sono le presenze che popolano il deserto di Giuda adiacente a Betlemme e che Luca farà emergere in primo piano il giorno della nascita di Gesù, giorno non identificabile cronologicamente - il 25 dicembre, come è noto, è stato probabilmente escogitato in connessione e sostituzione del culto solare, al solstizio d'inverno. Nel trattato Sanhedrin (25b) del Talmud, la grande raccolta delle tradizioni giudaiche, si legge che i pastori non potevano testimoniare in sede processuale perché considerati impuri, a causa della loro convivenza con animali, e disonesti, a causa delle loro violazioni dei confini territoriali. Il loro statuto civile era, quindi, in basso alla scala sociale e le loro condizioni di vita erano molto meno "georgiche" e idilliache di quanto ci abbiano abituato a pensare Virgilio o Teocrito. La tradizione cristiana ha collocato il loro accampamento per quella notte nell'attuale villaggio arabo di Bet-Sahur, a tre chilometri da Betlemme, in una località detta "Campo dei pastori", occupata nel IV-VI secolo da un monastero bizantino eretto su grotte usate dai pastori per le loro veglie notturne. Ora là si staglia una chiesa moderna (1953) che vorrebbe imitare nella sua struttura la tenda beduina e la cui cupola lascia filtrare la luce del cielo quasi in un gioco di stelle.
Dopo le annunciazioni a Maria e a Giuseppe possiamo, allora, parlare di un'annunciazione ai pastori. Anche in questo caso sono di scena gli angeli che intonano quel Gloria in excelsis che verrà cantato in mille e mille Messe nei secoli. Questo coro che esce dalle labbra di "tutto l'esercito celeste", come Luca chiama biblicamente gli angeli, sarà rilanciato dalla terra al cielo quando Gesù entrerà a Gerusalemme per l'ultima settimana della sua vita. Nella notte del Natale gli angeli avevano cantato: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini (oggetto) della buona volontà (divina)" (questa è la versione più corretta di Luca, 2, 14, ove di scena è l'amore di Dio e non tanto la volontà umana). Alle soglie della Passione i discepoli canteranno: "Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!" (Luca, 19, 38). Commenta Raymond Brown in un'importante opera su La Nascita del Messia secondo Matteo e Luca: "È un tocco pieno di fascino che la moltitudine della milizia celeste proclami la pace sulla terra, mentre la moltitudine dei discepoli proclama la pace in cielo: i due passi potrebbero diventare quasi un responsorio antifonale".
C'è però, in mezzo alla coreografia dell'epifania angelica un messaggio specifico, indirizzato ai pastori. Nell'originale greco Luca lo definisce un "evangelo" e ha un contenuto squisitamente teologico: "Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore" (2, 11). Anche in questo caso abbiamo un piccolo Credo cristiano che ruota attorno a tre titoli fondamentali attribuiti al Bambino: Salvatore, Cristo (cioè Messia), Signore (cioè Dio). Anche Paolo conosce questo Credo e lo cita scrivendo ai cristiani di Filippi: "Aspettiamo il Salvatore, il Signore Gesù Cristo" (3, 20). Nel piccolo Gesù - secondo l'orientamento dei Vangeli dell'infanzia - si intravede già il glorioso "Signore" risorto, proclamato dalla fede pasquale della Chiesa. La tipologia dell'icona russa della scuola di Novgorod (XV secolo) esplicita questo collegamento raffigurando il bambino Gesù avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro. Ebbene, i primi ad accorrere in pellegrinaggio a Cristo Signore sono gli ultimi della terra, anticipando un detto caro a Gesù: "I primi saranno gli ultimi e gli ultimi primi".
Tutto il racconto lucano è costellato di verbi di moto e di sorpresa: "andiamo, conosciamo, andarono, trovarono, videro, riferirono, tutti udirono, si stupirono, tornarono glorificando e lodando Dio per tutto quanto avevano udito e visto". La famiglia di Betlemme è circondata dai pastori, i rifiutati dal Sinedrio, i marginali che Luca, però, vede come la prefigurazione della Chiesa di Cristo. Ma è interessante scoprire, in parallelo, quale sia la presenza che Matteo (2, 1-12) colloca attorno al bambino Gesù. Prima di tutto è necessario sottolineare che la scenografia è completamente differente e anche questo attesta la diversità delle tradizioni che stanno alla base dei due racconti e la loro qualità spesso più teologica che storica. Ora la sacra famiglia è rappresentata in una specie di sala del trono a cui accede quasi una delegazione estera in visita di cortesia. Per Matteo si agitano, infatti, le cancellerie, il clero di Gerusalemme, l'intera città. Un evento "internazionale" sta per compiersi e ha per protagonisti alcuni misteriosi Magi "venuti dall'Oriente". Ma a questa scena dedicheremo la nostra attenzione in futuro, in occasione della solennità dell'Epifania.
Così come abbiamo fatto aprendo questa riflessione natalizia, così ora la vogliamo concludere con le parole di un poeta dalla religiosità molto incerta. Ora a offrirci lo spunto per un augurio non convenzionale per il nostro Natale è Salvatore Quasimodo che, nella sua lirica Natale, desunta dalla raccolta mondadoriana delle sue Poesie (1972), propone sì la scenografia un po' scontata - ma ai nostri giorni non troppo - di un presepe domestico, ma ne raccoglie l'appello spirituale profondo. Ecco i suoi versi: "Natale. Guardo il presepe scolpito, / dove sono i pastori appena giunti / alla povera stalla di Betlemme. / Anche i Re Magi nelle lunghe vesti / salutano il potente Re del mondo. / Pace nella finzione e nel silenzio / delle figure di legno: ecco i vecchi / del villaggio e la stella che risplende, / e l'asinello di colore azzurro. / Pace nel cuore di Cristo in eterno; / ma non v'è pace nel cuore dell'uomo. / Anche con Cristo, e sono venti secoli, / il fratello si scaglia sul fratello. / Ma c'è chi ascolta il pianto del bambino / che morirà poi in croce fra due ladri?".

