2 luglio 2008

Il confronto con le culture e le religioni secondo i Padri della Chiesa: "La verità si dimostra mettendola in pratica" (Mons. Amato per l'Osservatore)


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Il confronto con le culture e le religioni secondo i Padri della Chiesa

La verità si dimostra mettendola in pratica

di Angelo Amato

Una iniziale proposta epistemologica relativa al dialogo religioso consiglia di attuarlo percorrendo due binari ben distinti tra di loro, dal momento che hanno finalità diverse non strettamente complementari. C'è il dialogo della carità, che tende a costruire una civiltà umana riconciliata e pacifica. C'è il dialogo della verità, che mira invece a discernere la verità delle singole credenze religiose.
Il dialogo della carità si può manifestare anzitutto nel dialogo della vita, mediante il rispetto dell'interlocutore come persona appartenente alla stessa umanità e quindi degna di accoglienza, di stima e anche di amicizia. Tale dialogo si può attuare, in secondo luogo, nel dialogo dell'azione, che implica la collaborazione tra le religioni del mondo per il raggiungimento della pace tra le nazioni, per la difesa della natura e delle sue leggi, per la protezione della vita soprattutto dei più deboli, per la solidarietà nei beni della terra, per la tutela della libertà di ogni persona umana, soprattutto della libertà religiosa, per l'affermazione della giustizia, dell'uguaglianza, della fraternità, per il superamento degli aspetti negativi della globalizzazione, per l'eliminazione della povertà e della fame nel mondo. Come si vede, il dialogo della carità apre un orizzonte sconfinato come è sconfinata la carità di Dio, infusa nei nostri cuori.
La seconda articolazione del dialogo interreligioso è il dialogo della verità, che implica la libertà di confrontarsi sui contenuti delle proprie convinzioni religiose, nel rispetto dell'altrui coscienza e nel riconoscimento della sincerità dell'interlocutore. Si tratta di un dialogo difficile che non mira a una religione universale con un minimo comune denominatore, ma che spinge gli interlocutori a esplicitare le caratteristiche essenziali delle loro credenze religiose. Si tenga presente che tutte le grandi religioni, e non solo il cristianesimo, avanzano la pretesa di verità e di universalità. Per questo il dialogo della verità è indispensabile per un discernimento oggettivo della realtà delle cose.
Presenterò alcune riflessioni solo su questo dialogo della verità, premettendo che si tratta di accenni sommari, dal momento che la Chiesa ha una lunghissima esperienza di questo dialogo. Parto da un'affermazione della Dominus Iesus che dice: "Nella pratica e nell'approfondimento teorico del dialogo tra la fede cristiana e le altre tradizioni religiose sorgono domande nuove, alle quali si cerca di far fronte percorrendo nuove piste di ricerca, avanzando proposte e suggerendo comportamenti che abbisognano di accurato discernimento" (n. 3).
Credo che sia ora di superare le teorie dell'esclusivismo, dell'inclusivismo e del relativismo, con le loro ulteriori specificazioni, e puntare invece su una duplice direzione. Anzitutto occorre evitare un dialogo interreligioso generico, che non tenga conto della specifica identità di ogni interlocutore.

Il dialogo interreligioso, come in modo analogo il dialogo ecumenico, esige un confronto bilaterale, in cui gli interlocutori possano essere considerati nella loro precisa originalità e così manifestare la loro "verità".

