28 dicembre 2007

Quel profugo innocente (Gesù) scampato al massacro (Mons. Ravasi per "Osservatore Romano")


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Quel profugo innocente scampato al massacro

Gianfranco Ravasi

La città natale di Davide, Betlemme, è oggi un centro arabo con una forte presenza cristiana, situato a pochi chilometri da Gerusalemme e attualmente penalizzato dal muro eretto dagli Israeliani a tutela dei rischi di incursioni di attentatori, divenuto però causa di una profonda divisione del territorio e di separatezza e incomunicabilità tra i due popoli. Betlemme è a 777 metri ed è dominata dalla mole imponente della basilica della Natività innalzata da Elena, la madre di Costantino attorno al 325-330, e rinnovata dall'imperatore Giustiniano nel 531. Rimasta intatta nei secoli perché risparmiata dai persiani che sul frontone avevano visto raffigurati i Magi nei loro costumi nazionali e dagli arabi musulmani che veneravano Maria, la madre del profeta Gesù, la basilica, che ora è divisa fra le tre comunità cristiane - armeni, greco-ortodossi, cattolici francescani - accoglie all'interno del terreno di fondazione un reticolo di grotte. In una di esse una stella d'argento a quattordici punte indica il luogo tradizionale in cui Gesù è venuto alla luce, circondato solo dai pastori della zona. I sacerdoti del tempo consideravano impuri i nomadi, come impuri erano gli stranieri. Gesù ha, quindi, attorno a sé solo questi "ultimi", quella sorta di "cattiva compagnia" di poveri, malati, peccatori che costantemente lo circonderà durante il suo itinerario terreno. Dopo tutto, proprio qui, secoli prima anche Iesse davanti al profeta Samuele s'era quasi dimenticato di presentargli un altro figlio, l'ultimo, il ragazzo Davide, che sarebbe divenuto re di Giuda.
Betlemme è, quindi, il punto di partenza del nostro racconto. Già l'imperatore romano Adriano nel II secolo aveva confermato la presenza di un primo culto cristiano attorno a questa grotta, sconsacrandola con un tempietto dedicato ad Adone. E già attorno al 220 il grande maestro cristiano Origene di Alessandria d'Egitto scriveva: "In Betlemme si mostra la grotta dove, secondo i Vangeli, Gesù è nato e la mangiatoia nella quale, avvolto in poveri panni, fu deposto. Quello che mi fu mostrato è familiare a tutti gli abitanti della zona. Gli stessi pagani dicono a chiunque li voglia ascoltare che in quella grotta è nato un certo Gesù che i cristiani adorano" (Contro Celso I, 51).
Su questo neonato, però, si stende subito l'incubo della repressione. Erode, di sangue misto - mezzo ebreo e mezzo idumeo - figlio di un primo ministro della corrotta dinastia ebraica degli Asmonei, era riuscito a creare e a salvaguardare dall'ingordigia romana un regno esteso e potente. Le sue doti di governo e la sua eccezionale politica edilizia - il tempio da lui costruito e frequentato anche da Gesù era indubbiamente un capolavoro architettonico, come lo erano le città di Samaria e di Gerico, le fortezze di Masada, di Macheronte e l'Herodium, il suo colossale mausoleo - gli avevano meritato il titolo di "Grande". Ma, come sempre, questo potere assoluto era stato innalzato attraverso sangue e lacrime: mogli e figli erano stati sacrificati senza esitazione alla ragion di Stato. Celebre è il detto attribuito da Macrobio, storico romano del V secolo dopo Cristo, ad Augusto: presso Erode erano più fortunati i porci - non commestibili per gli orientali - dei figli. Tra l'altro, in greco le due parole "porco" (hys) e "figlio" (hyiós) hanno un suono quasi identico.
