15 luglio 2008
Oggi la Chiesa festeggia San Bonaventura da Bagnoregio soggetto della tesi di libera docenza del Papa. Mons. Ravasi: "Joseph e il Serafico"
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Joseph e il Serafico
Pubblicato il testo con il quale il laureando Ratzinger conseguì la libera docenza: uno studio su uno dei grandi dottori della Chiesa, san Bonaventura da Bagnoregio
Il futuro Benedetto XVI confronta le teorie del vescovo di Albano con quelle del frate Gioacchino da Fiore
di Gianfranco Ravasi
Proviamo a mettere in fila una specie di parterre de rois della teologia. Ecco innanzitutto san Bonaventura da Bagnoregio
(Viterbo), ministro generale dell'Ordine dei frati minori francescani, teologo appassionato (scriverà il suo celebre Itinerarium mentis in Deum sul monte La Verna ove Francesco aveva ricevuto le stimmate), teso a coniugare filosofia e teologia, ragione e fede, speculazione e mistica. E poi biografo ufficiale del santo di Assisi, docente a Parigi, cardinale vescovo di Albano, presidente della Commissione preparatoria del Concilio di Lione. Sarà proprio in quella città, a Concilio appena avviato, che si concluderà la sua esistenza terrena assistito dallo stesso papa Gregorio X.
Era il 15 luglio del 1274; ci vorranno, però, più di due secoli (1482) per vederlo iscritto nell'albo dei santi e tre secoli(1588)per acclamarlo Dottore della Chiesa con l'appellativo di "Serafico".
Accanto a lui poniamo una sorta di geniaccio, libero e creativo, il calabrese Gioacchino da Fiore, vissuto nel secolo antecedente (morirà alle soglie di quello bonaventuriano, il 30 marzo 1202), mistico, teologo, esegeta, profeta, riformatore, fondatore e altro ancora, personaggio sempre in bilico sul crinale dell'ortodossia, ma capace di attirare anche per la sua scabrosa ecclesiologia l'attenzione critica di Bonaventura e dell'altro grande del Duecento, Tommaso d'Aquino.
L'accostamento tra lui e il Serafico era già stato operato nientemeno che da Dante. Nel Paradiso è lo stesso Bonaventura a presentarlo al poeta con queste parole: «...lucemi dallato il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato» (XII, 139-141). È su questo connubio che la nostra sfilata teologica prosegue con un salto cronologico che raggiunge i nostri tempi.
Eccoci a Monaco di Baviera a metà del secolo scorso; sulla cattedra di teologia fondamentale dell'università è assiso Gottlieb Söhngen (1892-1971), prima docente a Bonn e a Göttingen (accanto a Hartmann).
Tra i suoi discepoli c'è il poco più che trentenne Joseph Ratzinger che, sotto la sua guida, sta approntando l'abilitazione alla libera docenza, il cui soggetto è già limpido nel titolo Die Geschichtstheologie des heiligen Bonaventura, saggio pubblicato a Monaco nel 1959, tradotto nel 1971 in inglese a Chicago (The Theology of History in Saint Bonaventure), in francese a Parigi nel 1988 ( La théologie de l'histoire de saint Bonaventure) e in italiano presso Nardini di Firenze nel 1991.
Ora sono i frati della Porziuncola di Assisi, in connessione con la Libreria Editrice Vaticana, a riproporre quell'opera col titolo San Bonaventura. La teologia della storia.
E a questo punto possiamo ritrovare il filo che intreccia tutti questi personaggi. Spinto da Söhngen, Ratzinger s'inoltra nel pensiero bonaventuriano alla ricerca di un confronto fino ad allora mai esperito, quello del Serafico con Gioacchino da Fiore: «Bonaventura, infatti, nella sua interpretazione dell'opera creatrice divina dei sei giorni [ si veda Genesi 1] si era minuziosamente confrontato con Gioacchino, cercando di accogliere quanto poteva essere utile, ma integrandolo nell'ordinamento della Chiesa». Certo, il santo prendeva le distanze dal visionario calabrese su alcune prospettive radicali, come quella che scindeva la Chiesa cristologico- sacramentaria dalla comunità ecclesiale animata dallo Spirito Santo e retta dalla profezia da lui sognata, mettendo così in dialettica Cristo e lo Spirito. Tuttavia, Bonaventura si guardava bene dal rigettare in blocco il pensiero gioachimita, soprattutto nella sua dimensione escatologica, e la teologia della storia risultava un terreno fecondo per questo dialogo-confronto, capace di disamina critica, ma alieno da ogni collisione puramente conflittuale. È interessante notare pur nella complessa articolazione della riflessione bonaventuriana come la storia sia stata da lui custodita nel suo spessore reale, evitando ogni lievitazione apocalittica; eppure essa riesce a custodire nel suo grembo il germe dell'eterno che poi fiorirà. Come scrive Ratzinger, «spira già il soffio di un tempo nuovo in cui il desiderio dello splendore dell'altro mondo è plasmato da un profondo amore per questa terra sulla quale noi viviamo».
