5 settembre 2008

Mons. Ravasi: "Europa, riparti dalla bellezza" (Osservatore Romano)


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La storia dei popoli e il patrimonio culturale della Chiesa al centro di un convegno e di un master di studi a Salamanca

Europa, riparti dalla bellezza

Il 5 e 6 settembre 2008 presso la Pontificia Università di Salamanca si svolge il convegno "Il patrimonio culturale della Chiesa. La bellezza al servizio dell'evangelizzazione e della cultura". A inaugurare i lavori sarà l'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa. Ne anticipiamo la relazione.

di Gianfranco Ravasi

È con emozione che mi accingo a parlare negli spazi di una istituzione così gloriosa come è la Pontificia Università di Salamanca che tanto ha contribuito allo sviluppo della cultura europea, a partire dalla riflessione filosofica e teologica. Rivolgo perciò con profonda stima e simpatia il mio saluto a tutte le autorità religiose, civili e accademiche presenti e a tutti coloro che partecipano a questo congresso rendendolo una straordinaria occasione di riscontro e studio.
Alla base c'è una convinzione già affermata in passato nella lettera che la Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa aveva inviato a tutti i vescovi il 19 marzo 1994: "Dobbiamo combattere la semplicistica e superficiale convinzione che la cura animarum possa prescindere da tali strumenti culturali ritenendoli un lusso e non uno strumento essenziale per l'evangelizzazione".
Certo i beni culturali sono in sé espressioni del genio e della creatività di una civiltà e quindi incarnano la cultura di un popolo. Essi, però, quando sono innestati nella comunità ecclesiale sono anche beni pastorali, veri e propri segni della fede, capaci di narrare non solo la storia di un popolo, ma anche lo splendore della sua adesione a Dio e della sua parola. Due saranno sostanzialmente le tappe della nostra riflessione, necessariamente semplificata essendo l'orizzonte proposto dal titolo di sua natura sterminato. In un primo momento prenderemo in considerazione, attraverso alcuni modelli culturali (e quindi non solo legati all'arte), l'influsso decisivo che le Sacre Scritture hanno esercitato sul patrimonio culturale europeo. In un secondo momento ci soffermeremo sui valori capitali, spirituali, etici e civili, che il cristianesimo ha impresso nella civiltà europea, valori ancora oggi, necessari per ridonare in pienezza un'autentica fisionomia umana e culturale al nostro continente.
C'è un suggestivo gioco di parole che è stato coniato dai giovani dei vari Paesi europei in occasione dei loro incontri di matrice religiosa: essi parlano di Eur-hope, un'Europa dunque da costruire nella speranza e non solo nel realismo dell'economia e della politica. Una comunità che sappia ancora tendere verso ideali e orizzonti più alti, stimolati dalla cultura, da una "politica" che riveli il senso più nobile del termine e da una spiritualità che non è solo confessione religiosa ma anche ricerca del senso ultimo dell'esistenza e dei valori morali e umani che trascendono interessi e contingenze.
Per raggiungere questa meta è paradossalmente necessario risalire lungo il fiume del passato, ritrovando le proprie sorgenti umane e spirituali. È ciò che il grande Goethe esprimeva in modo folgorante con la battuta: "La lingua materna dell'Europa è il cristianesimo". Anche Kant era convinto che "il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà".
Certo, a prima vista l'Europa si rivela come un mosaico, un vero e proprio arcipelago di culture: c'è l'area latina ma anche quella germanico-baltica, c'è l'area slava e c'è quella celtica. L'Europa non ebbe quasi mai un'unità civica o politica o storica. Tuttavia ebbe sostanzialmente per secoli e secoli una sua unità civile, culturale. L'anima cristiana di questa unità interiore, spesso appannata o coperta da sedimenti ma mai spenta, ebbe anche essa molte iridescenze: pensiamo solo al rilievo della filosofia greca o all'incidenza del diritto romano ma anche, se giungiamo alle epoche più recenti, pensiamo all'influsso dell'Illuminismo liberale o del movimento operaio, cioè della ragione e della lotta per la giustizia sociale.
Tuttavia è indubbio che il nodo d'oro che tenne insieme questa molteplicità o il filtro che ne vagliò gli effetti o anche la stella polare di riferimento o di contrasto fu il cristianesimo.