Per avere un'idea dei sospetti e delle repressioni violente che accompagnarono la figura storica di Erode, che ha dominato in Palestina con il benestare di Roma dal 37 al 4 avanti Cristo, basta riferirsi alla testimonianza dello storico ebreo filoromano Giuseppe Flavio che, nelle sue opere Antichità Giudaiche e Guerra Giudaica, rievoca l'uccisione dei figli Alessandro e Aristobulo, della loro madre Mariamne e del figlio Antipatro, fatto assassinare cinque giorni prima della sua morte, perché sospettato di ordire un colpo di Stato per la successione al trono.
La notizia della nascita di un bambino considerato oggetto di interesse da parte di una carovana di stranieri (i Magi) non poteva, perciò, non passare inosservata al sistema repressivo erodiano. Ecco, allora, la scarna annotazione di Matteo: "Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui s'infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi" (2, 16). Questo assurdo massacro di bimbi è da connettersi all'alone di efferatezza che accompagnava il ricordo storico di Erode che, tra l'altro, fu sepolto proprio nei pressi di Betlemme, nella citata fortezza di Herodium, le cui rovine solenni si ergono ancor oggi sul colle mozzato che le ospita.
Tuttavia non manca in filigrana al testo matteano un'allusione biblica, secondo la prassi evocativa delle Scritture cara all'evangelista: si rimanda implicitamente all'ordine del faraone di cancellare tutti i neonati maschi ebrei (Esodo 1, 16). In Gesù, allora, si riassume emblematicamente tutta la vicenda dell'Israele biblico e si proietta già su di lui l'ombra fosca del martirio sulla croce. In quel bambino, però, idealmente si concentra anche la lunga storia delle persecuzioni e delle violenze che hanno scandito i millenni.
Il poeta francese Charles Péguy nel suo Mystère des saints Innocents (1912) mette in bocca a Dio questo soliloquio desolato: "Gli uomini preparavano tali errori e mostruosità che io stesso, Dio, ne fui spaventato. Non ne potevo quasi sopportare l'idea. Ho dovuto perdere la pazienza eppure io sono paziente perché eterno. Ma non ho potuto più trattenermi. Era più forte di me. Io ho anche un volto di collera". Certo, la storia umana e le terre del nostro pianeta sono striate ininterrottamente di sangue.
Il massacro per ragion di Stato è una delle pratiche più collaudate ed è accompagnato da un lugubre corteo di repressioni, di torture, di carcerazioni, di limitazioni dei diritti civili e così via. Quel "tutti" del racconto matteano, applicato ai bimbi di Betlemme assassinati, concretamente può voler dire solo una decina di creature. Ma in un certo senso ha ragione la liturgia bizantina che li ha fatti diventare 14.000 o il calendario siriaco che li numera in 64.000 o le tradizioni che aggiungono la quota di 144.000 secondo Apocalisse 14, 1-5: infatti in queste vittime innocenti sono rappresentati tutti gli innocenti sterminati, i cui nomi non sono registrati negli archivi delle polizie di Stati repressivi o in quelli delle organizzazioni umanitarie, ma solo nel "libro della vita" di Dio.
L'evangelista Matteo, come è evidente in tutto il suo racconto dell'infanzia di Gesù, collega la strage di Erode a una citazione biblica proponendola come chiave interpretativa: in Cristo si ripete la vicenda dell'Israele antico, in questo caso l'esilio e la deportazione a Babilonia. Si evocano, infatti, le parole di Geremia, il profeta testimone di quei giorni tragici in cui il popolo ebraico lasciò alle spalle le rovine fumanti della città santa Gerusalemme e s'avviò verso Babilonia. Scrive, dunque, Matteo: "Allora si adempì quello che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più" (2, 18; vedi Geremia 31, 15). Come abbiamo già avuto occasione di sottolineare nel nostro precedente articolo natalizio, il profeta personifica Rachele, la sposa amata di Giacobbe, madre di Giuseppe, morta dando alla luce il suo secondogenito Beniamino proprio nell'area ove sarebbe poi sorta Betlemme.