E adesso nel nostro parterre entra ovviamente un'altra altissima figura, quella di s. Agostino e del suo indimenticabile
De civitate Dei: per lui e per il Serafico la parola-suggello della storia è "pace".
Entrambi, commenta Ratzinger, «sanno che alla Chiesa, che spera nella pace per un "giorno avvenire", è affidato l'amore per il presente». Fermiamoci qui, accontentiamoci di segnalare che sono disponibili gli atti di un convegno tenutosi lo scorso gennaio e dedicato proprio alla ricerca ratzingeriana su Bonaventura e la sua teologia della storia.
Un'analisi molto variegata che si apre anche all'orizzonte contestuale del francescanesimo del Duecento, si affaccia naturalmente sulla permanenza del gioachimismo, si allarga sino a lambire l'attualità e non esita a interrogarsi su una "relazione problematica", quella del nesso tra filosofia e teologia della storia.
© Copyright Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2008
La pienezza della felicità secondo san Bonaventura
Come si educa il desiderio
Si è recentemente svolto a Bagnoregio l'annuale convegno organizzato dal Centro Studi Bonaventuriani sul tema "La felicità in san Bonaventura". Pubblichiamo la sintesi di uno degli interventi.
di Alessandro Ghisalberti
Università Cattolica del Sacro Cuore
Vorrei partire da una breve riflessione sull'oggi, ossia vorrei tentare di mostrare l'attualità del tema della mia lezione su Bonaventura cogliendo spunti di riflessione dalla prassi di oggi, da alcune emergenze del vivere che oggi sono presenti alla coscienza di chiunque intenda coniugare il binomio vita-felicità.
Oggi la ricerca della felicità di ciascun individuo arriva a manifestarsi come un "desiderio assoluto", nel senso che l'uomo d'oggi, così come egli si esprime attraverso le forme di comunicazione mediatica (talk televisivi, interviste o lettere a giornali o a settimanali, e così via), dimostra di avere la convinzione che la felicità sia il fine della vita, in ordine al quale tutto va rapportato. Si rivendica per così dire il diritto alla felicità soggettiva, che si concentra sull'appagamento immediato, hic et nunc, dei bisogni e dei desideri individuali, e in ordine a ciò le passioni vengono assunte tutte come positive. Le passioni, le emozioni, gli affetti, i legami sono tutte modalità attraverso le quali si esprime il desiderio di felicità, proiettate sulla soddisfazione del singolo, concentrato sul presente e sui desideri del proprio io, scarsamente attento ai bisogni e ai diritti degli altri, e reclamante la piena soddisfazione.
Di fronte a questa emergenza antropologica, la filosofia di oggi va alla ricerca della felicità su basi assai diverse da quelle innescate da Bonaventura, il quale era molto proiettato su di un cammino ascensionale, simbolico e fortemente teologico; oggi si ricorre infatti a percorsi di introspezione psicologica, che si avvalgono anche dell'incremento della riflessione razionale, ma che restano sempre disposti sul piano dell'immanenza soggettiva.
Un discorso più in verticale, come quello bonaventuriano, muove alla ricerca di un itinerario alla felicità in un ordine trascendente, ossia non legato alla soddisfazione primaria delle attese del soggetto sul piano dell'esistenza storica concreta, bensì volto alla ricerca di qualcosa di beatificante in modo permanente, completo e non più minacciato dall'erosione e dal venir meno.
La partenza dell'itinerario bonaventuriano verso la felicità si confronta certamente con i moti appetitivi e desiderativi dell'uomo storico, non assumendoli però come richieste di una felicità da raggiungere qui e ora interamente, bensì come dati innescanti un cammino di conoscenza esteriore e interiore che consente all'uomo di raggiungere alla fine la soddisfazione e l'appagamento pieno dei propri desideri. Bonaventura sviluppa percorsi di elevazione mentale e di potenziamento del desiderio umano, relativizzando la felicità che si può conseguire nella vicenda storica concreta, e puntando verso la pienezza di una felicità che non possa più cessare. Una prospettiva caratterizzabile, sinteticamente, come passaggio dalla felicità perseguibile nell'immanenza della soggettività alla felicità conseguibile mediante l'elevazione e il radicamento nella trascendenza.
Un tema originale e delicato della speculazione bonaventuriana è costituito dall'espansione della dottrina dell'esemplarismo in quella della "riconduzione" (reductio), cui Bonaventura ha dedicato un opuscolo intitolato: Le scienze ricondotte alla teologia.
