9 ottobre 2008
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A cinquant'anni dalla morte di Eugenio Pacelli
Il Papa di un tempo drammatico
di Andrea Riccardi
Università di Roma Tre
Il pontificato di Pio XII abbraccia un periodo storico drammatico. La Chiesa cattolica è sconvolta dalla seconda guerra mondiale, provata dalla guerra fredda e dai regimi comunisti in Europa e in Asia. In quegli anni tragici, i responsabili vaticani si chiedevano che spazio restasse al cristianesimo, almeno in alcune parti del mondo.
Durante la guerra, si aveva in Vaticano la netta sensazione che l'"ordine nuovo", portato dalle armate naziste, se vittorioso, si sarebbe risolto in un duro attacco alla Chiesa. Dopo la guerra, le comunità cattoliche nei Paesi comunisti erano languenti sotto la persecuzione. In Europa occidentale, le società, investite dalla crescita economica, mostravano qualche sintomo di crisi nell'adesione ai modelli proposti dalla Chiesa. Lo stesso cattolicesimo latino-americano manifestava segni di crisi endemica. Intanto la Chiesa nei Paesi coloniali richiedeva rapidi aggiornamenti per la decolonizzazione incipiente. Gli anni di Pio XII, nel cuore del Novecento (1939-1958), sono stati un tempo di rapide transizioni e di crisi.
Tutta la storia del XX secolo è segnata da profonde transizioni. Ma gli anni cerniera del Novecento, quelli di Papa Pacelli, sono un periodo particolare. Stagione della crisi dell'Europa e della sua funzione nel mondo. Quello che Benedetto XV chiamava il "giardino del mondo" è divenuto il suolo della guerra e la terra della Shoah. La divisione dell'Europa con la guerra fredda mutila un continente decisivo nella missione della Chiesa.
Affrontare gli anni, in cui fu Papa Eugenio Pacelli, è studiare la transizione più profonda del Novecento. Chi vuole ricordare quel periodo trova a disposizione un'abbondante saggistica e storiografia. Pio XII ha fatto molto discutere. In particolare sulla questione dei cosiddetti silenzi sullo sterminio degli ebrei e sulle atrocità naziste. Ne è emersa, anche al di là della storiografia, un'immagine di Pio XII come diplomatico, chiuso al dolore della storia, prigioniero di procedure ecclesiastiche, ossessionato dalla lotta al comunismo.
I suoi anni restano essenziali per capire il cattolicesimo novecentesco, senza lasciarsi imprigionare da una logica giustizialista o, al contrario, difensiva. Con il passare del tempo, anche se i drammi non sbiadiscono, si acquista maggiore capacità di comprendere, mentre si auspica il confronto con una più ampia documentazione fuori dalla "leggenda nera" o da ricordi aulici. Comprendere gli anni di Papa Pacelli è indispensabile per capire la storia della Chiesa nella profonda transizione del XX secolo e la seconda metà del Novecento.
Un romano di respiro internazionale
Romano, nato nella capitale dopo la fine del governo dei papi, nel 1876, Eugenio Pacelli si formò alla scuola ecclesiastica romana. Al Collegio Capranica, all'Università Gregoriana, all'Apollinare, è compagno di una generazione di ecclesiastici, che avrebbe governato la Chiesa nel cuore del Novecento. Nel 1901, entra agli Affari Ecclesiastici Straordinari e contemporaneamente è segretario della commissione per la codificazione del diritto canonico. Diplomatico e giurista, a trentotto anni, nel 1914, è già segretario agli Affari Ecclesiastici Straordinari, quando si affronta la guerra mondiale.
Monsignor Pacelli è una personalità di levatura europea. Viaggia in Francia, Belgio, Gran Bretagna, Austria. Parla le maggiori lingue europee. Collabora con Benedetto XV che, con il conflitto, elabora e pratica la "dottrina" dell'imparzialità tra belligeranti. Un conflitto mondiale è terreno invivibile per la Chiesa, che raccoglie cattolici da popoli in lotta, tesa a comprendere i dolori di tutti, ma a non sposare le cause nazionali.
