1 ottobre 2008

In anteprima mondiale «Der Mensch», l'opera inedita di Romano Guardini: "L'uomo supera infinitamente l'uomo" (Osservatore Romano)


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In anteprima mondiale «Der Mensch», l'opera inedita di Romano Guardini

L'uomo supera infinitamente l'uomo

Uscirà nel gennaio 2009 presso la Morcelliana, in prima edizione mondiale e come volume iii/i dell'opera omnia, Der Mensch. Grundzüge einer christlichen Anthropologie ("L'uomo. Fondamenti di un'antropologia cristiana"), il lavoro di una vita, che Romano Guardini, nonostante l'impegno, non ha mai portato a termine. "L'autore - scriveva nel 1939 - lavora a questa impresa già da molti anni, ma non è ancora in grado di prevedere quando potrà essere condotta a termine". L'opera che viene alla luce, curata da Massimo Borghesi e Carlo Brentari, è composta di sette parti: "Introduzione e posizione del problema"; "L'incontro con sé e con il mondo"; "L'origine e la creazione"; "Prova, peccato, colpa"; "Redenzione; l'esistenza cristiana"; "Il compimento". A quarant'anni dalla morte di Guardini (1 ottobre 1968) ecco in anteprima parte dell'introduzione.


di Romano Guardini

In queste lezioni cercherò di impostare la questione "che cos'è l'uomo" e di tracciare le linee portanti di una risposta. Si tratta soltanto di un tentativo, e di un tentativo ha tutti i vantaggi e gli svantaggi; esso però sorge da una riflessione che prosegue ormai da circa trent'anni.
Una sempre più ampia letteratura sull'argomento mostra che la questione antropologica si è posta al centro del pensiero del nostro tempo. Ciò ha delle ragioni molto profonde. Se cerchiamo di cogliere il carattere peculiare del pensiero compreso tra il diciottesimo secolo e l'inizio del ventesimo, esso ci appare dominato da due strutture: quella meccanicistica delle scienze della natura e quella umanistica delle scienze dello spirito. Pur nella loro diversità di fondo, le due modalità di pensiero avevano un elemento comune: erano sicure di se stesse e convinte di conoscere profondamente la realtà del mondo e dell'uomo. Naturalmente ciò non era del tutto vero. Ovunque, sia dietro le affermazioni teoriche che dietro il comportamento pratico, era all'azione lo scetticismo. Tutti i pensieri e le prese di posizione minacciavano prima o poi di dissolversi nel relativismo. Eppure si ammetteva, per consenso generale, che esistesse un'immagine certa dell'esistente, nella quale anche l'uomo aveva il suo posto.
Nella prospettiva delle scienze naturali l'uomo era una parte della natura; una parte altamente differenziata, certo, ma sempre natura. Che cosa fosse la natura sembrava fondamentalmente chiaro, per quanto i singoli problemi fossero ben lungi dall'essere esauriti. La natura era, appunto, l'elemento naturale, l'ovvio punto di partenza per chiarire anche il problema dell'uomo. Anche la prospettiva umanistica, delle scienze dello spirito, prendeva le mosse da una sfera il cui senso e il cui valore apparivano evidenti, vale a dire la cultura. E anche qui l'uomo era determinato univocamente: egli era il prodotto della cultura, la creava e al tempo stesso ne veniva plasmato.
Ho parlato sinora dell'aspetto propriamente teorico del problema, vale a dire dell'immagine che l'uomo si faceva del mondo e di se stesso. Ora si dovrebbe però porsi al di là di tale aspetto per mostrare come questa immagine fosse a sua volta l'interpretazione di qualcosa di vivente e anteriore. Mi riferisco al peculiare sentimento che l'uomo aveva della vita, al modo in cui egli faceva esperienza del mondo e di se stesso nell'incontro con il mondo, alla direzione in cui procede il suo sviluppo di sé, ai giudizi e alle prese di posizioni involontarie che precedono ogni pensiero - fino a quel fattore enigmatico che si può vedere come l'entelechia di un periodo storico, vale a dire la configurazione fondamentale che nel concreto divenire di un'epoca preme verso la propria realizzazione e la cui più decisa estrinsecazione consiste nei moti interiori del gusto, del desiderio e della ripugnanza... Tutto questo si è sviluppato nella direzione sopra descritta. Ciò che deviava da essa veniva percepito come un residuo non ancora posto sotto controllo, come un momento di disturbo o di opposizione di secondaria importanza o un pericoloso avvicinamento allo scetticismo e al disorientamento.
