15 aprile 2008

«Solo la Chiesa cattolica può sfidare la presunzione religiosa dello Stato americano» (Dignola)


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«Solo la Chiesa cattolica può sfidare la presunzione religiosa dello Stato americano»

Carlo Dignola

George W. Bush, metodista, in un'intervista ha detto che il Papa «rappresenta e difende valori che sono molto importanti per l'America». E ha aggiunto che incontrando l'anno scorso per la prima volta Benedetto XVI, in lui ha «visto Dio».

È una frase piuttosto forte. Gli Stati Uniti sono stati fondati da immigrati protestanti che erano in aperta polemica con il cattolicesimo romano, eppure oggi nel Paese c'è un nuovo interesse per il Papa. A spiegarlo non bastano gli interessi di tipo politico, e neppure una generica «autorità morale» che la Santa Sede avrebbe assunto a livello mondiale. Stanley Hauerwas, un protestante che «Time» ha premiato come «il miglior teologo d'America», di recente è stato in Università Cattolica, invitato dal Centro culturale di Milano, e ha messo in luce le ragioni di fondo di questa dialettica fra Chiesa cattolica e Stati Uniti.
Oggi nel Paese ci sono venti milioni di cattolici in più rispetto agli anni '70. La metà di loro va a Messa tutte le domeniche. Ma che tipo di religione è quella americana? Hauerwas per spiegarlo prende in considerazione due recenti saggi: uno del filosofo canadese Charles Taylor, cattolico, l'altro di Mark Lilla, tipico intellettuale newyorchese laico.
Taylor, vincitore del Premio Templeton 2007, in «Un'era secolarizzata» sostiene che la forza della nazione americana sta nell'aver creato «una religione civile comune» che è stata in grado di unire le comunità di immigrati in un'unica nazione. Laddove in Europa le diverse fedi «sono sempre state fonte di divisioni» l'America ha saputo diventare «one nation under God », una nazione unita sotto il braccio benevolo e protettivo di Dio. La stessa democratizzazione della politica – strada nella quali gli Stati Uniti sono stati un'avanguardia in anni in cui l'Europa si entusiasmava per i dittatori – è vissuta dagli americani con accenti religiosi: come una «missione».
Oggi il Paese ospita immigrati in arrivo da ogni parte del mondo, dalla Russia al Pakistan, dalle Filippine alla Cina. E il carattere protestante della religione civile «è stato riperimetrato fino a includere "tutte le fedi", o anche "nessuna fede"»; eppure la vita politica americana conserva ancora questo carattere «fortemente religioso». Troppo religioso per Hauerwas, che vorrebbe che l'America fosse «una nazione più "secolare", e che la cristianità americana fosse meno americana». Il teologo sogna un'America «più simile all'Europa» perché teme che quel cristianesimo che a noi sembra tanto «vitale» non sia in grado «di rappresentare una sfida politica» al mito di un Messia in ultima istanza del tutto secolare come l'Impero americano.

Il crollo delle certezze laiche

Di fronte a questa America «religiosa» ce n'è comunque un'altra laica e scettica, ben rappresentata dai circoli intellettuali di New York, Washington, Boston, Los Angeles, che influenzano a fondo la stampa, l'editoria, la cultura.

Hauerwas si confronta con Mark Lilla, uno storico delle idee che scrive spesso su mass media molto influenti come «The New York Review of Books», «The New Republic» e «The New York Times». Di recente ha pubblicato un libro che ha avuto molto successo: «Il Dio rinato: la religione, la politica e il mondo occidentale». Convinto, come ogni buon cittadino secolarizzato, che le dispute fra «ragione e rivelazione» fossero ormai relegate «tra i relitti della storia», a Lilla le Torri gemelle sono davvero crollate sulla testa. Dopo l'11 settembre 2001, loro malgrado, gli intellettuali come lui hanno dovuto riaprire la Bibbia e anche il Corano: «Credevamo che gli esseri umani avessero ormai imparato a separare le questioni religiose da quelle politiche, che il fanatismo fosse morto. Ci sbagliavamo» scrive Lilla.
Spaventati da questo crudo esordio del secolo, i laici americani oggi invocano il ristabilimento della «grande separazione» non tanto fra lo Stato e la Chiesa, come diciamo noi in Europa – sul piano politico negli Stati Uniti le Chiese contano tutte abbastanza poco – ma fra lo Stato e le religioni, considerate come «forme primordiali di pensiero» che vanno superate. Lilla invoca un «ritorno a Hobbes», il filosofo del '600 che invitava a riconoscere tutti gli dei come il frutto dell'immaginazione e della paura umana e a sostituirli con quello che lui chiamava «il Dio terreno», il sovrano assoluto: ieri il re, oggi lo Stato laico.
La «grande separazione» hobbesiana per Lilla ha tre declinazioni fondamentali, che descrivono in maniera precisa la nostra situazione culturale: la prima è la separazione della Natura dal suo Creatore, ovvero - detto in termini attuali - l'autonomia assoluta della ricerca scientifica; la seconda è il confinamento delle convinzioni e anche delle pratiche religiose in ambito rigorosamente privato; il terzo dogma è la separazione dell'università dai centri del sapere ecclesiastico, espellendo la teologia, che infatti con l'età moderna è diventata «materia da preti»: è la battaglia per la «libertà accademica». Il fatto che il Papa non abbia potuto parlare alla Sapienza, come si vede, non è poi così casuale.