Ora, Geremia riprende quell'evento drammatico e lo ripropone simbolicamente a Rama, una località ove furono concentrati gli Ebrei destinati alla deportazione a Babilonia. Su quella massa di persone spaurite il profeta vede aleggiare la figura statuaria e dolente di Rachele che ora non sta per dare alla luce una creatura, ma che vede, invece, avviati al massacro i suoi discendenti di secoli dopo. Matteo ripropone questa stessa rappresentazione facendo levare il pianto di Rachele sulla strage dei piccoli betlemiti eliminati da Erode. La storia del bambino di Betlemme è, quindi, fin dai suoi esordi accompagnata dal segno del sangue e della sofferenza, prefigurazione dell'approdo ultimo della sua vita terrena. Sono al riguardo suggestivi i versi del poeta francese Max Jacob, un ebreo convertitosi nel 1914 al cattolicesimo, fino a scegliere un'esistenza quasi monastica: "Diceva la Vergine lavando il suo Bambino: / "Bisognerà comprare un'altra spugna / e un catino di smalto che sia nuovo". / "Aspetta!", le risponde il nuovo Nato, / "la spugna servirà per il fiele, / e il catino smaltato per il sangue!"".
Ebbene, proprio l'atmosfera tesa creata dalla truce presenza e dai sospetti di Erode aveva già convinto Giuseppe a indirizzare la sua famigliola verso un altro orizzonte geografico. Ascoltiamo il racconto di Matteo, posto ancora una volta all'insegna di un annunzio angelico: la presenza dell'angelo ha lo scopo di mostrare che gli eventi che si stanno compiendo non sono una mera successione aggrovigliata di colpi di scena, ma appartengono a un disegno trascendente che si svolge in filigrana rispetto alla sequenza esteriore dei fatti. Scrive, dunque, l'evangelista: "Alzati, prendi con te il Bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il Bambino per ucciderlo! Giuseppe, destatosi, prese con sé il Bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall'Egitto ho chiamato mio figlio" (2, 13-15).
Si inizia, così, per Gesù la vicenda di profugo. Naturalmente il brano evangelico che abbiamo letto non ci offre nessuna indicazione circoscritta su questa evasione della santa Famiglia dal territorio erodiano verso l'Egitto, il paese classico di rifugio per perseguitati e che allora era sotto il controllo diretto di Roma - dal 30 avanti Cristo. Ricordiamo, ad esempio, che già in passato, Geroboamo, ribelle alla repressione poliziesca e alle pressioni fiscali di Salomone - X secolo avanti Cristo - era riparato in Egitto (1 Re 11, 40) in attesa di organizzare la rivolta che avrebbe condotto alla scissione del regno salomonico in due tronconi, quello meridionale di Giuda e quello settentrionale di Israele. Le poche parole del Vangelo, d'altra parte, devono essere collocate all'interno di un dibattito piuttosto acceso che gli studiosi da tempo hanno aperto sulla particolare qualità di queste pagine che stanno all'inizio dei Vangeli di Matteo e Luca e che sono chiamate "i Vangeli dell'infanzia".
È evidente, infatti, che la loro tonalità storica è ben diversa da quella del resto dei Vangeli. Essi sono veri e propri concentrati di storia e di cristologia: rappresentano cioè lo sforzo della Chiesa cristiana delle origini di disegnare un ritratto non solo delle vicende di Gesù bambino, ma del Cristo in tutta la sua pienezza pasquale partendo proprio dalla sua nascita. In pratica, nell'infanzia si condensa tutto l'itinerario e tutta la fisionomia del Cristo. Come si è già detto, in Matteo la guida per abbozzare questo ritratto è rappresentata soprattutto dalle citazioni dell'Antico Testamento che punteggiano ogni piccola scena. Anche nel nostro brano la finale è costituita appunto da un testo del profeta Osea: "Dall'Egitto ho chiamato mio figlio" (11, 1). Il pensiero perciò, più che alla concreta vicenda dell'esilio di Gesù, corre subito all'esodo di Israele: come il popolo dell'antica alleanza riparò in Egitto ove divenne schiavo e perseguitato e ritornò gloriosamente nella sua terra attraverso l'esodo, così il nuovo popolo incarnato da Gesù ripercorre le tappe di una perfetta e definitiva storia di salvezza e di libertà.
