23 settembre 2008
Malati terminali aria nuova in Chiesa (Garelli)
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Malati terminali aria nuova in Chiesa
FRANCO GARELLI
C'è indubbiamente del movimento nelle posizioni della Chiesa italiana sui temi della vita e della bioetica, dopo anni di tensioni e di incomprensioni tra le «posizioni cattoliche» e le «ragioni dei laici».
Nella sua prolusione al Consiglio permanente della Cei, il presidente dei vescovi non soltanto «apre» al testamento biologico, non soltanto ammette l'urgenza e invita il Parlamento a varare una legge sul fine vita, ma anche riconosce che si deve accettare la volontà dei malati terminali, quando essa sia espressa in modo certo e esplicito e quando tutti gli sforzi per tenere in vita una persona siano stati perseguiti.
Oltre a ciò, un ruolo importante viene riconosciuto anche ai medici, che hanno un rapporto fiduciario con i pazienti, e che sono chiamati a vagliare «gli atti concreti e a decidere in scienza e coscienza». Se non è una rivoluzione, poco ci manca, per una materia oggetto in questi anni di grande contesa pubblica e di forte lacerazione delle coscienze.
Ovviamente, l'apertura dei vescovi italiani su una questione così spinosa non è priva di distinguo e di avvertenze, proprio per evitare delle forme mascherate di fine indebita della vita. Il sì al testamento biologico viene dato a condizione anzitutto che esso non introduca di fatto l'eutanasia; in altri termini, che la sostanza della dichiarazione del soggetto non prefiguri una soluzione o una volontà di morte anticipata che la Chiesa non ammette e che non è accettata nemmeno dal nostro ordinamento giuridico.
Oltre a ciò nel testamento biologico non deve esserci nemmeno il rifiuto di terapie tecnologiche (che consentono anche l'alimentazione e l'idratazione), che rappresentano - a detta della Chiesa e di molti - il sostegno vitale che va comunque garantito sino a certe soglie a chi vive tali condizioni problematiche. Un ulteriore richiamo della Chiesa riguarda la tentazione dell'abbandono. Sottesa alla domanda di legalizzazione dell'eutanasia possono esservi due ragioni opposte, o l'eccesso di cure o la loro assenza. Si può essere in qualche modo favorevoli all'eutanasia per evitare l'accanimento terapeutico, nella convinzione che per i malati terminali è meglio «staccare la spina» o interrompere gli interventi artificiali che tenere in vita a tutti i costi un essere umano ormai privo della sua dignità. Ma oltre a ciò, un'altra idea strisciante di eutanasia è individuabile in quanti si orientano di fatto a negare o interrompere le cure ai soggetti colpiti da una malattia terminale.
L'invito della Chiesa, dunque, è in questi casi a non sospendere le cure, anche se esse non portano a guarigione. Qui emerge la presa di distanza da un certo tipo di mentalità corrente e di medicina che investe molto sulla cura per la guarigione, mentre attribuisce minor rilevanza alla cura per il mantenimento anche di condizioni problematiche. Si è attenti ai valori della vita non soltanto puntando al recupero della salute, ma anche aiutando le persone a morire degnamente, sia utilizzando al riguardo le cure palliative della medicina, sia attraverso quei supporti psicologici che possono rendere umanamente più degna la sofferenza dei soggetti e delle loro famiglie.
Tra le novità della dichiarazione del presidente della Cei vi è anche il tono con cui sono state affrontate questioni così spinose, che interpellano a fondo la coscienza individuale e pubblica. L'attenzione a questi drammi umani (che non si era riscontrata, almeno pubblicamente, nel caso Welby) emerge anzitutto da un testo che parla di «partecipazione commossa» alla sorte di Eluana Englaro, di «condivisione e rispetto» per la situazione di sofferenza in cui versa la famiglia, per la «vicinanza» agli «altri duemila nostri concittadini» che in tutta Italia vivono analoghi drammi umani. Questi sono «i nostri primi sentimenti» - afferma il cardinal Bagnasco - nei confronti di chi vive queste condizioni.
Ancora, il tono coinvolto emerge anche da una dichiarazione che tratta un argomento così ostico in modo riflessivo, anche con indubbia competenza scientifica; e con un accento pastorale più attento rispetto a precedenti prese di posizione percepite come più astratte e sbilanciate sui principi. Pur mantenendo alto il diritto e le ragioni della vita, la Chiesa sembra oggi più prossima a chi è al confine tra il vivere e il morire.
© Copyright La Stampa, 23 settembre 2008 consultabile online anche qui.
E' giusto richiamare il caso di Eluana Englaro ma non quello di Welby, che non era malato terminale.
Inoltre, per parafrasare le parole dello stesso Garelli, nel caso di Welby eravamo di fronte a una "dichiarazione del soggetto che prefigura una soluzione o una volontà di morte anticipata che la Chiesa non ammette".
Non e' vero che non c'e' stata comprensione ed attenzione per il dramma umano dell'esponente dei radicali. Si stava riflettendo, il cardinale Barragan era intervenuto piu' volte con parole amorevoli e di conforto verso i familiari.
