14 aprile 2008
Lettera della Congregazione per il Clero in occasione della Giornata mondiale per la santificazione dei sacerdoti (Osservatore R.)
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Lettera della Congregazione per il Clero in occasione della Giornata mondiale per la santificazione dei sacerdoti
Non l'attivismo ma la radicalità è la misura di ogni vocazione
In preparazione alla Giornata mondiale di preghiera per la santificazione dei sacerdoti, che si celebra il 30 maggio, nella solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, la Congregazione per il Clero ha indirizzato a tutti i sacerdoti una lettera a firma del cardinale prefetto Cláudio Hummes e del segretario arcivescovo Mauro Piacenza.
Reverendi e cari confratelli nel sacerdozio,
Nella Festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, fissiamo, con incessante sguardo d'amore, gli occhi della nostra mente e del nostro cuore, su Cristo, unico Salvatore delle nostre esistenze e del mondo. Richiamare a Cristo significa richiamare a quel Volto che ogni uomo, coscientemente o meno, cerca come unica adeguata risposta alla propria insopprimibile sete di felicità.
Questo Volto, noi l'abbiamo incontrato e, in quel giorno, in quell'istante, il suo amore ha talmente ferito il nostro cuore, che non abbiamo più potuto fare a meno di domandare incessantemente di stare alla sua presenza. "Al mattino ascolta la mia voce, fin dal mattino Ti invoco e sto in attesa" (salmo 5).
La sacra Liturgia ci conduce di nuovo e ancora a contemplare il Mistero dell'Incarnazione del Verbo, origine e realtà intima di questa compagnia che è la Chiesa: il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe si rivela in Gesù Cristo. "Nessuno avrebbe potuto vedere la sua Gloria, se prima non fosse stato guarito dall'umiltà della carne. Sei stato accecato dalla polvere, e con la polvere sei stato guarito: la carne ti aveva accecato, la carne ti guarisce" (Sant'Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, Omelia 2,16).
Solo guardando di nuovo alla perfetta e affascinante umanità di Gesù Cristo, vivo ed operante adesso, che a noi si è rivelato e che ora si china ancora su ciascuno con quell'amore di totale predilezione che gli è proprio, è possibile lasciare che Egli illumini e colmi l'abisso di bisogno che è la nostra umanità, certi della Speranza incontrata, sicuri della Misericordia che abbraccia i nostri limiti, insegnandoci a perdonare quanto di noi stessi non riuscivamo nemmeno a scorgere. "Un abisso chiama l'abisso al fragore delle tue cascate" (salmo 41).
Vorrei, nell'occasione della consueta Giornata di preghiera per la santificazione dei sacerdoti, che si celebra nella Festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, richiamare alla priorità della preghiera rispetto all'azione, in quanto è da essa che dipende l'incisività dell'agire. Dal rapporto personale di ciascuno con il Signore Gesù, dipende grandemente la missione della Chiesa. La missione, quindi, deve essere nutrita dalla preghiera: "È venuto il momento di riaffermare l'importanza della preghiera di fronte all'attivismo e all'incombente secolarismo" (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 37). Non stanchiamoci di attingere alla sua Misericordia, di lasciargli guardare e medicare le piaghe dolorose del nostro peccato per stupirci di fronte al miracolo, sempre nuovo, della nostra umanità redenta.
Carissimi confratelli, siamo gli esperti della Misericordia di Dio in noi e, solo così, suoi strumenti nell'abbracciare, in modo sempre nuovo, l'umanità ferita. "Cristo non ci salva dalla nostra umanità, ma attraverso di essa; non ci salva dal mondo ma è venuto nel mondo perché il mondo si salvi per mezzo di Lui (cfr Giovanni 3,17)" (Benedetto XVI, Messaggio Urbi et orbi 25 dicembre 2006).
Siamo, infine, presbiteri per l'atto più alto della Misericordia di Dio e al contempo della sua predilezione, il sacramento dell'Ordine.
In secondo luogo, nell'insopprimibile e anelante sete di Lui, la dimensione più autentica del nostro sacerdozio è la mendicanza, la preghiera semplice e continua, che si apprende nell'orazione silenziosa; essa ha sempre caratterizzato la vita dei santi e va domandata insistentemente.