La scuola della guerra mondiale segna la maturità di Pacelli. La "dottrina" elaborata negli anni di Benedetto XV diventa un riferimento decisivo per gli orientamenti e le scelte durante il secondo conflitto mondiale. Eugenio Pacelli è un ecclesiastico di respiro europeo anche per la lunga condivisione della vicenda tedesca, dal 1917 al 1929. Benedetto xv lo invia nunzio in Baviera nel 1917 e poi lo accredita a Berlino nel 1920. È un nunzio amato dai tedeschi, specie cattolici, alla cui vita partecipa profondamente e le cui risorse e debolezze conosce da vicino. Il suo amore per la Germania gli varrà la sussurrata accusa di essere troppo sensibile alle esigenze tedesche. I dodici anni di esperienza tedesca ne fanno un conoscitore profondo della Germania. Negli anni Venti è coinvolto a Berlino nei negoziati (falliti) tra la Santa Sede e il nuovo governo sovietico.
L'elevazione al cardinalato, nel 1929, a cinquantadue anni, non è una sorpresa. Desta stupore che Pio XI lo scelga come segretario di Stato nel 1930 al posto dell'anziano ed esperto cardinale Gasparri. Del resto, tra i cardinali italiani, Eugenio Pacelli è una personalità che eccelle. S'impone per il suo spirito di servizio, la conoscenza della macchina amministrativa della Chiesa, la sua posizione di grande riserbo. L'azione come segretario di Stato si caratterizza per il supporto e la collaborazione che offre a un Papa che governa con decisione. Pio XI sente però l'esigenza che un esponente di rilievo della Santa Sede viaggi nel mondo, conosca e si faccia conoscere. Per questo, il cardinale compie numerosi viaggi, che lo portano due volte in Francia, in Argentina, in Ungheria. Nel 1936, fa un viaggio privato negli Stati Uniti - fatto sorprendente - che lo porta a incontrare la Chiesa nordamericana e il presidente Roosevelt. Pacelli assume un volto pubblico, noto non solo negli ambienti cattolici, ma anche tra i responsabili politici.
Le vicende della Germania nazista e dell'Austria dell'Anschluss lo vedono in primo piano. Il cardinale segue i rapporti con il fascismo dalla crisi del 1931, attraverso gli anni del consenso, sino alle difficoltà di fine anni Trenta. Grande diplomatico, è accanto al Papa, divenuto anziano, deluso dai risultati della politica di dialogo con gli Stati, specie autoritari, che volgono sempre più al totalitarismo.
Efficiente e dinamica, la Segreteria di Stato di Pacelli conta su due prelati italiani, diversi ma entrambi di rilievo: Tardini per gli affari internazionali e Montini come Sostituto. I due ecclesiastici sono, dopo il 1939, i più stretti collaboratori di Pio XII. Il ruolo del segretario di Stato si colloca in una Chiesa, i cui quadri dirigenti si vanno internazionalizzando per evitare l'accaparramento nazionalista del cattolicesimo nella sensibilità dei fedeli, nella gestione delle missioni cattoliche, nel governo della Chiesa, tenendo vivo uno spirito di unità sopranazionale attorno al Papa. In questo quadro, Eugenio Pacelli si staglia come il primo collaboratore del Papa.
Non meraviglia che, alla morte di Pio XI, i cardinali lo eleggano suo successore. La prima grande transizione che il nuovo Papa deve affrontare è quella dello scenario turbinoso della incipiente guerra mondiale. La situazione è difficilissima per la Chiesa in Europa. Viene eletto il 2 marzo 1939 e il 15 marzo le truppe tedesche invadono la Cecoslovacchia. Tenta di evitare il conflitto. Con gli accordi Molotov-Ribbentrop, appare chiaro che non c'è modo di scongiurarlo; per questo il Papa si concentra sull'allontanare l'ingresso dell'Italia in guerra. Così compie una visita al re d'Italia al Quirinale alla fine del 1939: è la prima volta che un Papa ritorna nell'antica dimora pontificia. Mussolini non partecipa all'evento ed è segno tangibile che il tentativo di Pio XII non ha effetto.