È difficile, perciò, estrarre da queste parole così scarne e da un evento avvolto in un velo teologico e biblico dati storici precisi sul percorso della santa Famiglia verso l'Egitto e sul suo soggiorno in quella terra - tra l'altro veniva considerata già come Egitto l'attuale fascia di Gaza, nell'area meridionale della Palestina. La questione è complessa e piuttosto delicata, perché il nucleo storico degli avvenimenti è profondamente immerso nell'interpretazione: l'evangelista non ha, infatti, come scopo quello di costruire una cronaca delle vicende vissute da Gesù bambino, ma piuttosto quello di presentare in primo piano il suo volto divino e umano. Detto questo seguendo il racconto evangelico di Matteo noi dovremmo fermarci e attendere le parole angeliche che spingeranno Giuseppe a intraprendere il ritorno dall'Egitto: "Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va' nel paese d'Israele, perché sono morti coloro che volevano la vita del bambino" (Matteo 2, 20).
In realtà il desiderio di colmare il silenzio dei Vangeli è stato forte fin dall'antichità, soprattutto da parte della fiorente comunità cristiana d'Egitto. Questi cristiani egiziani sono stati chiamati dagli arabi che invasero l'Egitto nel VII-VIII secolo col nome di copti che è una deformazione della parola greca Aigyptos (Egitto). Questi indigeni egiziani, secondo la tradizione, erano stati evangelizzati da san Marco e avevano costituito ad Alessandria un centro fondamentale di cultura e di fede - pensiamo a Clemente Alessandrino, a Origene, ai patriarchi di quella città - mentre nel deserto della Tebaide i monaci Paolo, Antonio, Pacomio avevano dato origine alla prima e mirabile diffusione del monachesimo. Al concilio di Calcedonia - un quartiere asiatico della moderna Istanbul - del 451 i copti si erano staccati dalla Grande Chiesa rifiutando la dottrina delle due nature - umana e divina - in Cristo e aderendo al "monofisismo" - un'unica natura in Cristo.
Da quel momento in avanti, nonostante le pressioni degli imperatori bizantini e le decimazioni dei musulmani soprattutto con la dinastia dei Mamelucchi - XIII-XVI secolo - essi mantennero orgogliosamente la loro identità, retti da un patriarca assistito da un consiglio di vescovi da lui eletti. Una presenza cattolica si manifestò solo nel 1700 con la conversione al cattolicesimo di Atanasio, vescovo copto di Gerusalemme, ma rimase sempre minoritaria. La storia dei cristiani copti è stata sempre travagliata, anche ai nostri giorni, nonostante che la costituzione egiziana del 1922 avesse riconosciuto il libero esercizio del culto per ogni comunità.
Famosi per i loro tessuti monocromi - nero o violaceo o porpora - e per quelli policromi - fino a dodici colori - i copti hanno avuto, fino al XIII secolo, una loro lingua, il copto appunto, articolata in quattro dialetti: di essi uno, il bohairico, permane ancor oggi nella liturgia, anche se la letteratura teologica è tutta in arabo. In copto furono fatte antiche versioni della Bibbia, preziose anche oggi per gli studiosi del testo della Bibbia; in copto Pacomio scrisse nel IV secolo le sue regole monastiche; in copto si conservarono le tradizioni "gnostiche", espressioni di un cristianesimo antichissimo, sofisticato e intellettualistico, un po' "impazzito" teologicamente, i cui testi sono venuti alla luce a partire dal 1945 nei pressi della città di Nag 'Hammâdî nell'Alto Egitto, attraverso una vicenda avventurosa e quasi incredibile. Di recente sono ritornate alla ribalta dell'interesse popolare col cosiddetto Vangelo di Giuda.
