15 settembre 2008

Aldo Schiavone: "Quei precetti che ci dividono". Il progetto ambizioso del Papa: riconciliare Chiesa e modernità, fede e ragione


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Su segnalazione della nostra Alessia leggiamo questo interessantissimo editoriale di Aldo Schiavone per "Repubblica".
R.

QUEI PRECETTI CHE CI DIVIDONO

ALDO SCHIAVONE

Un Pastore di dotti inquieti, più che di poveri di spirito o di pecorelle semplici e smarrite. Ancora una volta, con il suo discorso parigino al Collège des Bernardins, il Papa ha rivelato la vocazione più autentica del suo pontificato: toccare le menti prima dei cuori, e tessere la trama di un grande disegno teologico che possa riconciliare la Chiesa con la modernità, la fede con la ragione.

Un programma ambizioso, che merita molto rispetto, non solo per la forza intellettuale – assolutamente d´eccezione – che vi traspare, ma anche, vorrei dire, per la limpidezza e l´altezza dell´ispirazione morale che lo attraversa.

Un duplice pericolo incombe su di noi, e rischia di stringere in una tenaglia la nostra civiltà, dice papa Ratzinger: da un lato "l´arbitrio soggettivo", dall´altro il "fanatismo fondamentalista".
Credo si debba essere completamente d´accordo con lui. Per un verso esiste davvero, e sembra rischiosamente dilatarsi – ce ne rendiamo conto ogni giorno – quel che potremmo definire come una sorta di invadente atomismo etico, di frammentazione capricciosa delle coscienze, indotta dai consumi, dal mercato e dalla frenesia acquisitiva: la pretesa di fare del pensiero di ciascuna individualità, dell´inclinazione di ogni singola volontà particolare, la regola dell´universo, in una cieca e indeterminata moltiplicazione di vedute, di desideri, di bisogni. Sul versante opposto, si addensa in modo sempre più minaccioso la pulsione sopraffattrice di chi è spinto a brandire il proprio credo religioso come un´arma assoluta; l´intransigenza estremista che trasforma il sentimento della verità in pratica dell´intolleranza, della dominazione e della cancellazione dell´altro. La strada di salvezza che il Papa suggerisce insiste su un punto cruciale: il nesso fra "legame" e "libertà".
La libertà è un valore da opporre contro ogni pretesa fondamentalista (egli sembra dire); ma il suo esercizio, per non scadere nell´"arbitrio", deve accettare un vincolo, un legame appunto, (d´"intelletto e d´amore", egli scrive), che deriva dal rapporto con Dio e con la sua parola, e dunque con un Assoluto trascendente, rivelatosi a noi. E qui la questione si complica. Il mondo che sta prendendo forma sotto i nostri occhi ha bisogno come non mai di etica e di princìpi. Ne ha bisogno per fronteggiare il debordare onnivoro dell´intreccio fra potenza tecnologica e globalizzazione capitalistica; ne ha bisogno per rendere trasparente una rete planetaria di poteri politicamente irresponsabili, che decidono nell´ombra sul nostro destino; ne ha bisogno per ristabilire l´orizzonte di una nuova eguaglianza in cui possa riconoscersi il futuro della nostra specie; ne ha bisogno per difendere il patrimonio di differenze e di diversità ereditate dalla nostra storia, e messe in pericolo dal lato oscuro e "normalizzante" dell´unificazione planetaria; ne ha bisogno per sottrarre al mercato l´esclusività della mediazione fra tecnica e vita. In questo senso, la battaglia della Chiesa può diventare, deve diventare, la nostra battaglia. Le cose si fanno incerte quando passiamo invece a determinare gli specifici contenuti prescrittivi di questi princìpi e di questi valori, e la Chiesa pretende di imporne alcuni – per esempio sulla famiglia, sulla vita, sulla morte, sul ruolo della donna – come riflesso immediato dell´Assoluto, eco diretta e immutabile della parola di Dio.
Così accade qualcosa di grave, che compromette la possibilità di una nuova alleanza tra fede e ragione, perché vi insinua dentro una irrimediabile asimmetria. Mentre la libertà opera sul piano della storia umana e la sua forma concreta quindi può essere di continuo messa in discussione, il legame invece – la cui chiave è nelle mani della Chiesa – avrebbe dal canto suo una diretta origine soprannaturale, cui non resterebbe che inchinarsi una volta per tutte. Si provoca in tal modo una frattura profonda, ed è facile rendersi conto come sia proprio l´opposto atteggiamento verso questa scissione – il suo radicale rifiuto, o la sua acritica enfatizzazione – a dare origine sia all´"arbitrio soggettivo", sia al "fanatismo fondamentalista". Sono entrambe risposte sbagliate che cercano di sciogliere sempre il medesimo nodo. C´è dell´altro, però.
Una parte importante del discorso del Papa è dedicata ad un´esaltazione senza riserve e assai originale della totale storicità del cammino dell´uomo. Tutto è storia, dice il Pontefice, e la stessa parola di Dio non si manifesta se non attraverso la parola dell´uomo, che è una parola affidata alla storia ("Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia", leggiamo in una frase). E´ così. Ma il Papa dice ancora di più. Nel passaggio più bello e più denso di tutto il suo testo, seguendo un percorso filologicamente e concettualmente impeccabile, egli arriva a supporre che uno dei punti più alti della rassomiglianza fra uomo e Dio proclamata nelle Scritture si trovi nell´idea e nell´esperienza del lavoro.

Come l´uomo, anche "Dio lavora" (scrive letteralmente il Papa), e "così il lavorare degli uomini doveva apparire (ai monaci medievali) come un´espressione particolare della loro somiglianza con Dio, e l´uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all´operare di Dio nella creazione del mondo".

Ma il lavoro – qualunque lavoro noi si possa concepire – non è altro se non trasformazione: sia di chi lavora, sia dell´oggetto del suo lavoro. E trasformazione vuol dire movimento, tensione; ancora una volta: storia. Un Dio che lavora per amore (che "continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini" scandisce il Pontefice) è allora un Dio che ha introdotto dentro di sé la storia, che in qualche modo – per amore – ha accettato di farsi Egli stesso storia. Siamo su una soglia vertiginosa. Ebbene, Santità, varchiamola tutti insieme! Ma se è così, se la storia, la trasformazione, il mutamento arrivano persino a lambire la persona di Dio, come – come – possiamo credere che nella storia umana vi siano tuttavia regole positive, specifiche prescrizioni di condotta, che non riflettano altro se non un cammino, un´approssimazione, una ricerca, un lavorare per raggiungere una meta – il ricongiungimento con Lui? Come credere che ogni norma – per esempio quella sull´indissolubilità del matrimonio, o quelle sulla "sacralità" della famiglia eterosessuale, e così via – non sia altro se non figlia comunque di questa fatica, di questo sforzo di avvicinamento, e possa e debba essere sostituita da precetti migliori e più adeguati, sulla strada di quell´emancipazione dell´umano dalla sua naturalità, che è la sola strada che ci avvicina davvero al divino? E non è forse proprio su questo punto – un´uscita responsabile ed eticamente forte dell´uomo dalla sua minorità "di natura" – che scienza e fede possono ritrovarsi nel tempo che ci aspetta?

© Copyright Repubblica, 15 settembre 2008 consultabile online anche qui.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

le sottolineature in neretto sono tue? sono un po' fastidiose, cmq non vorrei ripetermi ma otiimo lavoro

Raffaella ha detto...

Si', sono mie...
R.