Il Papa della guerra
Il Papa affronta la guerra con un gruppo di collaboratori, formati alla scuola diplomatica ecclesiastica. Sceglie come segretario di Stato il cardinale Maglione, compagno al Capranica, già nunzio a Parigi. La stampa nazista aveva già considerato il Papa come filofrancese. Maglione fu l'unico segretario di Stato di Pio XII. Alla sua morte, nel 1944, il Papa decise di non dargli un successore, anche per evitare che un forte e vicino collaboratore influisse sulle sue decisioni.
Scrupoloso, riservato, delicato, finanche timido, Eugenio Pacelli era pervaso dal senso di responsabilità del suo ministero. Chi lo conosceva notò una profonda trasformazione nell'uomo con l'elezione al pontificato. Gravi responsabilità incombevano, mentre le più diverse pressioni si esercitavano sulla Santa Sede perché si schierasse nel conflitto. Il Papa lanciò un vibrante appello (al cui testo collaborò monsignor Montini) nell'agosto 1939: "Niente è perduto con la pace; tutto è perduto con la guerra". Questa è la visione del Papa: evitare che il conflitto si allarghi, favorire una pace negoziata, umanizzare la guerra e rappresentare, come Chiesa, uno spazio di asilo e di umanità tra la barbarie della lotta. Il Papa non cede alle pressioni da parte nazista per benedire la lotta dell'Asse come una crociata antibolscevica. Non intende, d'altra parte, assumere una posizione vicina agli Alleati. Con gli anni, affluiscono in Vaticano informazioni sulle atrocità naziste. Ma Pio XII si attenne alla "dottrina" dell'imparzialità tra i belligeranti, già elaborata da Benedetto xv.
È nota la polemica sui "silenzi" di Pio XII durante la guerra, in particolare sullo sterminio degli ebrei. Negli anni Sessanta, c'è un netto cambiamento del giudizio su Pio XII in senso negativo, anche se la propaganda sovietica, alcuni intellettuali francesi come Mauriac (che aveva parlato di un'attesa delusa, ma aveva esaltato il piuttosto silenzioso cardinale Suhard), settori polacchi, già avevano accusato Papa Pacelli di complicità o remissività verso il nazismo. Il fatto sorprendente è che Pio XII parlò, in qualche modo, di silenzio: "Mi chiese - scrive l'allora monsignor Roncalli nei suoi diari nel 1941 - se il suo silenzio circa il contegno del nazismo non è giudicato male". Infatti Pio XII, nei suoi interventi pubblici, richiamò alcuni principi generali, applicandoli alla situazione, ma non intese operare condanne. In un appunto di Tardini riguardo alla richiesta da parte dei vescovi polacchi in favore di una condanna dei nazisti, si fa stato del dibattito vaticano in proposito: "Non già che manchi la materia; non già che non rientri, tale condanna, nei diritti e nei doveri della S. Sede (quale suprema tutrice anche della legge naturale); ma ragioni pratiche sembrano imporre di astenersi...". Esse sono: una condanna sarebbe sfruttata politicamente, mentre il governo tedesco "inasprirebbe ancora la persecuzione contro il cattolicesimo" in Polonia.