Il significato di reductio nell'opera bonaventuriana non è né facile, né univoco: la "riduzione" o "riconduzione" esprime anzitutto la tendenza della metafisica a ricondurre le cause particolari al loro fondamento ultimo. La "riduzione delle arti", ossia delle diverse discipline scientifiche, conosce un primo livello, nel quale ogni singola scienza va posta, secondo un preciso ordine, per essere ricondotta al livello superiore. Segue l'istanza superiore, che ricerca la presenza dell'impronta del creatore nelle cose conosciute dalle scienze, avvalendosi delle conoscenze rivelate dalla Sacra Scrittura.
Tutte le arti vanno pertanto "ricondotte" alla teologia nel senso che, passandone in rassegna i fondamenti epistemologici, si può vedere come il dinamismo specifico di ogni disciplina contenga le basi, le premesse necessarie, per un rinvio a una conoscenza maggiore, che è quella delle idee di Dio; a essa l'uomo partecipa da un lato attraverso il processo di illuminazione, e dall'altro lato mediante la Sacra Scrittura, che è manifestazione della luce e del pensiero di Dio incarnatosi nel linguaggio scritto della rivelazione biblica.
L'Itinerario della mente in Dio è un perfetto modello teorico della riduzione bonaventuriana; esso viene presentato come il percorso del credente che si riconosce "povero" e accetta di camminare "nel deserto". Bonaventura si rivolge alla categoria francescana del "povero" nel senso evangelico ("beati i poveri in spirito"), ossia a quanti non confidano nelle proprie idee in modo tale da non aver bisogno di ricercare nulla di più; povero è colui che non si riconosce nella portata totalizzante della scienza, così come povero è chi si professa socraticamente "ignorante". Anche il deserto è una categoria riferita alla Bibbia, al cammino nel deserto compiuto dal popolo eletto, e assunto come espressione del distacco che deve contrassegnare chi segue il cammino indicato da Dio, che deve liberarsi da ogni forma di possesso o di attaccamento alle persone o alle cose. L'uomo che cammina nel deserto è l'icona perfetta di quello che la teologia francescana chiamava l'homo viator, l'uomo "viatore", nel senso che intende l'esistenza come un camminare, un essere in via (sulla terra) verso la patria (il cielo).
Si noti come il tragitto alla pienezza della felicità sia tutto incentrato sull'interiorità; infatti, nell'ordine, le sei tappe dell'itinerario sono le seguenti: contemplare Dio attraverso le sue tracce nell'universo; contemplare Dio nelle tracce presenti nella struttura degli esseri dotati di sensibilità; ricercare Dio nella struttura interiore (intelletto e volontà) dell'uomo; elevarsi a Dio attraverso i doni della grazia infusa sul credente; contemplare l'unità divina attraverso il nome dell'Essere; contemplare la dinamica trinitaria attraverso il nome del Bene.
La via alla felicità si compie nell'impegno dell'anima a educare il desiderio, a compiere le riduzioni necessarie, per essere libera di accogliere la grazia e i suoi doni, con l'esercizio della pura elevazione e speculazione, contemplando sul modello della riduzione dionisiana dei nomi divini al livello dell'apofatismo che dona la tenebra luminosissima e il silenzio eloquentissimo; solo qui accade l'unione dell'amante con l'amato, nella perfetta consumazione dell'eros che si è agapizzato, nell'appagamento totale dell'unione amorosa unificante, che di due ha fatto uno solo. L'itinerario si completa quando si arresta lo sforzo della speculazione e si apre lo spazio dell'affetto, ossia dell'apertura e dell'invocazione del dono dell'amore divino, perché solo Dio può concedere il passaggio all'"estasi".
I capitoli centrali dell'Itinerario della mente in Dio sono contrassegnati da una forte ripresa sintetica delle categorie filosofiche, che lascia vedere come nella ricerca della felicità vengano accolte istanze dell'ontologia parmenidea, incentrate sul nome dell'essere, accanto a quelle proprie della metafisica del bene e dell'amore propria della tradizione platonico-agostiniana.
Nel contesto dell'opera bonaventuriana, il nome dell'essere è caratterizzato dalla valenza ontologica monoteistica (identità di essere e uno); vengono tuttavia esplicitate anche la valenza trinitaria e quella cristologica: l'essere è "sostanza", ossia coincide con l'essenza stessa di Dio, l'unica e indivisa deitas, che è comune alle tre persone, e che consente alla seconda persona di presentarsi come Io sono (Ego sum). È la stessa modalità della rivelazione del nome descritta dall'Esodo nella fiamma del roveto ardente a richiamare con la sua carica simbolica il mistero del Verbo incarnato. Il nome proprio di Dio è proclamato in un chiaro contesto simbolico: roveto/carne; fiamma/anima di Cristo; luce del roveto in fiamme/divinità congiunta alla carne mediante l'anima.