Tre muri da rialzare

Per «contenere la violenza scatenata dalla teologia politica» – dice Lilla, e la pensano allo stesso modo anche i nostri laicisti europei – bisogna rialzare subito questi tre solidi muri. Apparentemente all'estremo opposto si è fatta largo la «retorica della destra religiosa», che tuttavia, anche se si presenta come «una forma di cristianesimo conservatore», dal punto di vista politico – dice Hauerwas – è in realtà un'altra forma di «protestantesimo liberale». Essa «riduce le varie fedi a un feticcio», buono per usi politici immediati ma molto sospetto. I trozkisti di destra che hanno ispirato la «Bush administration», che non sono conservatori ma rivoluzionari, credono di aver imbracciato le insegne della Cristianità: in realtà anch'essi «fanno il gioco della "grande separazione"» avendo relegato il cristianesimo a una questione essenzialmente di «fede», di pura opzione di principio che nulla ha a che vedere con la ragione.
I laici oggi in America hanno paura delle fedi religiose. Si attribuiscono il compito di «mantenere la politica al buio rispetto alla luce della Rivelazione». Ma – si chiede Hauerwas – come mai proprio la nazione plasmata dalle idee politiche di Hobbes e di Locke «si concepisce in termini religiosi» e messianici molto più dell'Europa «papista»? Perché «è così difficile mantenere laica l'America laica?». Il rischio – risponde – era presente già in Hobbes, nel suo aver fatto del sovrano, appunto, un «Dio terreno»: «Una volta che la Chiesa è stata relegata in un ambito privato, la Nazione assume il linguaggio di una Chiesa». La «grande separazione» laica – dice Hauerwas – oggi non è minacciata tanto dal Papa o dai fanatici musulmani, quanto «dall'America stessa».
L'umanismo ha generato una società in cui paradossalmente l'uomo resta ai margini. La stessa università sta diventando «la sede delle tecnologie progettate per incrementare il nostro potere nei confronti del Fato». Un mondo del genere, dominato dalla violenza sociale e ormai anche biologica, non può che «entrare in guerra» con le «forze» che minacciano la sua sicurezza. Il «Dio terreno», cioè, non è affatto il Sovrano della pace vagheggiato da Hobbes ma si rivela un nuovo Dio della guerra, un Marte tecnologico che sollevando le bandiere «della libertà individuale, della tolleranza, della democrazia» imbraccia le armi per difendere «i mercati», la «scienza moderna» ovvero la fruizione di quei «prodotti tecnologici» ai quali ormai tutto il mondo aspira. E chi non condivide questa missione viene considerato «un reazionario, uno zelota e un oscurantista».
Gli americani – dice Hauerwas – non si accorgono «di ciò che tutto il resto del mondo vede: che questa, letteralmente, è l'ideologia che sorregge una cultura di morte». Contro di essa, per il teologo americano oggi è necessario un rilancio proprio della Chiesa come soggetto «capace di sfidare la presunzione dello Stato».

© Copyright L'Eco di Bergamo, 14 aprile 2008

Mi viene spontanea una riflessione.
Ci sono molti circoli intellettuali (o pseudo tali) laici o laicisti che influenzano nettamente ed in modo esagerato i grandi mass media, ma quanto tutto questo ha presa sull'opinione pubblica?
Ben poco a mio avviso.
L'abbiamo visto anche nelle elezioni italiane: la grande stampa si e' schierata in blocco da una parte, ma i cittadini sono andati nella direzione opposta esattamente come accadde con il referendum sulla legge 40 del 2005.
In altre parole i potenti mass media parlano e parlano e tentano di influenzare l'opinione pubblica ma spesso, quando esagerano, finiscono per contare come i "cavoli a merenda" :-)

Parliamoci chiaro: i fedeli hanno una visione del Papa e della Chiesa in netto contrasto con il politicamente e giornalisticamente corretto...
R.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Buon giorno, Raffaella, è vero, e benissimo ha fatto la Chiesa (ora intendo la CEI) a non prendere assolutamente posizione alle elezioni. Infatti, come è nei fatti, tanto più si libera da questo tipo di condizionamenti, tanto più crescono la sua autorità e il suo prestigio nella dimensione pubblica, quale voce più rilevante nel richiamo ai principi etici. Per non parlare poi, del suo successo, da tanti anni, nell'ambito dell'ONU....Ciao

Carla

mariateresa ha detto...

cara Raffaella, hai ragione da vendere. Chi fa opinione o tendenza sui media in Italia ormai ha poco da dire a questo paese. Sono intelletttuali autoreferenziali che ormai hanno la zanetta, si lodano tra di loro, si parlano tra di loro e intanto il paese reale vive un'altra vita.
Sono salme. Compreso Eugenio Scalfari con il suo pseudoangelus tutte le domeniche su Repubblica.

Anonimo ha detto...

Ah, già, Mariateresa, le prediche domenicali di Scalfari! Le avevo rimosse. Che formidabile effetto boomerang!

Raffaella ha detto...

Si parla molto dello "scollamento" fra politica e societa' civile, ma io consiglierei ai giornali di avviare una seria riflessione sulla stima di cui godono presso i lettori.
R.