Nel quadro di un'Europa, dominata dai tedeschi, Pio XII era consapevole della condizione del cattolicesimo a fronte della propaganda e della repressione: "Nelle file stesse dei fedeli, erano fin troppo accecati dai loro pregiudizi o sedotti dalla speranza di vantaggi politici" afferma nel 1945. La condizione del cattolicesimo, da una parte, le pressioni sul Vaticano (sino alla minaccia di deportazione del Papa) dall'altra, ponevano seri dubbi sul fatto che Pio XII avrebbe potuto continuare liberamente il suo ministero di unità in una Chiesa e in un mondo che ne avevano bisogno come non mai. Il Papa, mantenendo riserbo tra i belligeranti, voleva che la Chiesa fosse uno spazio di umanità nel cuore della guerra. Qui si inserisce l'attività in soccorso delle popolazioni colpite dalla guerra, dei prigionieri e dei ricercati in particolare a Roma.
Il Papa sostenne gli episcopati nazionali nelle loro posizioni verso i governi ("noi lasciammo ai pastori in funzione sul posto la cura di apprezzare se, e in quale misura, il pericolo di rappresaglie e di pressioni... consiglino il riserbo - malgrado le ragioni di intervento - al fine di evitare dei mali più grandi" - disse Pio XII). E conclude: "È uno dei motivi per i quali ci siamo imposti dei limiti nelle nostre dichiarazioni". Pio XII giudicò debole l'episcopato francese e volle onorare con la porpora cardinalizia i vescovi europei distintisi nella resistenza morale: i tedeschi von Preysing e von Galen, l'olandese De Jong, il francese Saliège.
Uomini e popoli
Dopo la guerra Pio XII sente la necessità di porre le basi dell'ordine internazionale e soprattutto prospetta la democrazia come regime "migliore" per la società, già nei suoi radiomessaggi di guerra. Nel 1943, con l'enciclica Mystici corporis, il Papa presenta l'ecclesiologia del corpo mistico, lontano da un vago romanticismo spirituale, ma pure distaccata da una concezione solo giuridica. Questa Chiesa - Pio XII ne è convinto - deve compiere nel dopoguerra una funzione di "educatrice degli uomini e dei popoli", come dice nel concistoro del 1945, in base alla sua "lunga esperienza", costruendo "l'uomo completo". Il Papa scopre l'opinione pubblica e l'incontro con le masse. Fin dalla liberazione di Roma, il Vaticano diviene il centro di tanti e diversi incontri con visitatori di ogni tipo. Utilizza la radio e poi la televisione. Nel 1949, apparendo sugli schermi americani, esclama: "Si è detto che il papato era morto, e si vedranno le folle debordare da tutte le parti dell'immensa piazza San Pietro per ricevere la benedizione del Papa e per sentire la sua parola".
Pio XII è un Papa popolare in quegli anni. Il suo contatto con le folle e il suo insegnamento vogliono essere all'origine del risveglio dei cattolici come nel 1950, quando l'Anno santo diviene la celebrazione giubilare più partecipata nella storia del cattolicesimo. È l'anno in cui il Papa proclama il dogma dell'Assunzione della Vergine Maria e invita al gran ritorno alla fede.
Il Papa sente l'esigenza di un rinnovamento nella Chiesa. Lo promuove nella formazione seminaristica e nella vita religiosa. Chiama i laici a un maggiore protagonismo, per combattere la "tendenza nefasta che regna anche tra i cattolici, che vorrebbe confinare la Chiesa nelle questioni dette "puramente spirituali"" - dice nel 1951 al congresso mondiale per l'apostolato dei laici. La liturgia registra gli interventi del Papa con la riforma dei riti della Settimana Santa e la concessione di celebrare la Messa vespertina.
A Est la persecuzione
La presenza cattolica registra una nuova vitalità anche sul piano politico con i partiti di ispirazione cristiana in Europa occidentale. Ma pesa sulla Chiesa la presenza sovietica nel cuore dell'Europa, con i regimi comunisti in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Albania, Romania e Bulgaria, oltre all'incorporazione dei Paesi Baltici nell'Urss. La persecuzione antireligiosa è pesante. La Santa Sede vorrebbe tenere aperte le rappresentanze diplomatiche nell'Est, ma non lo vogliono i regimi comunisti e i contatti con gli episcopati dell'Est sono difficili.
