5 gennaio 2008
J. Ratzinger ricorda gli anni del Concilio: la riforma liturgica e la discussione sulle "fonti della rivelazione":Scrittura e Tradizione (La mia vita)
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Precisazioni sull'articolo di Galeazzi e Di Giacomo e umile richiesta di rettifica di quanto scritto su e contro questo blog
Grazie al sapiente lavoro della nostra Gemma, possiamo leggere alcune pagine dell'autobiografia di Benedetto XVI. Si tratta di una fonte preziosa, utile per capire come si sono svolti i lavori del Concilio ed il ruolo che ebbe il teologo Ratzinger nella stesura della "Dei Verbum".
Grazie ancora a Gemma :-)
Raffaella
da "La mia vita. Ricordi (1927-1977)"
……..La prima questione che si poneva, era come cominciare il Concilio, quale compito si dovesse più precisamente attribuirgli. Il Papa aveva indicato solo in termini molto generali la sua intenzione riguardo al Concilio lasciando ai Padri uno spazio quasi illimitato per la concreta configurazione: la fede doveva tornare a parlare a questo tempo in modo nuovo, mantenendo pienamente l’identità dei suoi contenuti, e, dopo un periodo in cui ci si era preoccupati di fare definizioni restando su posizioni difensive, non si doveva più condannare, ma “usare la medicina della misericordia”. C’era, certo, un tacito consenso circa il fatto che la Chiesa sarebbe stato il tema principale dell’adunanza conciliare, che in tal modo avrebbe ripreso e portato a termine il cammino del concilio Vaticano I, precocemente interrotto a causa della guerra franco-prussiana del 1870. I cardinali Montini e Suenens predisposero dei piani per un impianto teologico di vasto respiro dei lavori conciliari, in cui il tema “Chiesa” doveva essere articolato nelle questioni “Chiesa ad intra” e “Chiesa ad extra”.
La seconda articolazione tematica doveva permettere di affrontare le grandi questioni del presente dal punto di vista del rapporto Chiesa-mondo. Per la maggioranza dei padri conciliari la riforma proposta dal movimento liturgico non costituiva una priorità, anzi per molti di loro essa non era nemmeno un tema da trattare. Per esempio, il cardinale Montini, che poi come Paolo VI sarebbe divenuto il vero papa del Concilio, presentando una sua sintesi tematica all’inizio dei lavori conciliari aveva detto con chiarezza di non riuscire a trovare qui alcun compito essenziale per il Concilio. La liturgia e la sua riforma erano divenute, dalla fine della prima guerra mondiale, una questione pressante solo in Francia e in Germania, e più precisamente nella prospettiva di una restaurazione la più pura possibile dell’antica liturgia romana; a ciò si aggiungeva anche l’esigenza di una partecipazione attiva del popolo all’evento liturgico. Questi due paesi, allora teologicamente in primo piano (a cui bisognava ovviamente associare il Belgio e l’Olanda), nella fase preparatoria erano riusciti a ottenere che venisse elaborato uno schema sulla sacra liturgia, che si inseriva piuttosto naturalmente nella tematica generale della Chiesa. Che, poi, questo testo sia stato il primo a essere esaminato dal Concilio non dipese per nulla da un accresciuto interesse per la questione liturgica da parte della maggioranza dei Padri, ma dal fatto che qui non si prevedevano grosse polemiche e che il tutto veniva in qualche modo considerato come oggetto di un’esercitazione, in cui si potevano apprendere e sperimentare i metodi di lavoro del Concilio. A nessuno dei Padri sarebbe venuto in mente di vedere in questo testo una “rivoluzione”, che avrebbe significato “la fine del medioevo”, come nel frattempo alcuni teologi hanno ritenuto di dover interpretare. Il tutto, poi, era visto come una continuazione delle riforme avviate da Pio X e portate avanti, con prudenza, ma anche con risolutezza, da Pio XII. Le norme generali come “i libri liturgici siano riveduti quanto prima” (n. 25) intendevano appunto dire: in piena continuità con quello sviluppo che vi è sempre stato e che con i pontefici Pio X e Pio XII si è configurato come riscoperta delle classiche tradizioni romane. Ciò comportava naturalmente anche il superamento di alcune tendenze della liturgia barocca e della pietà devozionale del secolo XIX, promuovendo una sobria sottolineatura della centralità del mistero della presenza di Cristo nella sua Chiesa.