(©L'Osservatore Romano - 24-25 dicembre 2007)

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Che articolo, l'ho stampato perchè a leggerlo qui mi fanno male gli occhi tanto è lungo!Non si vedono queste cose sui giornaloni. Un tempo c'erano dei bei articoli, ora sono tutti corti, veloci o non ci sono proprio. Il giornale dovrebbe essere luogo di idee e scambi e approfondimenti. Va beh, meno male c'è l'Osservatore e i grandi intellettuali come Ravasi. Marco

Anonimo ha detto...

chiedo umilmente scusa, ma persino Ravasi può prendere cantonate... come sempre inappuntabile fin che c'è da esibire cultura biblica, immancabilmente il solito nel non accettare la profonda storicità del Natale e la veridicità dei vangeli, tacciando di apologetica i tentativi di non ripetere i suoi errori. Quando metterà in discussione teorie sulle quali ha puntato da anni? Sa che esse vengono smantellate da molte fonti, ma lui ripropone le sue, citando solo quello che gli fa comodo.

raffaele ha detto...

A me invece la riflessione di Ravasi è piaciuta: sa coniugare esegesi teologica e riferimenti all'esegesi storico-critica, senza fermarsi a quest'ultima. Non mi pare proprio che Ravasi misconosca "la profonda storicità del Natale" e "la veridicità dei vangeli": semplicemente sa distinguere il nucleo storico dalle strutture letterarie del testo. I Vangeli non sono un testo storioco-cronachistico, ma un testo religioso, che trasmette un messaggio teologico (sia pure fondato su un evento storico) utilizzando i generi letterari dell'epoca e le categorie culturali di quel mondo.

Anonimo ha detto...

Caro Raffaele, mi permetto un distinguo: ci mancherebbe che Ravasi misconosca la storicità del Natale. Concordo con "anonimo", ringraziando questo blog che ci ospita: la "multidisciplinarità" di un testo come questo è degna di riconoscenza perchè come sempre si impara. Contesto solo che i vangeli "non siano ANCHE un testo storico". Questo è ciò che va ripetendo la scuola a cui Mons. Ravasi attinge, (e senza usare umilmente condizionali o dubitative, bensì trinciando giudizi o patenti di apologeta, un po' ingenuo e facilone) a chi ancora studia senza fermarsi alle sue conclusioni)di fatto non riconoscendo a Luca la patente di storico da lui attestata nel prologo del vangelo. Uno storico che scrive 10-30 anni dopo i fatti non sbaglia di 6 anni una data! Sarebbe come scrivere oggi che sulla luna ci sono andati nel 1962 (e qui non è questione di giornali o TV, perchè Luca narra dei fatti di una famiglia della quale ha CONOSCIUTO VIVENTI I TESTIMONI DEI FATTI, compresa la Mamma (una mamma che sbaglia di 6 anni la nascita del figlio? ma dai!). Dunque il "primo" censimento di Quirinio NON è nel 6 d.C., ma nemmeno nel 6 a.C. Ed Erode NON è morto nel 4 a.C. perchè ci sono altre fonti che contraddicono Giuseppe Flavio (o ciò che ne possiamo leggere). Quello che Ravasi evita da anni di considerare è che la lettura storico-critica dei generi letterari e dell'interpretazione delle categorie culturali e le fonti Q etc SONO TEORIE e come tali fanno il loro tempo. Comunque ha tanto avuto spazio che ormai quel che dice è "credibile", mentre ciò che dicono altri è "apologia". Credetemi: non ce l'ho con Mons. Ravasi, ma con un modo di parlare della storicità del vangelo prescindendo dalla precisione, quasi che quello che conta sia la nostra interpretazione. Ebbene è esattamente il contrario: che conta è ciò che è successo (data,orario,luogo,come ogni cosa che accade E VERRA' GIORNO IN CUI NE SAPREMO DI PIU'), caso mai discutiamo sulle interpretazioni. Comunque non inquietiamoci e facciamoci gli auguri: adorare il Bambino è tipico di chi è meno sapiente e più confidente... Il mio difetto è che sono pignolo: se Natale è un fatto storico e i vangeli sono la fonte per conoscerlo, che a livelli così alti della gerarchia si insista a considerare il tutto "vago" per puntare di più sulla "cultura" e meno nella sorprendente realtà di una cosa così umile e vera non mi piace. Buon Natale!