In secondo luogo, occorre che il dialogo interreligioso della verità punti sui contenuti essenziali delle diverse credenze e quindi sulla loro visione di Dio (se vi fanno riferimento), dell'uomo e del cosmo. Il dialogo della verità deve confrontarsi in concreto sulle convinzioni religiose, etiche, educative, politiche e culturali, in una parola, sul nocciolo duro dell'identità religiosa dell'interlocutore. Occorre, quindi, evitare confronti generici, fondati solo su analisi fenomenologiche superficiali, per aprirsi invece a un incontro bilaterale aperto e franco sulle rispettive proposte religiose in relazione alla verità su Dio, sull'uomo, sul cosmo. Questo suppone una buona e articolata conoscenza della propria fede e anche una altrettanto completa informazione sulle credenze altrui. Tale dialogo della verità non si può improvvisare, senza il rischio di banalizzare e forse anche tradire le proprie e altrui convinzioni.
Certo, in una cultura come quella postmoderna, in cui prevale l'opinione e nella quale la verità sembra essere un miraggio evanescente, il dialogo della verità appare come una sfida controcorrente. Questo implica un certo cambiamento nella dinamica del dialogo interreligioso.

La lezione di Benedetto XVI a Ratisbona può essere considerata come l'inizio di un nuovo atteggiamento, che esce dagli schemi ristretti di un dialogo diplomatico disattento alle conseguenze di un dialogo virtuale avulso dalla realtà, per entrare nel vivo di un dialogue de vérité et de vie, che mette in gioco l'esistenza stessa degli interlocutori, nella globalità e nella complessità del loro progetto di realizzazione umana e religiosa.

