6 novembre 2007
La visita presso il pontefice del re dell'Arabia Saudita: l'analisi di Franco Cardini
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La visita presso il pontefice del re dell'Arabia Saudita
di FRANCO CARDINI
La visita presso il pontefice del re dell'Arabia Saudita e custode delle sacre moschee della Mecca e di Medina, Abdallah bin Abdulaziz, si annunzia come interessante e al tempo steso problematica. Il sovrano, nato a Ryad nel 1924, giunge tardi al trono: ma di fatto ne è titolare fin dal 1996 quando suo fratello Fahd, colpito da un male irreversibile, divenne incapace di regnare.
L'ottantatreenne Abdallah è un personaggio interessante e molto discusso: chiamato - un po' troppo pittorescamente - "il Principe Rosso", si è distinto come il leader della corrente modernizzatrice a corte e nel paese; dopo gli attentati dell'11 settembre del 2001 ha reagito con rigore alle pressioni statunitensi che tendevano a indicare, come responsabili di essi, ambienti sauditi e addirittura vicini alla corona e si è reso protagonista addirittura di passi quasi rivoluzionari, come la proposta (sia pur subito "congelata") di convertire dal dollaro all'euro il mercato petrolifero, il ristabilimento nel 2001 di relazioni diplomatiche con Yemen e Iran e la negazione nel 2003 dell'uso delle basi militari del suo paese per l'attacco all'Iraq. Nel 2004, in conseguenza di ciò, gli Stati Uniti hanno trasferito il loro Quartier Generale militare d'area nel Qatar e hanno avviato il ritiro delle loro truppe dal regno.
Intanto, l'allora principe ereditario non ha esitato a proporre anche per la questione israelo-palestinese soluzioni ispirate al principio d'una iniziativa autonoma del mondo arabo rispetto a Israele, che possa far a meno della "mediazione" occidentale. Anche in politica interna, Abdullah non ha esitato a rendersi protagonista di scelte innovatrici: tra 2004 e 2005 una serie di riforme istituzionali, da lui volute, ha condotto alle prime consultazioni democratiche dirette nella storia del regno nato formalmente nel 1932 sotto l'egida britannica, passato poi a una rigida alleanza con gli Stati Uniti e da allora - e fino ad oggi - la più sicura "spalla" di Washington nel Vicino Oriente arabo.
In verità, l'Arabia Saudita è sempre stata una pietra dello scandalo. Era, insieme con alcuni emirati del golfo, il paese arabo più chiuso alla democrazia e alla modernità: e la sua dinastia regnante era anche la leader della setta wahhabita, sostenitrice della stretta e rigoristica applicazione della shari'a. E, finché è rimasto un sicuro alleato degli americani e degli occidentali, questo dark side reazionario e antimoderno - paradossale in un paese che è grande produttore di petrolio e in una dinastia che per altri versi è un gigante dell'economia e della finanza internazionali - è sempre stato minimizzato dai nostri mass media: era imbarazzarne parlarne, nel momento stesso nel quale si diceva di lottare contro il fondamentalismo (che, per la verità, è altra cosa rispetto al radicalismo religioso). Il paradosso è che si comincia a denunziarne il carattere "regressivo" proprio e solo adesso: nel momento stesso nel quale il nuovo monarca da un lato dà segni di volersi smarcare dall'alleanza con gli Stati Uniti, mentre dall'altro si fa protagonista di misure innovatrici.
Di che cosa parlerà, questo personaggio scomodo e per certi versi imprevedibile, con il Papa? Senza dubbio, e forse soprattutto, del problema israelo-palestinese e della sicurezza dei Luoghi Santi cristiani. Ma forse anche della situazione delicata e difficile dei fedeli del Cristo in terra saudita, dove, in ossequio a un'interpretazione molto ristretta (e tutt'altro che ineccepibile) della stessa shari'a, il culto pubblico cristiano è vietato in qualunque sua forma.
Qualcuno ha pronunziato con cautela, al riguardo, la parola "reciprocità". Ma le cose non sono facili. La reciprocità s'innesca per sua natura solo tra soggetti giuridici e istituzionali omogenei: il Papa, capo della Cristianità cattolica, non può chiedere alcuna forma di "reciprocità" al re dell'Arabia Saudita, che pur essendo il custode dei Luoghi Santi musulmani non è affatto il capo dell'Islam; nemmeno di quello sunnita, che anzi lo considera con sospetto in quanto leader della scomoda minoranza wahhabita.
Si potrebbe accedere allora a un accordo bilaterale, ed omogeneo, tra i due capi di stato, quello della Città del Vaticano e quello dell'Arabia Saudita? Sul piano giuridico-formale, senza dubbio: ma, su quello morale e politico, appare impossibile che il pontefice possa agire solo come un normale capo di stato, per giunta sovrano di uno stato di soli ottocento abitanti circa.
D'altro canto, Abdullah è un riformatore: e nel mondo arabo e musulmano non mancano i modelli di realtà statuali nelle quali, senza tradimento alcuno nei confronti della shari'a - ma adottandone tuttavia una diversa e più "aperta" interpretazione - la libertà d'espressione religiosa per i cristiani è garantita. Così accade in Giordania, in Siria, in Iraq (dove addirittura con Saddam Hussein era maggiore), in Egitto, nei paesi del Maghreb.
Re Abdullah sa che un qualche sia pur cauto passo in questa direzione gli alienerebbe gli ambienti estremisti e marginali dell'Islam, ma gli conferirebbe, guadagnandogli un forte appoggio da parte del Papa, uno straordinario prestigio diplomatico e morale spendibile soprattutto in Occidente. Insomma, ci si può aspettare qualche novità.
© Copyright Il Tempo, 6 novembre 2007
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