Questa coscienza del rapporto con Lui è quotidianamente sottoposta alla purificazione della prova.
Ogni giorno, nuovamente, ci accorgiamo che questo dramma non viene risparmiato neppure a noi, ministri che agiscono in Persona Christi capitis: non possiamo vivere un solo istante alla sua presenza, senza il dolce anelito a riconoscerlo, conoscerlo e aderire ancora a Lui. Non cediamo alla tentazione di guardare al nostro essere sacerdoti come ad un inevitabile e indelegabile onere, ormai assunto, cui si possa "meccanicamente" adempiere, magari con un articolato e coerente programma pastorale. Il sacerdozio è la vocazione, la strada, il modo attraverso il quale Cristo ci salva, con cui ci ha chiamato, e ci chiama adesso, a vivere con Lui.
L'unica misura adeguata, di fronte alla nostra santa vocazione, è la radicalità. Questa totale dedizione, nella consapevolezza della nostra infedeltà, può avvenire solo come una rinnovata e orante decisione che, poi, Cristo realizza giorno per giorno. Lo stesso dono del celibato sacerdotale è da accogliere e vivere in questa dimensione di radicalità e di piena configurazione a Cristo. Qualsiasi altra posizione, rispetto alla realtà del rapporto con Lui, rischia di divenire ideologica.
Anche la mole, talora straordinariamente grande, di lavoro che le contemporanee condizioni del ministero ci chiedono di sostenere, lungi dallo scoraggiarci, deve spingerci a curare, con ancora maggiore attenzione, la nostra identità sacerdotale, la quale ha una radice irriducibilmente divina. In tal senso, in una logica opposta a quella del mondo, proprio le particolari condizioni del ministero, ci devono spingere ad "alzare il tono" della nostra vita spirituale, testimoniando con maggiore convinzione ed efficacia, la nostra appartenenza esclusiva al Signore.
Alla totale dedizione siamo educati da chi per primo ci ha amato. "Mi feci trovare da chi non mi cercava. Dissi: "Eccomi" a chi non invocava il mio nome". Il luogo della totalità per eccellenza è l'Eucaristica, poiché: "Gesù nell'Eucaristia dà non "qualche cosa" ma se stesso; Egli offre il suo Corpo e versa il suo Sangue. In tal modo dona la totalità della propria esistenza, rivelando la fonte originaria di questo amore" (Sacramentum caritatis, n. 7).
Siamo fedeli, confratelli carissimi, alla celebrazione quotidiana della Santissima Eucaristia, non soltanto per adempiere ad un impegno pastorale o ad un'esigenza della comunità a noi affidata, ma per l'assoluto bisogno personale che ne avvertiamo, come del respiro, come della luce per la nostra vita, come l'unica ragione adeguata per una compiuta esistenza presbiterale.
Il Santo Padre, nell'esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, ci ripropone con forza l'affermazione di sant'Agostino: "Nessuno mangia questa Carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo" (Sant'Agostino, Enarrationes in Psalmos 98, 9). Non possiamo vivere, non possiamo guardare alla verità di noi stessi, senza lasciarci guardare e generare da Cristo nell'Adorazione eucaristica quotidiana, e lo "Stabat" di Maria, "Donna Eucaristica", sotto la Croce di suo Figlio, è l'esempio più significativo che ci è dato della contemplazione e dell'adorazione del Sacrificio divino.
Come la missionarietà è intrinseca alla natura stessa della Chiesa, allo stesso modo la nostra missione è insita nell'identità sacerdotale, per cui l'urgenza missionaria è una questione di consapevolezza di noi stessi. La nostra identità sacerdotale è edificata e rinnovata giorno per giorno nell'"intrattenimento" con nostro Signore. Il rapporto con Lui, sempre alimentato nella continua orazione, ha come immediata conseguenza la necessità di renderne partecipi quanti ci circondano. La santità che domandiamo quotidianamente, infatti, non può essere concepita secondo una sterile ed astratta accezione individualistica, ma è, necessariamente, la santità di Cristo, la quale è contagiosa, per tutti: "L'essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo "essere per tutti", ne fa il nostro modo di essere" (Benedetto XVI, Spe salvi, n. 28).