Aveva ragione Paolo vi quando affermava simbolicamente che l'Europa "nasce dalla croce, dal libro e dall'aratro". Non per nulla a rinverdire il termine Europa, caduto in disuso, fu proprio un Papa, Nicolò v, nel 1453, purtroppo in un momento tragico, quello che - con la conquista di Costantinopoli - segnava la frattura tra l'Occidente e l'Oriente europeo.

Il cristianesimo, con la sua celebrazione della persona e della dignità umana, con la contemplazione (ora) e l'impegno sociale (labora) del monachesimo, con la riflessione del Medio Evo e con la cultura gloriosa dell'Umanesimo e del Rinascimento, costituiva il "grande codice" ideale dell'Europa. In particolare lo era attraverso la Bibbia, coinvolgendo così anche le matrici ebraiche. Non per nulla persino Nietzsche nei materiali preparatori alla sua opera Aurora doveva riconoscere che "per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e Tetrarca c'è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera".
Il pittore Marc Chagall era convinto che per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell'"alfabeto colorato della speranza" che sono le Sacre Scritture, tant'è vero che senza la loro conoscenza è impossibile decifrare l'iconografia dell'arte europea.
È naturalmente impossibile delineare ora la planimetria di questa storia culturale che ha nel cristianesimo quasi il suo "grande lessico", per usare un'espressione del poeta francese Paul Claudel. Si tratta, infatti, di un rapporto estremamente complesso, non di rado dialettico e fin conflittuale, che però risulta decisivo per la comprensione della nostra stessa identità.
Muovendoci allora su una traiettoria puramente esemplificativa, ci accontenteremo di indicare solo alcuni modelli che cerchino di rappresentare in modo emblematico questo immenso influsso. Un primo modello potrebbe essere definito come "reinterpretativo" o "attualizzante": si assume il testo o il simbolo biblico e lo si rilegge e incarna all'interno di coordinate storico-culturali nuove e diverse. Pensiamo alla figura di Giobbe che, dopo esser divenuta per secoli una immagine del Cristo paziente nell'arte sacra, si trasforma in un segno personale nella Ripresa di Kierkegaard: in Giobbe egli legge la sua esperienza infranta di amore e il tentativo di recuperarla dal passato ad opera di Dio. Scriveva il filosofo danese: "Io non leggo Giobbe con gli occhi come si legge un altro libro, ma lo metto sul cuore (...) Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima".