Vi era poi una terza via del pensiero e del sentimento della vita, la quale, per impiegare un concetto di Nietzsche, potrebbe essere definita eraclitea: mi riferisco qui a certi elementi dello Sturm und Drang e a determinati livelli di lettura dello stesso Goethe. Ma vanno ricordati anche Hölderlin e la modalità di comprensione dell'antichità che è stata introdotta da Creutzer, Welcker e Bachofen e che non era solo una teoria scientifica, ma esprimeva un atteggiamento dell'animo. Tutto questo è infine stato infranto, e nella maniera più impetuosa, da Nietzsche. Questo atteggiamento non è stato ripreso dal diciannovesimo secolo; esso è stato abbandonato o considerato come un residuo di opposizione da non prendere sul serio. Ciò poté avvenire tanto più facilmente in quanto tale atteggiamento, ripetutamente alleatosi con l'irresponsabilità estetizzante e con il relativismo etico, ben celava il suo vero carattere. In verità esso non faceva parte del diciannovesimo secolo ma aveva già oltrepassato lo spartiacque storico per confluire nella successiva immagine del mondo.
Non è possibile approfondire in poche righe quest'ultima affermazione, così mi limiterò a fornire alcune indicazioni. La concezione meccanicistica delle scienze naturali e quella umanistica delle scienze dello spirito presuppongono che l'esserci sia in qualche modo compiuto. Esse sottolineano in maniera costante il momento della realtà, che considerano come già formata. Per entrambe le concezioni il compito dell'uomo è conoscere questa realtà, trovare la propria reale collocazione all'interno di essa e modificare se stesso in modo da adattarsi al suo ordine. Le possibilità [dell'uomo] sono fondamentalmente note; sconosciuta è solo la misura in cui si potrà realizzarle. L'altro sentimento dell'esserci invece percepisce il mondo e l'uomo come realtà in larga misura potenziali. Se per le prime l'aspetto decisivo è il dato osservabile e studiabile, per il secondo è la possibilità di addentrarsi nell'ignoto. Una possibilità però che è affidata all'uomo stesso. L'esserci è aperto alla determinazione plastica e creativa. È significativo che a ciò sia connesso un forte impulso pedagogico - e con ciò si intende formativo, non meramente dottrinale. Anzi, il concetto di pedagogico sembra non essere sufficiente a definire tale impulso, al punto che ci si chiede che cosa sia in gioco qui, se non si tratti forse di una nuova specie umana o addirittura di un oltrepassamento dell'uomo nel sovrumano - e con ciò della trasformazione della sostanza stessa dell'uomo.
Questo impulso viene rivelato in tutta la sua insistenza dalla moderna tendenza verso l'autonomia. Nella speranza di poter ritornare su questo tema in un'altra occasione, mi limito qui soltanto ad accennarlo. L'uomo si costituisce nella sua indipendenza di fronte a tutto ciò che gli si presenta come una richiesta assoluta, vale a dire di fronte a Dio, alla rivelazione e all'autorità divina; egli lo può fare mettendo in risalto i momenti assoluti che custodisce in sé stesso, i quali si condensano nella pretesa di assolutezza della propria personalità spirituale. Al tempo stesso però emerge anche un'altra tendenza: [quella a] considerare autosufficienti l'essere non assoluto e la finitezza dell'uomo, e a determinarsi soltanto in funzione di esse. Finché l'assoluto è per così dire l'unico schema in grado di fondare l'esigenza di un'esserci autosufficiente, l'uomo moderno fa di tutto per costituire se stesso come assoluto. Lo sviluppo di un immediato sentimento dell'esserci e della corrispondente modalità di pensiero conferisce alla finitezza in quanto tale un'intensità del tutto nuova e un'inedita capacità di conferimento di senso. Arriva così un momento in cui la richiesta di assoluto viene a cadere e la finitezza, pur se transitoria e limitata, sembra poter far scaturire da sé la totalità. Questa volontà di finitezza e autosufficienza si congiunge poi con una nuova apertura alle potenzialità della vita. L'anelito dell'uomo si distoglie dall'assoluto e rivolge tutto il suo fervore al finito - nella convinzione che, se lo si affronta con una passione esclusiva, possano emergere da esso inesauribili possibilità. (La dottrina di Nietzsche del ritorno dell'uguale in connessione con la comparsa del superuomo). In questo modo la volontà pedagogica ottiene una nuova intensità; potremmo quasi dire che essa si eleva al rango di demiurgo.