In questo contesto non sorprende che la “messa normativa”, che doveva subentrare all’Ordo missae precedente, e di fatto poi vi subentrò – venne respinta dalla maggioranza dei Padri convocati in un sinodo speciale nel 1967. Che poi, alcuni (o molti?) liturgisti, che erano presenti come consulenti, avessero fin dal principio intenzioni che andavano molto più in là, oggi lo si può dedurre da certe loro pubblicazioni; sicuramente, essi però non avrebbero avuto il consenso dei Padri conciliari a questi loro desideri. In ogni caso di essi non si parla nel testo del Concilio, anche se in seguito si è cercato di trovarne a posteriori le tracce in alcune delle norme generali.
Il dibattito sulla liturgia fu tranquillo e procedette senza vere tensioni. Vi fu, invece, uno scontro drammatico quando venne presentato per la discussione il documento sulle “fonti della rivelazione”.
Per “fonti della rivelazione” si intendevano la Scrittura e la tradizione; il rapporto tra loro e con il magistero aveva trovato una solida trattazione nelle forme della scolastica post-tridentina, sul modello dei manuali allora in uso.
Nel frattempo però, il metodo storico-critico dell’esegesi biblica aveva trovato un suo posto stabile anche all’interno della teologia cattolica. Di per sé questo metodo, per sua stessa natura, non tollera alcuna delimitazione a opera di un magistero autoritativo: esso non può, cioè, riconoscere alcuna istanza diversa da quella dell’argomento storico. Di conseguenza anche il concetto di tradizione era divenuto problematico, dato che, partendo dal metodo storico, non si riesce a comprendere una tradizione orale, che procede accanto alla Scrittura e risale fino agli Apostoli, che possa rappresentare una fonte di conoscenza storica accanto alla Bibbia: proprio questo aveva già reso tanto difficile e insolubile la disputa sul dogma dell’assunzione corporea di Maria in cielo. Con questo testo era quindi in discussione tutto il problema dell’esegesi biblica moderna, ma soprattutto la questione di come storia e spirito possano rapportarsi e comporsi nella struttura della fede.
Determinante per la forma concreta che assunse questo dibattito si rivelò una presunta scoperta storica che il teologo di Tubinga, J.R. Geiselmann, riteneva di aver fatto negli anni cinquanta. Negli atti del concilio di Trento egli aveva scoperto che, nell’elaborazione del decreto sulla tradizione, in un primo tempo era stata proposta una formula secondo cui la rivelazione sarebbe “in parte nella Scrittura, in parte nella tradizione”. Nel testo finale. Però l”in parte-in parte” fu evitato e sostituito da “e”.
Scrittura e tradizione ci trasmettono insieme la rivelazione. Geiselmann ne traduceva che Trento aveva voluto insegnare che non esiste alcuna divisione dei contenuti della fede tra Scrittura e tradizione , ma che, piuttosto, ambedue –Scrittura e tradizione – contengono, ciascuna per conto proprio, il tutto, siano cioè in se stesse complete. Ora, però, in quel momento non interessava la presunta o reale completezza della tradizione; quel che interessava era l’affermazione che secondo la dottrina di Trento la Scrittura conteneva l’intero deposito della fede. Si parlava della “completezza materiale” della Bibbia nelle questioni di fede.
Questa formula, che ora girava dappertutto e che era considerata la nuova, grande scoperta, si svincolò ben presto dal suo punto di partenza, che era l’interpretazione del decreto tridentino.