È alle antiche tradizioni cristiane egiziane che ci dobbiamo, allora, rivolgere per accontentare la nostra curiosità sulla fuga della santa Famiglia in Egitto. I testi a cui dobbiamo attingere sono i cosiddetti vangeli apocrifi, rifiutati dal Canone delle Sacre Scritture considerate dalla Chiesa come ispirate da Dio. Come è noto, essi sono simili a una foresta lussureggiante in cui, accanto a qualche albero lineare, proliferano piante mostruose, leggendarie e fantasmagoriche. Ci affidiamo una volta tanto al loro libero racconto, anche perché per questa via comparativa riusciamo a comprendere quanto più sobrie e solide siano le narrazioni evangeliche canoniche. Proviamo, dunque, a guardare nell'interno di questa foresta per rispondere al nostro interrogativo sulla fuga di Gesù in Egitto.
Ecco un brano tratto dai capitoli 18-20 del Vangelo dello Pseudo-Matteo, un apocrifo diffuso già nel IV-V secolo: "Giunsero davanti a una grotta per riposarsi, ma da essa improvvisamente uscirono molti draghi. Gesù allora scese dal grembo di sua madre e stette diritto sui suoi piedi davanti ai draghi: essi si misero ad adorare Gesù e poi se ne andarono via da loro... Così pure i leoni e i leopardi lo adoravano e si accompagnavano a loro nel deserto: ovunque andavano Giuseppe e Maria li precedevano, mostrando la strada e chinando la testa; prestavano servizio facendo le feste con la coda e lo adoravano con grande riverenza. Nel terzo giorno del viaggio, Maria, stanca per il troppo calore del sole del deserto, vedendo un albero di palma disse a Giuseppe: Mi riposerò all'ombra di questo albero. Maria guardò la chioma della palma e la vide piena di frutti e disse a Giuseppe: Desidererei prendere i frutti di questa palma. E Giuseppe: Mi meraviglio che tu dica questo vedendo quanto è alta la palma. Io penso piuttosto alla mancanza d'acqua. Allora il bambino Gesù che sereno riposava nel grembo della madre disse alla palma: Albero, piega i tuoi rami e ristora col tuo frutto mia mamma. A queste parole la palma piegò subito la chioma sino ai piedi della beata Maria e rimase inclinata attendendo l'ordine di rialzarsi da parte di Gesù. Costui le disse: Apri con le tue radici la vena d'acqua che è nascosta nella terra. E subito dalla radice cominciò a scaturire una fonte d'acqua limpidissima, fresca e chiara".
Come si vede, siamo davanti a un mondo pittoresco in mezzo al quale qualche studioso tenta di scovare almeno un frammento di verità storica ma con risultati di solito molto esili. È il caso, ad esempio, di un saggio di Otto Friedrich August Meinardus pubblicato al Cairo nel 1965, dal titolo significativo In the Steps of the Holy Family from Bethlehem to Upper Egypt - "Sui passi della Santa Famiglia da Betlemme all'Alto Egitto". In esso si intravede lo sforzo continuo di isolare in questa serie di racconti e di tradizioni popolari una trama attendibile per la vicenda della fuga in Egitto. Tentiamo anche noi la ricostruzione di questa mappa, ben sapendo che ci affidiamo alle sabbie mobili della fantasia devota di tradizioni popolari, innamorate del meraviglioso e del miracoloso. I copti sanno anche il giorno della partenza per l'Egitto: è il primo giugno, data festeggiata solennemente nella loro liturgia. Scartata la "via del mare" che costeggiava il Mediterraneo, via più breve, ma anche più pericolosa perché costellata da posti di blocco della polizia erodiana prima ed egiziana poi - ma su questo le tradizioni non sono d'accordo - Giuseppe e Maria con Gesù puntano al percorso inverso dell'antico esodo ebraico. Si indirizzano a Oriente verso il Giordano e il Mar Morto e là, sull'attuale confine israelo-giordano, compiono la prima sosta.