Ovviamente - e non poteva essere diversamente - le mie considerazioni partono da un quadro di riferimento cristiano e sono accompagnate da constatazioni storiche e da riflessioni filosofiche e teologiche. Per rispondere a chi ci domanda ragione della speranza cristiana, occorre far riferimento alla verità. San Giovanni infatti afferma: "Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera" (Giovanni, 21, 24).
Il dialogo è un genere letterario di lunga tradizione, presente nella filosofia greca e anche nei Vangeli. Nel confronto interreligioso, il cristianesimo antico ha dovuto affrontare alcune sfide, correlate tra di loro e attuali ancora oggi: la giustificazione razionale della fede, la questione della sua verità e la possibilità della sua attuazione nell'esistenza concreta dei cristiani.
Giustino (secondo secolo), nel suo dialogo con l'ebreo Trifone, considera sia l'Antico Testamento sia la filosofia greca come due strade che guidano a Cristo, al Lògos: "Ecco perché - commenta Benedetto XVI in una sua catechesi - la filosofia greca non può opporsi alla verità evangelica, e i cristiani possono attingervi con fiducia, come a un bene proprio".
Tertulliano (ii-iii secolo) parla del cristianesimo come vera religio veri Dei distinta dalla romana religio.
Anche Lattanzio (iii-iv secolo) considera la fede cristiana come la vera religio veraque sapientia.
Tertulliano individua le differenze tra la nuova religione e le principali correnti filosofiche nel trionfo della carità dello Spirito, che alla violenza dei persecutori oppone il sangue, la sofferenza e la pazienza dei martiri. Da buon apologista egli avverte anche l'esigenza di una comunicazione positiva del cristianesimo: per questo egli adotta il metodo speculativo per illustrare i fondamenti razionali del dogma cristiano. Li approfondisce in maniera sistematica, a cominciare dalla descrizione del "Dio dei cristiani": "Quello che noi adoriamo - attesta l'apologista - è un Dio unico". E prosegue, impiegando le antitesi e i paradossi caratteristici del suo linguaggio: "Egli è invisibile, anche se lo si vede; inafferrabile, anche se è presente attraverso la grazia; inconcepibile, anche se i sensi umani lo possono concepire; perciò è vero e grande!" (Apologetico, 17, 1-2)".
I Padri dovettero fare fronte alle numerose critiche anticristiane degli scrittori e dei filosofi pagani, e soprattutto del filosofo neoplatonico Porfirio (sec. iii), le cui considerazioni erano tanto chiare quanto oscure erano quelle di Plotino, suo maestro. Il suo anticristianesimo ha una triplice motivazione. Anzitutto il rigetto delle Scritture, soprattutto dei Vangeli, dal momento che gli evangelisti sarebbero stati dei commedianti e degli impostori e avrebbero praticato la magia, ingannando con essa la gente ignorante. Porfirio nega poi l'incarnazione e la risurrezione della carne in quanto inconciliabili con il dualismo platonico della separazione assoluta tra l'intelligibile e il sensibile, quest'ultimo considerato cattivo in sé. Infine, contesta al cristianesimo ogni suo carattere di novità, dal momento che la necessità della conversione, la pratica delle buone opere verso il prossimo, il rispetto di tutte le creature sono valori difesi anche dalla sapienza greca.
Questi argomenti saranno ripresi in seguito dall'imperatore Giuliano, nel suo Contra Galilaeos. L'imperatore apostata era scandalizzato per la pretesa di verità avanzata dai cristiani nei confronti delle altre religioni. Per lui ogni popolo dovrebbe essere libero di venerare le proprie divinità, espressioni sempre parziali del divino trascendente. Sulla stessa linea si poneva il senatore Simmaco (iv secolo), nella sua difesa del pluralismo religioso e del relativismo, ritenendo ugualmente validi sia il culto alla dea Vittoria sia il culto cristiano.
Da questi cenni si nota subito l'offensiva massiccia e argomentata contro il cristianesimo da parte della cultura del tempo. E la Chiesa attraverso i suoi pastori e i suoi uomini d'ingegno rispose in modo altrettanto fermo e articolato.
Ad esempio, nella risposta di sant'Ambrogio a Simmaco si afferma che il mistero di Dio lo può insegnare solo Dio e non l'uomo, che non conosce nemmeno se stesso: "[Simmaco] dice che non ci può essere una sola via per accedere a così grande mistero. Ciò che voi ignorate noi lo conosciamo dalla voce stessa di Dio. E ciò che voi cercate per congetture, noi lo apprendiamo dalla sapienza stessa e dalla verità di Dio" (Epistole, 18, 7-8).
Anche Arnobio di Sicca (iii-iv secolo) scrisse un'apologia del cristianesimo, Adversus nationes, la cui linea unitaria è data dalla passione per la verità nel confronto serrato tra la fede cristiana e il politeismo pagano, da lui ben conosciuto e che prima era stato il suo riferimento esistenziale. Egli sottolinea la capacità della ratio di giudicare rettamente e di cogliere e accogliere la verità cristiana. Il suo metodo incentrato sul dubbio-certezza è espressione dialettica della falsità-verità.