Sembra che, dopo la guerra, queste due strutture di pensiero siano state profondamente messe in questione e che se ne sia presentata una terza. L'esserci sembra essere entrata in gioco in maniera del tutto nuova. Se questo è vero, allora lo spontaneo rivolgersi all'uomo diventa comprensibile: è il movimento con cui la vita si assicura della saldezza delle proprie radici. (...)
Queste riflessioni prendono le mosse dalla convinzione che il diciannovesimo secolo non ci ha affatto rivelato che cos'è l'uomo. Esse sono aperte al confronto con ogni tesi, per quanto audace, che possa essere formulata su tale essere, e si aspettano di veder confermata la parola di Pascal: "l'uomo supera infinitamente l'uomo". E qui è in particolar modo il pensiero cristiano - sempre che sia veramente tale - a essere chiamato a prendere la parola.
Se la mia comprensione è adeguata, vi sono molti modi in cui un ente può darsi alla conoscenza.
Vi sono in primo luogo l'esperienza immediata, interiore o esteriore, e la testimonianza attendibile da parte di una fonte storica. Chiameremo esperienza diretta questa modalità del darsi e la conoscenza che su di essa si basa; nell'esperienza diretta rientrano la maggior parte delle scienza empiriche e storiche e delle scienze dello spirito, e inoltre alcune branche (o quantomeno discipline ausiliarie) della teologia.
In secondo luogo vi è la rivelazione. Grazie a essa lo spirito rischiarato dalla fede incontra la realtà efficace di un Dio che è in se stesso inaccessibile. L'oggetto della conoscenza per fede non è semplicemente presente, né disponibile a nostro piacere, bensì emerge dalla Sua parola e dalla configurazione che gradualmente si rivela. In questo caso la conoscenza - ma bisognerebbe entrare più nei dettagli e chiarire in che senso si possa qui parlare di conoscenza - non è diretta ma passa attraverso il messaggio della rivelazione.
Vi è poi un terzo modo di darsi, complesso e molto significativo. Esso è proprio di realtà [particolari] che appartengono al mondo, e proprio a quel mondo dell'esperienza interiore ed esteriore in cui si muove l'esperienza diretta. Sembra non essersi alcuna ragione intrinseca che possa impedire a queste realtà di darsi in modo diretto, e tuttavia nei fatti questo non accade: esse vengono continuamente sommerse da elementi esteriormente simili a loro ma diversi per essenza, e si deformano. Si tratta delle realtà e dei valori che riguardano il senso dell'esserci e la salvezza della persona. Si potrebbe pensare ad esempio che la persona stessa appartenga al mondo. La sua essenza dovrebbe poter essere colta attraverso l'esperienza interna e la visione dell'aspetto esteriore, attraverso l'analisi della sua coscienza e l'indagine sulle sue categorie, sui suoi valori ecc. Tuttavia i risultati effettivi [di queste indagini] non sono mai univoci. Il puro fenomeno della persona viene confuso con quella della personalità o dell'individualità, quando non addirittura con la mera configurazione caratteriale [Gestalt]. Esso sconfina ora nel terreno della psicologia, ora in quello della sociologia, ora in quello della logica. Una chiarificazione di che cosa sia propriamente persona si ha soltanto quando tale fenomeno viene a contatto con un elemento che non appartiene al mondo né proviene da esso, ma dalla rivelazione: l'apparizione del Figlio, o meglio del Figlio della figlia di Dio. Con questo io non affermo che il concetto di persona vada compreso a partire dalla rivelazione; entro un certo limite esso rientra tra gli oggetti dell'indagine filosofica. Soltanto quando la realtà effettiva dell'uomo, creatura da Dio pervenuta alla sua maggiore età [Mündigkeit], sarà stata compresa nella fede e si sarà riflessa in essa, solo allora il fenomeno della persona potrà essere colto senza alcuna ambiguità. Torneremo a parlare a più riprese del fenomeno della persona. Ora possiamo solo esprimere sinteticamente ciò che, nei più diversi ambiti d'indagine, si impone in maniera ricorrente alla nostra attenzione: la semplice presenza [die Vorhandenheit], i valori della comune esistenza biopsichica e, al di sotto di un certo livello, anche i contenuti di senso della cultura oggettivamente intesa possono essere senz'altro compresi a partire da se stessi. Tuttavia, quanto più un fenomeno è vicino al nucleo di senso dell'esistenza morale e spirituale della persona e quanto più esso è inerente alla sua salvezza, tanto meno esso si colloca di per se stesso in una condizione di piena e completa datità. Per poter emergere nella sua autentica essenza, esso necessita piuttosto del rispecchiamento nella rivelazione.