Ora in quel luogo sorge il monastero greco-ortodosso di San Gerasimo, una sorta di fortezza isolata nel deserto della fossa del Giordano e del Mar Morto, il punto più basso della superficie terrestre - fino a 400 metri sotto il livello del mare. San Gerasimo, a cui è dedicato il monastero, era un monaco palestinese morto nel 475, la cui festa ricorre il 5 marzo. Fondatore di una grande laura (monastero greco) in questa regione, si dice che durante tutta la quaresima avesse come unico alimento l'eucaristia. Nel 1186 un monaco pellegrino russo nel suo diario di viaggio ricordava che questo luogo era detto in greco Kalamonia, cioè "buona residenza" della santa Famiglia. Nella chiesa una grotta ricorda l'ipotetico soggiorno dei tre alla partenza per l'Egitto o, secondo altri, al rientro in Palestina dopo l'esilio egiziano. Dal 1700 qui si indirizza un flusso di pellegrini: sono venuti alla luce nell'interno del monastero icone antiche, ex voto, oggetti liturgici preziosi, segno di una fede tradizionale e secolare. Da qui l'obiettivo dei racconti apocrifi si sposta subito in Egitto, con un balzo di migliaia di chilometri. Ci troviamo subito nella regione del Delta del Nilo a Bastûs, l'antica Bubasti dedicata alla dea dal viso di gatto, a una novantina di chilometri a nord del Cairo. Nelle vicinanze c'è Al-Mahamma, in arabo "il bagno", perché una sorgente miracolosa sarebbe qui sprizzata dal deserto per permettere a Maria di fare il bagno al Bambino. Ma i prodigi sono solo all'inizio. Col loro gusto naïf i vangeli apocrifi si abbandonano ben presto ad un'esplosione pirotecnica di miracoli. I tre intanto giungono nel territorio dell'attuale Cairo, a Matarieh, ora quartiere settentrionale della capitale egiziana - verso Eliopoli.
Qui ancor oggi in mezzo alle case si leva un sicomoro protetto da un muretto, piantato nel 1670 là dove si ergeva un altro albero antichissimo. Una fonte, Ain Shams, che alimenta un piccolo giardino, è legata, con l'albero, a una sosta della santa Famiglia. In mezzo a pozzi d'acqua salmastra Gesù bambino aveva, infatti, fatto sgorgare una sorgente d'acqua dolce. Ma lasciamo la parola al Vangelo arabo dell'infanzia, un altro apocrifo: "Gesù fece sgorgare una sorgente nella quale la signora Maria lavò la sua camicetta. Il balsamo di quella regione deriva dal sudore del Signore Gesù che essa vi sparse" (capitolo 24). Si spiega, così, anche la presenza dell'albero che anticamente doveva essere una pianta di balsamo. A questo punto ci viene incontro la stessa tradizione musulmana, secondo la quale in questo luogo Gesù fece spuntare alberi di balsamo che guarivano dal morso dei serpenti e da ogni genere di malattia.
Non bisogna, infatti, dimenticare che nel Corano la "sura" XIX è integralmente dedicata a Maria, la madre di Gesù ('umm 'Isâ), l'unica donna chiamata per nome nell'intero libro sacro e celebrata come Sayyidunâ, cioè "Nostra Signora". La descrizione del parto di suo figlio Gesù comprende appunto una palma al cui tronco essa s'appoggia, mentre una voce celeste esclama: "Non rattristarti perché il Signore ha fatto sgorgare un ruscello ai tuoi piedi. Scuoti verso di te il tronco della palma e questo farà cadere su te datteri freschi e maturi. Mangiane dunque e bevi e asciuga i tuoi occhi" (versetti 23-25).