Potremmo leggere l'esito di questa via alla felicità, che al suo avvio è parsa fortemente intellettuale, come capace alla fine di includere l'aspetto della carne e del desiderio amoroso, che un filosofo contemporaneo, Jean-Luc Marion, considera basilare per la costituzione del fenomeno erotico (il termine fenomeno è assunto secondo il linguaggio rigoroso della fenomenologia). Bonaventura, a proposito dell'essere purissimo, instaura una sorta di riduzione fenomenologica, sforzandosi di collocarlo nella purezza della sua fenomenicità originaria, sottraendolo a ogni volontà di comprenderlo come se si trattasse di un oggetto da conoscere categorialmente o da amare secondo la logica della reciprocità.
L'oggettivazione dell'essere è contro l'esito beatificante della contemplazione pura, così come il bisogno di reciprocità risulta essere la pretesa assurda di catturare l'amore mediante categorie logico-inferenziali, come se l'amore potesse essere negoziato dagli amanti, attraverso un compromesso doveroso. Invero, ogni logica oggettivante o di scambio non può che ostacolare l'estasi, perché né l'essere purissimo né il sommo bene o amore possono essere oggetti da possedere o da scambiare. Nell'opera Il fenomeno erotico Marion osserva molto puntualmente che l'amore non deve essere inteso come essere amato: l'amore permette all'amante di non innescare la razionalità calcolatrice, e la libertà erotica comprende la libertà di perdere. Non si trova che una sola prova d'amore: dare senza essere ricambiati e senza riprendersi niente, quindi rischiando di perdere ed eventualmente di perdersi.
Raccogliendo alcuni spunti conclusivi, si deve anzitutto rilevare che, nel possesso di Dio, la carità ha un ruolo preminente rispetto alle altre virtù teologali: fede e speranza preparano l'uomo in cammino nel tempo alla gloria futura, mentre la carità conduce propriamente alla visione e al godimento di Dio fine ultimo e Sommo Bene. Nella fede e nella speranza vi è come l'inizio dell'amore che conduce ad aderire a Dio, ad accogliere Colui che si rivela; nella circolarità che contrassegna le virtù teologali, la carità si delinea come loro compimento. Quando l'anima beata accede alla vita eterna il bene da futuro diviene presente, e la speranza come tale non ha più ragion d'essere dal momento che Dio è visto, amato e posseduto perfettamente; lo stesso accade per la fede, la cui conoscenza nello stato di gloria viene superata nel perfetto e immutabile possesso della visione divina.
Ulteriore elemento determinante del pensiero bonaventuriano: l'unione con Dio nella visione beatifica si attua attraverso un superamento della dimensione propriamente intellettiva, per realizzarsi nella sfera affettiva della volontà-amore: se è con l'intelletto che l'anima partecipa alla conoscenza di Dio, è con la volontà che essa fruisce dell'eterno amore divino nel quale raggiunge l'unione perfetta. Per Bonaventura dunque vi è una superiorità della forza unitiva della volontà rispetto all'intelletto, come scrive in un passo del Breviloquio: "Sulla gloria celeste, questo in sintesi si deve sostenere, cioè che in essa il premio sostanziale consiste nella visione, nella fruizione e nel possesso dell'unico Sommo Bene, cioè di Dio, che i beati vedranno faccia a faccia, cioè apertamente e senza veli; del quale fruiranno avidamente e con diletto, che possederanno inoltre eternamente".
Per adattarsi alla nuova situazione in cui si troverà immesso, il corpo sarà trasfigurato, glorificato: per restare in unione con un'anima resa totalmente spirituale dall'amore di Dio, si spiritualizzerà assottigliandosi, rendendosi conforme alla sua anima, diventata conforme a Dio.
"Che cosa vedrò?" si domanda l'anima nel Soliloquio; la risposta di Bonaventura è che all'anima beata sarà concessa la visione dell'essenza di Dio, della luce divina: l'anima deiforme potrà vedere Dio chiaramente con la ragione, amarlo con la volontà e possederlo eternamente con la memoria, e questa è l'eternità della beatitudine, la felicità posseduta attraverso una vita senza fine e soddisfatta nel possesso di ciò che ha massimamente desiderato. Teologicamente va comunque aggiunto che non ci sarà coincidenza ontologica totale tra Creatore e creatura; la contemplazione dell'essenza divina non potrà esaurire l'assimilazione dell'oggetto contemplato, dal momento che la Sapienza increata non può essere assimilata completamente e nella sua totalità dalla creatura, che è beata in Dio, proprio perché Dio resta il solo e unico Dio.
(©L'Osservatore Romano - 14-15 luglio 2008)
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