Questo "essere per tutti" di Cristo si realizza, per noi, nei Tria Munera di cui siamo rivestiti dalla natura stessa del sacerdozio. Essi, che costituiscono l'interezza del nostro ministero, non sono il luogo dell'alienazione o, peggio ancora, di un mero riduzionismo funzionalista della nostra persona ma l'espressione più vera del nostro essere di Cristo; sono il luogo del rapporto con Lui. Il popolo che ci è affidato affinché sia da noi educato, santificato e governato, non è una realtà che ci distrae dalla "nostra vita", ma è il volto di Cristo che quotidianamente contempliamo, come per lo sposo il volto della sua amata, come per Cristo la Chiesa sua Sposa. Il popolo affidatoci è l'imprescindibile via per la nostra santità, la via, cioè, in cui Cristo manifesta la Gloria del Padre attraverso di noi.
"Se per chi scandalizza uno solo e il più piccolo conviene che gli sia sospesa al collo una pietra da mulino e sia precipitato nel mare, [...] quelli invece che mandano in perdizione [...] un popolo intero che cosa dovranno soffrire e quale castigo ricevere?" (San Giovanni Crisostomo, De Sacerdotio VI, 1498). Di fronte alla consapevolezza di un così grave compito ed una responsabilità tanto grande per la nostra vita e salvezza, in cui la fedeltà a Cristo coincide con l'"obbedienza" alle esigenze dettate dalla redenzione di quelle anime, non si dà neppure lo spazio per dubitare della grazia ricevuta. Possiamo solo domandare di cedere il più possibile al suo amore, affinché agisca Lui attraverso di noi, poiché o lasciamo che Cristo salvi il mondo, agendo in noi oppure rischiamo di tradire la natura stessa della nostra vocazione. La misura della dedizione, cari confratelli, è di nuovo e ancora la totalità. "Cinque pani e due pesci" non sono molto, sì, ma sono tutto! La Grazia di Dio fa, di tutta la nostra pochezza, la Comunione che sazia il popolo. Di questa "totale dedizione", sono specialmente partecipi i sacerdoti anziani o ammalati i quali, quotidianamente, esercitano il divino ministero, unendosi alla passione di Cristo e offrendo la propria esistenza presbiterale, per il vero bene della Chiesa e la salvezza delle anime.
Infine, fondamento imprescindibile dell'intera vita sacerdotale, resta la Santa Madre di Dio. Il rapporto con Lei non può risolversi in una pia pratica devozionale ma è nutrito dal continuo affidamento, tra le braccia della sempre Vergine, di tutta la nostra vita, del nostro ministero nella sua interezza. Maria Santissima riconduce nuovamente anche noi, come Giovanni, sotto la Croce del suo Figlio e nostro Signore, per contemplare, con Lei, l'Amore infinito di Dio: "È scesa quaggiù la vita nostra, la vera Vita; si è caricata della nostra morte per ucciderla con la sovrabbondanza della sua Vita" (Sant'Agostino, Confessiones IV, 12).
Dio Padre ha scelto, come condizione per la nostra redenzione, per il compimento della nostra umanità, per l'avvenimento dell'Incarnazione del Figlio, di attendere il "Fiat" di una Vergine di fronte all'annuncio dell'angelo. Cristo ha deciso di affidare, per così dire, la propria vita alla libertà amorevole della Madre: "Col concepire Cristo, generarlo, nutrirlo, presentarlo al Padre nel tempio, soffrire col Figlio suo morente sulla croce, ella ha cooperato in modo tutto speciale all'opera del Salvatore, con l'obbedienza, la fede, la speranza e l'ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo è stata per noi la madre nell'ordine della grazia" (Lumen gentium, n. 61).
Affermava il Papa san Pio X: "Ogni vocazione sacerdotale viene dal cuore di Dio, ma passa attraverso il cuore di una madre". Ciò è vero rispetto all'evidente maternità biologica ma anche rispetto al "parto" di ogni fedeltà alla Vocazione di Cristo. Non possiamo prescindere da una maternità spirituale per la nostra vita sacerdotale: affidiamoci fiduciosi alla preghiera di tutta la Santa Madre Chiesa, alla maternità del popolo, di cui siamo i pastori, ma al quale è affidata anche la nostra custodia e santità; domandiamo questo fondamentale sostegno.