E, per stare allo stesso filosofo, pensiamo al sacrificio di Isacco (Genesi 22) così come è letto da lui in Timore e Tremore: il terribile e silenzioso cammino di tre giorni affrontato da Abramo verso il monte della prova diventa il paradigma di ogni itinerario di fede, segnato dalla luce e dalla tenebra, in cui il credente deve giungere fino alla spoliazione totale di tutti gli appoggi umani, compresi gli affetti e le relazioni fondamentali. Un esegeta, Gerhard von Rad, in una sua opera intitolata Il sacrificio di Isacco, raccoglierà attorno al testo biblico, oltre a quelle di Kierkegaard, le reinterpretazioni attualizzate di Lutero, di Rembrandt e di Kolakowski, ma già la tradizione giudaica nella 'aqedah, cioè nella "legatura" sacrificale di Isacco sull'altare del monte Moria, aveva visto il mistero della sofferenza del popolo ebraico e si era interrogata sul silenzio di Dio (in particolare in connessione con la tragica vicenda della Shoah per le persecuzioni naziste).
C'è un altro modello da individuare: esso elabora i dati biblici in modo sconcertante e per questo lo potremmo definire come degenerativo. Nella stessa storia della teologia e dell'esegesi si sono verificate spesso deviazioni e deformazioni interpretative. Il testo sacro si trasforma in un pretesto per parlare d'altro ("allegoria") o persino per ribaltarne il senso originario. Così accade anche nella storia della cultura. Prendiamo ancora come emblema il libro di Giobbe. La tradizione, infatti, ignorando l'altissimo poema che costituisce la sostanza dell'opera, si è attestata quasi esclusivamente sul prologo e sull'epilogo (cc. 1-2 e 42). Qui Giobbe appare solo come l'uomo paziente che supera la prova ed è alla fine ricompensato da Dio. In realtà il corpo centrale dell'opera presenta, invece il dramma della fede posta di fronte al mistero di Dio e del male. L'approdo di una ricerca lacerata e acre è in quella professione di fede che sigilla realmente l'intero scritto: "Io ti conoscevo per sentito dire: ora i miei occhi ti vedono" (42, 5).
L'arte cristiana, invece, sulla scia di una interpretazione riduttiva già presente nel Nuovo Testamento (Giacomo, 5, 11) e nei Padri della Chiesa, si accontenterà di un Giobbe collocato sul letamaio, pronto a sopportare le più atroci sofferenze, l'ironia della moglie e la contestazione degli amici, in attesa della liberazione finale.
Ma la "degenerazione" del significato autentico del libro biblico può essere ulteriormente illustrata all'interno dell'enorme ripresa letteraria che la storia di Giobbe ha subito (da Goethe a Dostojevskij, da Roth a Singer, da Bloch a Camus). Esemplare in questo senso è la Risposta a Giobbe di Carl Gustav Jung (1952) in cui il celebre sofferente biblico si erge come il simbolo della moralità e della responsabilità di fronte a un Dio del tutto libero da ogni etica, nella sua onnipotenza e onniscienza. Cristo sarà colui che, provenendo da Dio ed entrando nell'umanità, riuscirà ad imparare la lezione morale di Giobbe e ad ergersi contro la durezza "immorale" e l'insondabilità del Padre celeste. Come è evidente, il testo biblico è ormai solo uno spunto sul quale si intessono nuove trame e nuovi significati e questo accade per molte figure bibliche.
Tuttavia dobbiamo riconoscere che, se è già segno di fecondità e di forza dell'originale biblica anche la lettura deviata, una grandiosa testimonianza di potenza spirituale e culturale per la Bibbia la offre quando è fatta trasparire in tutta la sua ricchezza simbolica e teologica. E per questo che vorremmo parlare di un terzo modello di tipo "trasfigurativo". L'arte riesce spesso a rendere visibili risonanze segrete del testo sacro, a ritrascriverlo in tutta la sua purezza, a far germogliare potenzialità che l'esegesi scientifica solo a fatica conquista e talora del tutto ignora. Gaston Bachelard, ad esempio, diceva del famoso pittore Marc Chagall che nei suoi quadri "egli legge la Bibbia e subito i passi biblici diventano luce".
In questo senso ci sembra particolarmente indicativa la grande musica che nel periodo storico che va dal Seicento agli inizi dell'Ottocento ha spesso superato le arti figurative nel divenire interprete della Bibbia (Carissimi, Monteverdi, Schutz, Pachelbel, Mozart, Bruckner e tanti altri). Si immagini solo cosa possa significare un oratorio come Jefte di Carissimi o il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi o una Passione secondo Matteo di Bach o, per venire ai nostri giorni, la Passione secondo Luca di Penderecki o i Chichester Psalms di Bernstein. Per avere un esempio specifico ed essenziale, basterebbe seguire la suprema rilettura che Mozart fa di un salmo letterariamente modesto, il brevissimo 117 (16), caro però ad Israele perché proclamava le due virtù fondamentali dell'alleanza che lega Dio al suo popolo, cioè la veritas et misericordia, come dice la versione latina della Volgata usata dal musicista, ovvero l'"amore e fedeltà", in una traduzione più vicina all'originale ebraico. Ebbene, il Caudata Dominum, in fa minore dei Vespri solenni di un confessore (K 339) di Mozart riesce a ricreare la carica teologica e spirituale, ebraica e cristiana del salmo come non saprebbe mai fare nessuna esegesi testuale diretta.
A questo punto il nostro orizzonte può allargarsi, assumendo il concetto di cultura nel senso più lato del termine, destinato cioè a percorrere trasversalmente tutte le attività umane, attribuendo ad esse un senso più profondo, allargandosi quindi anche all'etica e all'esistenza civile e sociale in genere. Ebbene, anche in questo caso il contributo del cristianesimo è significativo. È, comunque, importante tener presente in via preliminare - anche per la storia presente dell'Europa - l'illuminante contrappunto che Cristo propone in quella sua celebre asserzione: "Date a Cesare quel che è di Cesare e date e Dio quel che è di Dio" (vedi Matteo, 22, 15-22).
La sfera politica, economica, "laica" ha una sua dignità e una sua autonomia emblematicamente rappresentata da un parlamento comune e dalla moneta, l'euro. Ma c'è un'altra sfera che è distinta ma non antitetica ed è quella della persona umana, della cultura, della spiritualità ove si configura l'"immagine" non di Cesare ma di Dio: infatti, "Dio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò" (Genesi, 1, 27).
L'Europa di Cesare e l'Europa di Dio, cioè immanenza e trascendenza, politica e religione, economia e cultura devono intrecciarsi tra loro, senza reciprocamente prevaricare. In questa luce il cristianesimo è, come affermava Francesco De Sanctis, spirito "laico" dell'Ottocento, la radice del nostro "sentimento religioso che è lo stesso sentimento morale nel suo senso più elevato" (così nell'opera La giovinezza).