L’inevitabile conseguenza fu che si cominciò a ritenere che la Chiesa non potesse insegnare nulla che non fosse espressamente rintracciabile nella Sacra Scrittura, dato che quest’ultima contiene appunto in modo completo tutto ciò che riguarda la fede. E dato che interpretazione della Scrittura ed esegesi storico-critica venivano identificate, ciò significava che la Chiesa non poteva insegnare nulla che non reggesse alla prova del metodo storico-critico. Con ciò era ampiamente messo in ombra il principio luterano della “sola Scriptum”, che era poi ciò di cui si sera trattato a Trento. Infatti, questa nuova tendenza significativa che nella Chiesa l’esegesi doveva diventare l’ultima istanza, ma, dato che per la stessa natura della ragione umana e della ricerca storica non può sussistere la piena unanimità tra gli esegeti di testi tanto difficili (poiché in gioco ci sono sempre delle opzioni pregiudiziali, siano esse consce o inconsce), la conseguenza era che la fede doveva ritrarsi nell’indeterminatezza e nella continua mutabilità di ipotesi storiche o apparentemente tali:
alla fine “credere” significava qualcosa come “ritenere”, aver un’opinione soggetta a continue revisioni. Naturalmente il Concilio dovette opporsi a teorie così formulate, ma nell’opinione pubblica ecclesiale la parola d’ordine della “completezza materiale”, con tutte le sue conseguenze, era ben più forte del testo finale del Concilio.
Il dramma dell’epoca postconciliare è stato ampiamente determinato da questa parola d’ordine e dalle sue conseguenze logiche. Personalmente avevo già avuto modo di conoscere le tesi di Geiselmann nell’aprile del !956 , durante il già citato convegno dogmatico di Konigstein, in cui il professore di Tubinga presentò per la prima volta la sua presunta scoperta (che, peraltro, egli non estendeva fino alle conseguenze fin qui descritte, che si sono sviluppate in questi termini solo nella “propaganda conciliare”).
All’inizio ne fui affascinato, ma molto presto mi balzò agli occhi che il grande tema del rapporto tra Scrittura e tradizione non poteva essere risolto in maniera così semplice. In seguito ho io stesso minuziosamente studiato gli atti di Trento e ho potuto constatare che la variante redazionale, che Geiselmann considerava di importanza centrale, non era stata che un insignificante aspetto secondario nel dibattito tra i Padri conciliari, che si spinse molto più a fondo per illuminare la questione fondamentale di come la rivelazione possa tradursi in parola umana e, quindi, in parola scritta. In questo fui aiutato dalle mie conoscenze acquisite con i miei studi sul concetto di rivelazione di Bonaventura. Trovai che l’orientamento di fondo dei Padri di Trento nel modo di pensare la rivelazione nella sostanza era rimasto lo stesso del tardo medioevo. Proprio a partire da queste acquisizioni, che ora non posso certo sviluppare oltre, le mie obiezioni nei confronti dello schema conciliare che ci era stato sottoposto erano di tutt’altra natura rispetto alle tesi sostenute da Geiselmann e alla loro grossolana volgarizzazione nell’eccitato clima conciliare. Tuttavia vorrei almeno accennare al suo aspetto essenziale: la rivelazione, cioè il volgersi di Dio verso l’uomo, il Suo venirgli incontro è sempre più grande di quanto può essere espresso in parole umane, più grande anche delle parole della Scrittura.
Come si è già visto a proposito dei miei lavori su Bonaventura, nel medioevo e a Trento sarebbe stato impossibile definire la Scrittura semplicemente come “la rivelazione”, come oggi invece avviene nel linguaggio corrente. La Scrittura è la testimonianza essenziale della rivelazione, ma la rivelazione è qualcosa di vivo, di più grande – perché sia tale essa deve giungere a destinazione e deve essere percepita, altrimenti essa non è divenuta “rivelazione”. La rivelazione non è una meteora precipitata sulla terra, che giace da qualche parte come una massa rocciosa da cui si possono prelevare dei campioni di minerale, portarli in laboratorio e analizzarli. La rivelazione ha degli strumenti, ma non è separabile dal Dio vivo, e interpella sempre la persona viva a cui essa giunge.