Questo rapporto verrà chiamato relazione di dipendenza. Accanto alla conoscenza diretta, che coglie il mondo in maniera immediata, e alla conoscenza per fede, che accoglie il suo oggetto dalla rivelazione, poniamo un terzo tipo di conoscenza, la conoscenza dipendente. Pur essendo volta agli oggetti del mondo, questa conoscenza li riceve nella loro pura e completa datità qualora essi siano compenetrati dal messaggio della rivelazione.
Se questa concezione è valida, allora è chiaro che lo stato di cose sopra descritto deve essere interrogato soprattutto alla luce della domanda "che cos'è l'uomo?". Con ciò non si intende naturalmente pregiudicare in alcun modo la legittimità degli approcci d'indagine della biologia, della psicologia e della filosofia. Poiché però ogni fenomeno unitario è determinato in maniera decisiva dal centro di una configurazione di senso, e non dalla sua periferia - e quindi, ad esempio, la questione di cosa sia "persona" è più importante di quella delle strutture psicologiche ai fini della comprensione dell'uomo - allora la consapevolezza cristiana dell'uomo si rivela di importanza vitale per l'antropologia. (...)
Vogliamo dunque chiedere come la coscienza cristiana pensi l'uomo. Questa domanda però deve venire meglio precisata.
La si potrebbe formulare così: come viene determinata l'essenza dell'uomo nella rivelazione? Inoltre si dovrebbe cercare di passare dalle diverse affermazioni del Vecchio e del Nuovo Testamento alle realtà ultime che si celano dietro di esse. Si dovrebbero poi analizzare le diverse immagini dell'uomo così come emergono dal Genesi, dai Salmi, dai Profeti, dal Vangelo di Marco o dalle Lettere di Paolo, e a partire da esse rivolgersi alla più profonda unità trans-strutturale, per così dire alla parola originaria [Urlaut] della rivelazione riguardante l'uomo. Questo sarebbe un compito importante, anche se il risultato di questa ricerca infinitamente impegnativa potrebbe poi riassumersi in poche frasi.
Se però vogliamo calare la questione cristiano-antropologica nella pienezza dell'esistenza umana, dobbiamo rinunciare a fare ricorso alla lettera originaria trans-strutturale, alla sostanza semplice e prima. Dobbiamo piuttosto fare attenzione alle declinazioni in cui essa si presenta nelle strutture psicologiche, storiche e spirituali. Non potrà quindi più esserci un'antropologia cristiana in senso unitario, bensì soltanto diverse possibilità all'interno della realtà umana del cristianesimo.
Un'ulteriore precisazione. Si potrebbe certo tentare di distinguere storicamente le diverse connotazioni che la coscienza cristiana ha assunto nel corso del tempo, o ancora di sviluppare sistematicamente le diverse possibilità strutturali implicite nei principi cristiani fondamentali e di arrivare così a una fenomenologia dell'immagine cristiana dell'uomo, per poi delineare una dialettica delle strutture che ci permetta di gettare lo sguardo sulla dimensione trans-strutturale.
Questa impresa è così grandiosa da superare in maniera assoluta le nostre possibilità, ma anche a prescindere da questo in essa mancherebbe proprio ciò che più conta di fronte alle sopra menzionate strutture storico-spirituali: la validità esistenziale. Se ciò che conta non è la rappresentazione obiettiva ma sono le convinzioni e le prese di posizione interne al confronto spirituale, allora non resta altra possibilità che mettere in luce la coscienza cristiana così come essa stessa si interpreta in una determinata struttura. Quale essa sia dipende in primo luogo dall'orientamento dovuto alla collocazione storica di colui che pensa. All'interno dello spazio d'azione che ancora resta, infine, la questione va ulteriormente precisata sulla base della decisione personale.
Ed è proprio tale decisione a collocarsi alla base del progetto antropologico che vorrei sviluppare in queste pagine. Ciò mi inserisce in una linea di pensiero che, partita dal platonismo e dal neoplatonismo, confluisce nel Cristianesimo di Paolo e Giovanni e di qui conduce a Ignazio di Antiochia, ad Agostino, a Anselmo di Canterbury, a Francesco, alla teologia agostiniana medievale, a Dante e ai platonisti rinascimentali (Pascal, Francesco di Sales, i grandi teologi dell'Oratorio) per poi esaurirsi nel corso del xix secolo.

(©L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2008)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Raffaella,
ti segnalo da www.chiesa.
Benedetto XVI ha un padre, Romano Guardini.
Ciao
alessia

Raffaella ha detto...

Grazie Alessia!!!