È su questa traiettoria che vorremmo, proprio sulla scia dell'anima cristiana che pulsa sotto la superficie della nostra civiltà, proporre un appello che impedisca la dissoluzione della nostra specificità, della nostra autenticità, della nostra identità gloriosa.

È un discorso passibile di mille sfaccettature: noi ne scegliamo - considerati i limiti di questa riflessione soltanto "provocatoria" e quasi "impressionistica" - solo tre, componendole in un ideale trittico nel quale tutti riescano a riconoscersi e a impegnarsi, dato che "non possiamo non dirci cristiani" per le ragioni che Croce ebbe già a formulare nel suo famoso intervento del 1942 su La Critica.
È innanzitutto necessario lottare contro la smemoratezza nei confronti delle proprie radici, dei valori costitutivi, dell'identità genuina dell'Europa. Lo scrittore francese Georges Bemanos in una sua analisi dello svuotarsi dell'anima della nostra società, sviluppata nel saggio La France con tre les Robots, dichiarava: "Una civiltà non crolla come un edificio; si direbbe molto più esattamente che si svuota a poco a poco della sua sostanza finché non ne resta più che la scorza".
C'è il rischio che l'Europa si riduca proprio a scorza, a tronco arido, avendo disseccato la linfa delle sue radici profonde cristiane, votata solo alla "virtualità" (i "Robots" che si affacciavano sul panorama europeo degli anni Quaranta in cui viveva Bemanos), appiattita su modelli estrinseci come quello americano contemporaneo.
Le cattedrali e i gloriosi monumenti si trasformano allora, come diceva il poeta tedesco Wilhelm Willms, in "vuoti gusci di chiocciola", percorsi solo da distratti sciami di turisti, privi di cuore, di vita, di canti, di voci, di fede. I nobili segni della nostra cultura si riducono, così, ad essere conchiglie senza l'eco del mare del passato. Alla povertà e al vuoto ci si abitua al punto tale da non avvertirli più come tali, secondo quanto ammoniva il filosofo tedesco Martin Heidegger nella sua opera Sentieri interrotti: "Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà, perché il mondo diventa sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza".
Contro la smemoratezza è necessario riscoprire il ricordo nel suo significato etimologico di "riportare al cuore", cioè alla coscienza della nostra umanità, i valori sorgivi della nostra civiltà.
Una seconda lotta è da intraprendere ed è quella, conseguente alla precedente e ad essa connessa, contro la superficialità, la banalità, la vacuità, la volgarità, la bruttezza. È un ritorno all' etica e alla bellezza che erano le stelle fisse del cielo della civiltà europea nei secoli, proprio sullo stimolo del messaggio cristiano, un annunzio di giustizia e di bellezza, di verità e di luce, di amore e di armonia.
Aveva ragione Benedetto Croce quando in un opuscolo del 1935, Orientamenti, ammoniva: "Non vi date pensiero di dove vada il mondo, ma di dove bisogna che andiate voi per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi del vostro passato tradito".
È necessario un sussulto di moralità, un supplemento di anima, una purificazione alle fonti della bellezza, realtà che hanno reso l'Europa un vessillo tra i popoli del mondo.
È spesso citato l'apologo che il filosofo danese cristiano Soeren Kierkegaard ha lasciato nei suoi diari: "La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è la rotta ma ciò che mangeremo domani". Sempre più quella sorta di Moloch della comunicazione che è la televisione comunica solo - a folle di persone con le mani alzate in segno di resa o di adorazione - ciò che dobbiamo mangiare, indossare, le mode e i modi della vita.
Manca una voce che indichi la rotta, il senso della vita, che ci interpelli sul bene e sul male, sul giusto e sull'ingiusto, sul vero e sul falso, sull'esistere e sul morire.
Infine c'è un ultimo impegno che vogliamo evocare per ritornare ad essere autenticamente europei ed è quello della lotta contro gli estremi, gli eccessi, la spirale delle pure antitesi. La cultura greca ci ricordava che il sapiente è un uomo meth 'orios, "da crinale", capace di procedere con intelligenza e cautela sul vertice tagliente di un monte, lungo il quale si distendono due versanti (così l'alessandrino ebreo Filone nel De somniis).
Da un lato, infatti, si può scivolare lungo il versante di un sincretismo che diventa relativismo incolore e che spegne e dissolve la nostra identità specifica. Dostoevskij con veemenza gridava: "L'Europa ha rinnegato Cristo. È per questo, è solo per questo che sta morendo".
D'altro lato, c'è il rischio di precipitare lungo il versante del fondamentalismo che diventa esclusivismo acceso e che cancella ogni rispetto e ignora ogni valore altrui, in una sorta di foga iconoclastica, feroce e impaurita al tempo stesso, nei confronti di tutto ciò che è diverso. È, invece, indispensabile ritrovare la grande tradizione del dialogo, del confronto tra le culture e le religioni, nello spirito di quel cristianesimo genuino - spesso tradito - che vedeva i semina Verbi, cioè i "semi del Verbo" divino nella molteplicità della ricerca umana.
Consapevoli della propria identità, non si diventa integralisti, ma capaci di confronto, di "esaminare ogni cosa, tenendo ciò che è buono", come suggeriva Paolo ai cristiani greci di Tessalonica (I, 5, 21).
È, dunque, risalendo lungo il corso del fiume della storia europea sino alle sue sorgenti che riusciamo a riproporre un'Europa che non sia solo geografica o economica. E che questo pellegrinaggio ideale, necessario per credenti e per agnostici, sia decisivo lo ricordava in modo suggestivo uno dei massimi poeti del Novecento, Thomas Stearns Eliot, un americano che scelse l'Europa come patria:
"Un cittadino europeo può non credere che il cristianesimo sia vero e tuttavia quel che dice e fa scaturisce dalla cultura cristiana di cui è erede. Senza il cristianesimo non ci sarebbe stato neppure un Voltaire o un Nietzsche. Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto".