Ma è nel cuore del Cairo che i tre profughi sempre secondo queste tradizioni leggendarie trovano una base più stabile. Ed è proprio qui anche il cuore del mondo copto. Infatti il quartiere noto oggi come Vecchio Cairo - che corrispondeva all'area della guarnigione romana detta Babilonia - è ora popolato di chiese copte - Santa Barbara, la Vergine, San Sergio, San Giorgio, Chiesa Sospesa. È da questo nucleo urbano, che tra l'altro conserva anche un'antica sinagoga, che si è sviluppata lungo il Nilo la città del Cairo. Entriamo, allora, idealmente in questo delizioso quartiere e indirizziamoci alla chiesa di Abu Sargah (San Sergio), la più antica chiesa cairota, edificata nel 425 in onore dei santi Sergio e Daco, due soldati martiri, e ricostruita nell'XI secolo.
Una porticina circondata da arazzi copti, segno della devozione popolare, ci introduce nell'atrio che immette nella chiesa in cui subito appaiono le caratteristiche dell'arte copta debitrice di quella sira con le sue croci a raggi, e dell'arte araba coi suoi motivi poligonali e a stella. Donne e uomini durante le celebrazioni liturgiche sono separati tra loro, come separata, attraverso la tradizionale iconostasi, è l'area sacra del culto eucaristico chiamata col termine ebraico heikal, che la Bibbia usa per indicare l'aula santa del tempio di Gerusalemme alla quale potevano accedere solo i sacerdoti. Le navate sono divise da due file di sei colonne che evocano i dodici apostoli, fondamenti della Chiesa: una colonna priva del capitello e della croce ricorda Giuda, il traditore. Scendiamo nella cripta che è costituita da una grotta, in passato allagata da luglio a settembre durante le piene del Nilo e sostenuta da colonne a capitelli corinzi. L'antica tradizione copta ha da sempre venerato questa grotta come il rifugio nel quale si sarebbe svolto il soggiorno più lungo della santa Famiglia in Egitto.
Ma il desiderio di far benedire da Gesù bambino tutto il territorio egiziano segnato dai vari centri della cristianità copta fa partire Giuseppe e Maria col loro figlio per una lunga navigazione sul Nilo. Eccoli a 200 chilometri a sud del Cairo ad At-Tair, il Monte degli Uccelli, presso l'attuale Samalut. Sulla riva destra del Nilo si ergeva la chiesa di Nostra Signora della Palma: qui la barca della santa Famiglia minacciava di incastrarsi e di sfracellarsi contro uno sperone roccioso, ma il Bambino, alzate le mani, aveva bloccato l'imbarcazione che aveva potuto proseguire tranquillamente il suo corso verso Ermopoli, a 260 chilometri a sud del Cairo. Centro finanziario romano, ove si raccoglievano le tasse, dotata di grandi palazzi e templi, Ermopoli non poteva non essere sfidata dal Signore dei poveri e della verità. Ma lasciamo ancora una volta la parola al Vangelo dello Pseudo-Matteo: "Entrarono in un tempio d'Egitto nel quale vi erano 355 idoli ai quali ogni giorno erano tributati onori divini. Avvenne che, entrata Maria con Gesù, tutti gli idoli si prostrarono a terra, sicché giacevano tutti con la faccia a terra interamente rovinati e spezzati" (capitoli 22-23).
Lasciata Ermopoli, la discesa nell'Alto Egitto prosegue sino nei pressi dell'attuale città di Assiut, ad Al-Moharraq, a 350 chilometri dal Cairo. Già Teofilo di Alessandria (376-403) parlava di questa sosta egiziana, secondo lui avvenuta sei mesi prima del nuovo monito notturno dell'angelo per il rientro in Israele. A questo vescovo alessandrino Maria stessa in visione aveva rivelato, secondo la tradizione, la grotta esatta del rifugio. Attorno ad essa Pacomio, il grande maestro del monachesimo egiziano, aveva fondato un monastero divenuto ben presto meta di pellegrinaggi. Distrutto e ricostruito più volte nei secoli, il monastero attuale - che è del 1966 - si leva solenne in un'oasi verdeggiante ed è ancor oggi popolato da molti monaci. La chiesa dedicata a Maria conserva nel suo interno la grotta del soggiorno della santa Famiglia, tutta tappezzata di pannelli di legno incisi a croci copte e incrostati di avorio.