Si presenta, cari confratelli, l'urgenza di "un movimento di preghiera che ponga al centro l'Adorazione eucaristica continuata, nell'arco delle ventiquattro ore, in modo che da ogni angolo della terra, sempre si elevi a Dio, una preghiera di adorazione, ringraziamento, lode, domanda e riparazione, con lo scopo precipuo di suscitare un numero sufficiente di sante vocazioni allo stato sacerdotale e, insieme, di accompagnare spiritualmente - al livello di Corpo Mistico - con una sorta di maternità spirituale quanti sono già stati chiamati al sacerdozio ministeriale e sono ontologicamente conformati all'unico Sommo ed Eterno Sacerdote, affinché sempre meglio servano a Lui e ai fratelli, come coloro che, ad un tempo, stanno "nella" Chiesa ma, anche, "di fronte" alla Chiesa (cfr Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis, n. 16), tenendo le veci di Cristo e, rappresentandolo, come capo, pastore e sposo della Chiesa" (Lettera della Congregazione per il Clero, 8 dicembre 2007).
Si delinea, ultimamente, una ulteriore forma di maternità spirituale, che sempre ha silenziosamente accompagnato, nella storia della Chiesa, l'eletta schiera sacerdotale: si tratta del concreto affidamento del nostro ministero ad un volto determinato, ad un'anima consacrata, che sia da Cristo chiamata e, quindi, scelga di offrire se stessa, le necessarie sofferenze e le inevitabili fatiche della vita, per intercedere in favore della nostra sacerdotale esistenza, vivendo, in questo modo alla dolce presenza di Cristo.
Una tale maternità, nella quale s'incarna il volto amorevole di Maria, va domandata nella preghiera, poiché solo Dio può suscitarla e sostenerla. Non mancano mirabili esempi in questo senso; si pensi alle benefiche lacrime di santa Monica per il figlio Agostino, per il quale pianse "più che non piangano le madri la morte fisica dei figli" (Sant'Agostino, Confessiones III, 11). Altro affascinante esempio è quello di Eliza Vaughan, la quale diede alla luce ed affidò al Signore tredici figli; degli otto figli maschi, sei divennero sacerdoti, e delle cinque figlie femmine, quattro divennero religiose. Poiché non è possibile essere veramente mendicanti di fronte a Cristo, meravigliosamente nascosto nel Mistero Eucaristico, senza saper concretamente domandare l'aiuto effettivo e la preghiera di chi Egli ci pone accanto, non abbiamo timore di affidarci alle maternità che, certamente, per noi lo Spirito suscita.
Santa Teresa di Gesù Bambino, cosciente del bisogno estremo di preghiera per tutti i sacerdoti, soprattutto per quelli tiepidi, scrive in una lettera rivolta alla sorella Celina: "Viviamo per le anime, siamo apostoli, salviamo soprattutto le anime dei sacerdoti [...]. Preghiamo, soffriamo per loro e, nell'ultimo giorno, Gesù sarà riconoscente" (Santa Teresa di Lisieux, Lettera 94).
Affidiamoci all'intercessione della Vergine Santa Regina degli Apostoli, Madre dolcissima, guardiamo con Lei a Cristo, nella continua tensione ad essere totalmente, radicalmente suoi; questa è la nostra identità!
Ricordiamo le parole del santo Curato d'Ars, patrono dei parroci: "Se io avessi già un piede in Cielo e si venisse a dirmi di ritornare sulla terra per lavorare alla conversione dei peccatori, vi ritornerei ben volentieri. E se per questo fosse necessario, che rimanessi sulla terra fino alla fine del mondo, alzandomi sempre a mezzanotte, e soffrissi come soffro, acconsentirei di tutto cuore" (Frère Athanase, Procès de l'Ordinaire, p. 883).
Il Signore guidi e protegga tutti e ciascuno, in special modo i malati e i più sofferenti, nella costante offerta della nostra vita per amore.
(©L'Osservatore Romano - 13 aprile 2008)
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