(©L'Osservatore Romano - 5 settembre 2008)

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Meno male che c'è ravasi a scrivere qualcosa di interessante. A volte ho l'impressione che i cardinali della curia non si spendano mai molto per interventi di un certo tipo. Un tempo quando c'era ratzinger c'era sempre da imparare qualcosa, oggi ad esempio card. Levada non si spreca molto... Sul sito del vaticano nella CDF ci sono solo interventi di ratzinger, nessuno di Levada che c'è da tre anni...

Marco

mariateresa ha detto...

Marco non ha tutti i torti, anzi ha ragione. Direi che Levada non un intellettuale, non c'è dubbio.
Ma intellettuali al livello del nostro papa non si trovano dietro l'angolo, neanche in Vaticano.

euge ha detto...

Caro Marco siamo d'accordo al 100% Purtoppo, mi sono chiesta tante e tante volte perchè Levada sia finito proprio lì. Di documenti la CDF non ne prepara più con Ratzinger prefetto ne usciva quasi uno al giorno ( tanto per dire ). I pochissimi che sono usciti, firmati da Levada sono rielaborazioni di pezzi presi qua e la dai documenti scritti e studiati da Ratzinger. Caro Marco alla CDF vivono di rendita! Forse sarebbe il caso di cominciare a pensare ad un prefetto che sia degno di cotanto incarico.

Anonimo ha detto...

Il discorso di Mons. Ravasi è buono, però lo sarebbe stato molto di più se avesse tenuto conto dell'esortazione post-sinodole "Ecclesia in Europa" del 2003 e del libro dell'allora Card. Ratzinger "Wendezeit fur Europa" (1991) come anche gli altri testi più recenti. Per es. "Senza radici", Pera - Ratzinger, 2004.
Inoltre, perchè non parlare delle Università, della lingua, del calendario, del Papato, del pellegrinaggi, ecc.