A questa località il Vangelo arabo dell'infanzia (capitolo 23) riserva la più sensazionale avventura egiziana di Gesù bambino. Nella notte, alla ricerca di un rifugio, Giuseppe e Maria sono assaliti in questa regione infestata da briganti: gli assalitori sono due banditi, Tito e Dumaco. Tito si commuove subito di fronte a questa povera famiglia, colpito dalla tenerezza della madre e dallo splendore del bimbo. Per poterli salvare dalla rapacità del socio è pronto ad offrire 40 dracme dei suoi "risparmi" a Dumaco perché lasci indenne la famigliola. Come è facile sospettare, i due saranno i compagni di Gesù nella crocifissione, condannati con lui a morte a Gerusalemme dopo varie vicende, e Tito altri non sarà che il buon ladrone a cui Cristo spalanca il Paradiso.
Una storia di sorprese, quindi, di colpi di scena, di viaggi avventurosi ai limiti delle stesse possibilità materiali, una storia ben lontana dalla narrazione evangelica così scarna, fatta nel testo originale greco di sole 78 parole, compresi gli articoli e le particelle. Una storia, invece, ben più modesta e amara nella realtà effettiva vissuta dalla sacra Famiglia, affine a quella di migliaia di profughi che devono lasciare alle loro spalle la terra ove sono nati, ove hanno gioito, amato e sofferto per indirizzarsi verso un orizzonte oscuro e ignoto. In lontananza, come per Maria e Giuseppe, si ode sempre il grido degli innocenti sterminati, si vede il sangue versato, si percepisce la brutalità della repressione e la mostruosità del potere assoluto. Gesù appare, quindi, nella nostra storia su uno sfondo di terrore e miseria e tutta la sua esistenza porterà questo sigillo. Il modello che il cristiano ha di fronte fin dagli inizi del Vangelo non è quello di un cittadino ben sistemato nei palazzi di Gerusalemme o quello di un vincitore. È vera per lui l'autodefinizione che Israele si dà nell'Antico Testamento: "Noi siamo stranieri e pellegrini come i nostri padri" (1 Cronache 29, 15). E c'è un ammonimento particolarmente intenso che l'autore della Lettera agli Ebrei indirizza ai cristiani: come Cristo nato profugo, vissuto come nomade e morto "fuori della porta della città, così anche noi usciamo dall'accampamento e andiamo verso di lui perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura" (13, 12-14).
Abbiamo sopra evocato una pagina del poemetto di Péguy dedicato al Mistero dei Santi Innocenti. Vorremmo, in finale, ritornare a quell'opera per riproporre una nuova presenza di queste piccole vittime. Il poeta, infatti, le descrive nella gloria, ma il loro paradiso non è simile a quello dell'Apocalisse ove si celebrano grandiose liturgie celesti in un orizzonte abbagliante di luce e di armonie. Il paradiso che Péguy ridona ai piccoli innocenti martiri è ben più adatto ai loro giochi, alla loro semplicità e libertà di bimbi. Essi non sono capaci di stare ritti e solenni con le palme del martirio in mano e le corone sul capo. Quei piccoli, infatti, giocano con la loro palma usandola come bacchetta per i cerchi delle corone e Dio partecipa alla loro festosa allegria perché anche il Figlio suo fu bambino e amò i piccoli e i puri di cuore. Ecco, dunque, le parole del poeta di Orléans che compose questo poemetto due anni prima di morire, nel 1914, sul fronte della battaglia della Marna a soli 41 anni. "Tale è il mio paradiso, dice Dio. / Il mio paradiso è ciò che c'è di più semplice. / Niente è più spoglio del mio paradiso. / Ai piedi dell'altare stesso / questi semplici bambini giocano con la loro palma e le loro corone di martiri. / Penso che giochino al cerchio dice Dio e forse ai cerchietti. / e la palma sempre verde serve loro, / a quanto sembra, da bacchetta".

(©L'Osservatore Romano - 27-28 dicembre 2007)

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