Sulla questione della vera religione i cristiani ammettono che il mistero di Dio è inaccessibile con le sole forze umane. Ma la rivelazione di Cristo è la parola stessa di Dio che svela se stesso con sapienza e verità. Di qui la conseguenza che solo la religione cristiana è la vera religione. Essa non è una gnosi, e cioè una salvezza per conoscenza, ma è un fatto storico, il mistero salvifico dell'incarnazione, passione, morte e risurrezione di Cristo, Figlio di Dio, mediante il quale viene offerta all'umanità la comunione con Dio, come dono di vita e di verità.
Sant'Agostino, nel trattato De vera religione, intende dissuadere il suo benefattore Romaniano dal manicheismo e condurlo alla Chiesa. Nell'opera si criticano i culti pagani e si presenta la vera religione, come adorazione del Dio Uno e Trino.
Significativo è il contributo del misterioso scrittore, conosciuto come Dionigi Areopagita (vi secolo), che, sull'esempio di Paolo, pose il Vangelo in dialogo con la sapienza greca. Il suo intento era la ricerca della verità: "Non vorrei fare delle polemiche - egli afferma in una sua epistola - parlo semplicemente della verità, cerco la verità".
Questo suo atteggiamento va al cuore del vero spirito di ogni dialogo: la ricerca della verità. Per questo Dionigi - commenta Benedetto XVI nella catechesi del 14 maggio 2008 - ci "appare come un grande mediatore nel dialogo moderno tra il cristianesimo e le teologie mistiche dell'Asia". E, a proposito del dialogo interreligioso, il Papa aggiunge: "Si vede così che il dialogo non accetta la superficialità. Proprio quando uno entra nella profondità dell'incontro con Cristo si apre anche lo spazio vasto per il dialogo. Quando uno incontra la luce della verità, si accorge che è una luce per tutti; scompaiono le polemiche e diventa possibile capirsi l'un l'altro o almeno parlare l'uno con l'altro, avvicinarsi".
I Padri della Chiesa furono quindi attenti alla giustificazione razionale del cristianesimo, nel confronto irenico ma talvolta anche polemico con altre concezioni filosofiche e religiose, facendo uso della recta ratio come via alla verità divina. Sulla base di questa giustificazione razionale, essi mostrarono anche l'esemplarità esistenziale dei cristiani. Non si spiegherebbe, infatti, la straordinaria e rapida diffusione del cristianesimo nel mondo antico, che riuscì a integrare filosofie profonde e a superare religioni ritenute allora invincibili. Certo, grande fu la dedizione missionaria degli apostoli, soprattutto di Paolo di Tarso, ma un contributo innegabile fu dato dal carattere pratico del cristianesimo, diventato subito una religione per tutti.
"Cristiano", per Ignazio di Antiochia, era colui che viveva una vita in armonia con la sua fede.
Per Origene, la verità del cristianesimo la si provava mettendola in pratica. La vita cristiana, infatti, non è solo interiorità, ma si manifesta nella condotta e nel linguaggio dei fedeli.
Per Giovanni Crisostomo, il cristiano "deve essere riconosciuto ovunque per il suo modo di camminare, di guardare, per tutto il suo comportamento esteriore e per la sua stessa voce" (Omelia, 4, 7).
Di fronte alla critica di Celso, secondo il quale la morale cristiana non aveva nulla di originale, Origene non protestò, spiegando anzi che la presunta mancanza di novità nell'etica cristiana dipendeva dal fatto che Dio aveva voluto fornire criteri etici comuni per tutta l'umanità, per far sì che il verdetto del giudizio finale si basasse su criteri veramente uguali per tutti.
Due sono gli elementi che concernono l'essenziale compimento del pensiero antico da parte del cristianesimo. Anzitutto, la verità cristiana non è una verità solo per esperti, ma per tutti; non è una verità solo teorica, ma anche pratica; non è una verità solo per l'accademia ma anche per la vita concreta. Si tratta della semplicità cristiana, lontana dalle affabulazioni gnostiche. Non solo uomini sapienti ma anche persone semplici hanno contribuito a diffondere il cristianesimo.
Spesso i Padri chiamano i cristiani "veri filosofi". Girolamo si chiedeva: "Chi legge Aristotele? Quanti conoscono Platone o i suoi libri, o perlomeno il suo nome? (...) Della nostra gente semplice e dei nostri pescatori, invece, tutti ne parlano, ne risuona il mondo intero. Perciò bisogna proporre le loro parole semplici in un linguaggio altrettanto semplice".

In secondo luogo, la semplicità cristiana non è semplicioneria o superficialità, ma docta ignorantia, in analogia con l'ignoranza socratica. Essa indica una conoscenza più alta che supera la dialettica dei filosofi e dei retori e che riesce a raggiungere tutti.

La pretesa della verità e dell'universalità del cristianesimo è quindi insita fin dall'inizio nella sua identità, testimoniata non tanto da ragionamenti cavillosi ma da una pratica di vita umana leggibile ed esemplare. E tale verità fu diffusa non con la coercizione ma con la convinzione. Alla base dell'annuncio cristiano c'è il principio di libertà.

(©L'Osservatore Romano - 3 luglio 2008)

Bellissimo contributo di Mons. Amato che chiude idealmente il ciclo sui Padri della Chiesa.
R.

2 commenti:

mariateresa ha detto...

Prima di leggere attentamente, devo farti i complimenti per la scelta dell'immagine, cara Raffaella.La classe non è acqua.

Raffaella ha detto...

Grazie, ho sfogliato un po' di immagini e questa e' la piu' bella :-)
E non dimentichiamo che raffigura San Giovanni Crisostomo...
R.