Pio XII, durante la guerra, aveva ammonito gli interlocutori americani sui rischi del controllo sovietico in Europa. Era stato da essi rassicurato sul fatto che l'Urss aveva iniziato un corso nuovo. Ma, poco dopo la fine del conflitto, il presidente Truman si ritrova sulle posizioni del Papa. In Vaticano si è convinti che i sovietici abbiano un disegno distruttivo del cattolicesimo, mirante prima di tutto a "nazionalizzare" le Chiese. Le prime comunità colpite sono quelle cattolico orientali: nel marzo 1946 gli ucraini vengono forzatamente incorporati nel patriarcato di Mosca, nel 1948 la stessa operazione avviene con i romeni.
Nel giro di pochi anni, la situazione dei cattolici nell'Est è drammatica. I vescovi sono arrestati. Il primate ungherese Mindszenty, quello croato Stepinac, quello ceco Beran, sono agli arresti. Sembra che si voglia trasformare il cattolicesimo in Chiese nazionali sotto il controllo giurisdizionalista e poliziesco dei regimi comunisti. C'è una volontà generale di perseguitare il cattolicesimo e di controllarne la vita fino all'infiltrazione nelle sue strutture. In questo clima matura la scomunica dei comunisti nel luglio 1949, come un solenne ammonimento sul carattere inconciliabile del comunismo con il cristianesimo.
La situazione della "Chiesa del silenzio" è disperata. Nessuna transizione è possibile. A Roma mancano notizie sull'Est europeo. Ma il comunismo sembra esercitare una forte presa nel dopoguerra. In Cina, con la vittoria di Mao Zedong, in Vietnam e in Corea del Nord, la Chiesa si misura con regimi socialisti. La Chiesa polacca, da parte sua, pur sottoposta a dure misure repressive, può condurre una politica più articolata: nel 1950 il primate Wyszynski firma un accordo con il governo (non rispettato da questo), mentre nel 1956 lo sostiene per evitare l'invasione sovietica. Queste posizioni (non ispirate certo a filocomunismo) lasciano tuttavia perplessi gli ambienti vaticani.
Sino alla fine del pontificato, la situazione dei cattolici nell'Est è in una condizione di glaciazione. Qualche segnale proveniente da Mosca, dopo la morte di Stalin, è giudicato fragile per motivare nuova attenzione da parte del Papa. Questi, alla fine del suo pontificato, incarica il cardinale Siri di una missione esplorativa. La percezione del Papa è che, con il dominio sovietico, si sia creata in Paesi di tradizione cristiana un'aggressione alla Chiesa, paragonabile solo a quella islamica dei secoli passati.
L'Occidente
Pio XII non manca di ammonire, in tante occasioni, l'Occidente sul pericolo comunista, registrando con preoccupazione lo sviluppo elettorale dei partiti comunisti (ed esprimendo contrarietà alla collaborazione governativa con essi). Il Papa, però, è attento a non confondere la causa della Chiesa con quella politica dell'Occidente. Da qui origina qualche sua perplessità sull'adesione dell'Italia all'Alleanza Atlantica. In Occidente, la Chiesa rappresenta una grande forza religiosa e sociale, che si esprime, oltre che attraverso i partiti cattolici, con un fascio di organizzazioni e movimenti.
Una delle posizioni politiche più originali di Pio XII è il suo impegno per l'unificazione europea. È consapevole che la nuova Europa non sarà solo cattolica, ma comprenderà evangelici e laici; ma è convinto che le ragioni della pace e della lotta al comunismo militino per unire i Paesi europei. Incoraggia i dirigenti cattolici a impegnarsi nel progetto europeo. Nel 1953 stimola all'azione per realizzare un'unione continentale. Dal 1955 si intensificano gli interventi del Papa sino ai Trattati di Roma del 1957, da lui salutati come un evento storico.