Purtroppo l'epilogo non ha consentito ulteriori riflessioni.
R.
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7 commenti:
cara Raffaella, ti segnalo l'intervista a Geninazzi su http://www.ilsussidiario.net
CRISTIANI/ Geninazzi (Avvenire): contro le persecuzioni ci vuole un’ingerenza umanitaria
Sotto sez. cronaca
Alessia
"E' giusto richiamare il caso di Eluana Englaro ma non quello di Welby, che non era malato terminale."
Welby aveva espresso chiaramente ed esplicitamente la volontà di non essere più curato, più chiaro di così!
Inoltre chi dice che non era terminale?
La SLA è una forma della malattia che colpisce gli adulti e che nella maggior parte dei casi porta alla paralisi e alla morte entro cinque anni.
Se non è terminale cos'è di grazia?
"Non e' vero che non c'e' stata comprensione ed attenzione per il dramma umano dell'esponente dei radicali."
Il dramma di Welby è stato oggetto di una minima attenzione solo perchè pubblicizzato. Ci sono ogni anno 400 persone che si ammalano di SLA, sarebbe utile porvi attenzione una volta per tutte.
"Purtroppo l'epilogo non ha consentito ulteriori riflessioni."
Forse le riflessioni fatte erano già troppe, forse, talvolta, bisognerebbe ascoltare anche le riflessioni dei malati .. prima che sia troppo tardi.
Welby e' stato usato come simbolo della lotta per ottenere l'eutanasia.
Parliamoci chiaro e non nascondiamoci dietro ad un dito.
Se ne e' parlato molto e se ne doveva parlare ancora di piu'.
Non io, ma il Consiglio superiore di sanità (CSS) affermo' che, nel caso di Welby, non c'era accanimento terapeutico:
http://www.repubblica.it/2006/12/sezioni/cronaca/welby3/parere-css/parere-css.html
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Attualita%20ed%20Esteri/Attualita/2006/12/md201206welby_css.shtml?uuid=04a66ac8-9041-11db-bf71-00000e25108c&type=Libero
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/12_Dicembre/20/welby.shtml
Tutti noi prima o poi moriremo, non sappiamo se fra un mese, due, un anno o cinque anni.
R.
"Welby e' stato usato come simbolo della lotta per ottenere l'eutanasia."
Parlare di eutanasia senza distinguere fra forme attive, passive o mero ordine di non rianimare è fuorviante.
La Chiesa sosteneva che staccare la spina a Welby significava permetter ad ogni medico di fare altrettanto senza incorrere in sanzioni.
Non si tenne però in nessun conto che Welby aveva espresso CHIARAMENTE la sua volontà e che non era il medico a voler sospendere le cure ma il malato stesso.
"Non io, ma il Consiglio superiore di sanità (CSS) affermo' che, nel caso di Welby, non c'era accanimento terapeutico."
Se l'avesse detto avrebbe dovuto dare l'ordine di sospendere le cure. Vista la normativa italiana vigente chi avrebbe dovuto staccare la spina prendendosi poi anche le responsabilità penali del fatto?
Ricordo ancora che la malattia di Welby è a tutti gli effetti una malattia incurabile che porta alla morte, ne più ne meno di un cancro.
Leggo:
Ricordo ancora che la malattia di Welby è a tutti gli effetti una malattia incurabile che porta alla morte, ne più ne meno di un cancro.
Credo che dopo questa affermazione non abbiamo piu' nulla su cui confrontarci.
E' una fortuna che ci siano malati e famiglie non disposti a rassegnarsi di fronte "all'incurabilità" di un cancro.
Non dovrei essere io poi a rammentarLe che esistono forme di tumore curabili e guaribili.
Il concetto di "male incurabile" non fa parte del mio vocabolario.
R.
ho avuto la leucemia quando avevo 15 anni e non permetto a nessuno di chiamare il cancro malattia incurabile.
che cosa avrebbero dovuto fare i miei genitori?
se tutti ragionassero come il signore qui sopra io sarei morta da 20 anni.
@Marta e Raffaella
"ho avuto la leucemia quando avevo 15 anni e non permetto a nessuno di chiamare il cancro malattia incurabile."
Chiarisco, a scanso di strumentalizzazioni, il mio pensiero.
Poichè esistono forme di cancro o stadi dello stesso che i medici e la pratica definiscono incurabili, a tali casi (e solo a questi) si può paragonare la SLA, che, anche se Raffaella sembra ostinarsi a non ammetterlo, porta alla morte prematura del malato.
"Il concetto di "male incurabile" non fa parte del mio vocabolario."
Il suo non è vocabolario della scienza e nemmeno quello della vita.
Il fatto che alcune patologie siano incurabili oggi e lo possano essere in un fututo non cambia le sorti di chi oggi si trova a fronteggiare certe malattie.
Chiudo solo ricordando, a scanso di ulteriori e ingiustificati equivoci, che anche nella mia famiglia ci sono stati più casi di cancro risoltisi positivamente, non nel senso che intende Marta che, bontà sua, potrebbe pensare che abbia lasciato morire metà della mia famiglia.
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