Il suo scopo è sempre quello di raccogliere gli uomini , di unirli tra loro – per questo essa implica la Chiesa. Ma se si da questa sporgenza della rivelazione rispetto alla Scrittura, allora l’ultima parola su di essa non può venire dall’analisi dei campioni minerali – il metodo storico-critico - , ma di essa fa parte l’organismo vitale della fede di tutti i secoli.
Proprio questa sporgenza della rivelazione sulla Scrittura, che non può a sua volta essere espressa in un codice di formule, è quel che noi chiamiamo “tradizione”. Nel clima generale del 1962, che si era impadronito delle tesi di Geiselmann nella forma sopra descritta, mi fu impossibile far comprendere questa mia prospettiva, che avevo acquisito dallo studio delle fonti e rispetto alla quale, del resto, già nel 1956, non ero stato capito. La mia posizione venne semplicemente annoverata nell’opposizione generale allo schema ufficiale e valutata come un’altra voce in direzione di Geiselmann.
Per desiderio del cardinale Frings, misi allora per iscritto un piccolo schema, in cui cercavo di esprimere la mia prospettiva; alla sua presenza, potei quindi leggere quel testo a un gran numero di influenti cardinali, che lo trovarono interessante, ma sul momento non vollero, né potevano esprimere alcun giudizio in proposito.
Ora, quel piccolo saggio era stato scritto in gran fretta e non poteva nemmeno lontanamente competere per solidità e precisione con lo schema ufficiale, che aveva avuto origine in un lungo processo di elaborazione ed era passato attraverso molte revisioni di studiosi competenti. Era chiaro che il testo doveva essere ulteriormente elaborato e approfondito.
Un simile lavoro richiedeva l’intervento anche di altre persone. Fu dunque stabilito che io redigessi insieme con Karl Rahner, una seconda redazione, più approfondita.
Questo secondo testo, che va ascritto molto più a Rahner che a me, fu poi fatto circolare tra i Padri e suscitò in parte delle aspre reazioni. Lavorando insieme con lui, mi resi conto che Rahner e io, benché ci trovassimo d’accordo su molti punti e in molte aspirazioni, dal punto di vista teologico vivevamo su due pianeti diversi. Anch’egli, come me, era impegnato a favore di una riforma liturgica, di una nuova collocazione dell’esegesi nella Chiesa e nella teologia e di molte altre cose, ma le sue motivazioni erano parecchio diverse dalle mie. La sua teologia – malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni – era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e dalla sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica in cui, alla fin fine, la Scrittura e i Padri non avevano una parte tanto importante, in cui, soprattutto la dimensione storica era di scarsa importanza.
Io, al contrario, proprio per la mia formazione, ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico: in quei giorni ebbi la chiara percezione di quale fosse la differenza tra la scuola di Monaco, da cui io ero passato, e quella di Rahner, anche se dovette passare ancora qualche tempo prima che la distanza che separava le nostre strade fosse pienamente visibile all’esterno.
Ora era chiaro che lo schema di Rahner non poteva essere accolto, ma anche il testo ufficiale andò incontro alla bocciatura con un’esigua differenza di voti. Si dovette quindi procedere al rifacimento del testo. Dopo complesse discussioni, solo nell’ultima fase dei lavori conciliari si potè arrivare all’approvazione della Costituzione sulla parola di Dio, uno dei testi di spicco del Concilio, che peraltro non è stato ancora recepito appieno.
All’inizio si impose in pratica solo quello che era passato come la presunta novità nel modo di pensare questi argomenti da parte dei Padri. Il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla coscienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime è ancora da realizzare.
da " La mia vita. Ricordi (1927-1977)", San Paolo Edizioni 1997
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