Pio XII mostra fiducia nella democrazia e nell'unità dei Paesi europei. Intende però evitare la marginalità della Spagna (con cui conclude un concordato nel 1953) e coltivare buone relazioni con il Portogallo di Salazar. Questi regimi non rappresentano un modello per il Papa, a differenza di alcuni settori della Curia. Nonostante le sue preoccupazioni per la forza comunista in Occidente, Pio XII sostiene la scelta democratica.
Tuttavia, proprio nel mondo occidentale, la Chiesa di Papa Pacelli registra segnali di una crisi legata alle trasformazioni sociali. Un elemento di difficoltà è la persistente forza del comunismo, rivelatrice della lontananza del mondo operaio dalla Chiesa. Si segnala anche qualche flessione nelle vocazioni sacerdotali e nella disciplina. L'enciclica Humani generis (1950) mette in guardia la teologia, soprattutto francese, su "manifestazioni che assomigliano a quelle del modernismo".
Pio XII guida la Chiesa dall'Europa degli anni Trenta al dopoguerra, attraverso il mondo comunista e quello occidentale, coeso attorno alla leadership americana. Ma il Papa, dopo la guerra, con la fine dell'impero britannico in India, si va convincendo che il mondo coloniale sta cambiando in profondità. Emergono mondi nuovi, dove si è concentrata tanta parte dell'azione missionaria del xx secolo. Il Papa è molto attento e introduce cambiamenti nelle Chiese del Sud. Nei radiomessaggi natalizi del 1954 e del 1955, dichiara il diritto dei popoli coloniali all'indipendenza. Dal 1952, si impegna nella creazione di gerarchie autoctone. Nel 1957, con l'enciclica Fidei donum, invita a maggiore coinvolgimento nella missione. Ne nasce un forte movimento verso il Sud del mondo, specie tra sacerdoti. Il Papa è consapevole della fragilità della Chiesa nel mondo coloniale di fronte ai nazionalismi, al comunismo e all'islam. Per questo intende "indigenizzare" le Chiese locali e rafforzare l'impegno missionario.
Un cattolicesimo con ben altra storia, quello dell'America Latina, mostra anch'esso le sue fragilità. Pio XII considera questo continente vitale per la Chiesa. Nel 1955 si tiene a Rio de Janeiro l'assemblea continentale dell'episcopato, da cui prendono le mosse un Consiglio episcopale latino-americano e un segretariato permanente. Nel 1958, il Papa istituisce in Curia una commissione per l'America Latina. C'è in lui la consapevolezza che i cattolici dell'America Latina sono sottoposti a nuove sfide sociali, ma anche politiche. Per questo insiste che il cattolicesimo del continente si attrezzi a tempi nuovi.
L'opera di governo di Pio XII è molto vasta e ampia. Si potrebbe dire, forse facendo torto alla complessità della sua azione, che la cifra del suo governo è proprio la missione: quella in Occidente, in America Latina, nei Paesi del Sud. Il cattolicesimo, dal dopoguerra, è chiamato a farsi movimento nella società per comunicare il suo messaggio.
Questa "mobilitazione" è sorretta da un insegnamento articolato e imponente, costantemente ripreso dai documenti del Concilio Vaticano ii. Negli ultimi anni, la situazione dell'Est, il senso di crisi in Occidente, lo spingono a sottolineare con più forza come solo l'aiuto di Dio possa far uscire la Chiesa e il mondo dalle difficoltà del presente. Accanto all'esortazione alla missione e all'azione, si fa sempre più presente l'attesa del dono di un tempo nuovo, in un quadro che gli appare scuro. Nel messaggio per la Pasqua 1957, Pio XII paragona la notte del mondo a quella della resurrezione, e conclude con l'invocazione: "L'umanità non ha la forza di rimuovere la pietra che essa stessa ha fabbricato, cercando di impedire il tuo ritorno. Manda il tuo angelo, o Signore, e fa' che la nostra notte s'illumini come il giorno".
(©L'Osservatore Romano - 9 ottobre 2008)
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