16 aprile 2008
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A colloquio con Massimo Franco sull'evoluzione dei rapporti tra Santa Sede e Stati Uniti
Due «imperi paralleli»
di Nicola Gori
Amore e odio, attrazione e indifferenza, stima e diffidenza. È segnata da rapporti conflittuali la storia delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Stati Uniti d'America a partire dalla fine del XVIII secolo. Due realtà che si cercano e si studiano da lontano fino a incontrarsi definitivamente con lo stabilimento di relazioni diplomatiche al più alto livello nel 1984, grazie all'accordo tra Giovanni Paolo II e Ronald Reagan. In occasione del viaggio apostolico di Benedetto XVI abbiamo chiesto a Massimo Franco del "Corriere della sera" - notista politico, autore di un volume sulle relazioni tra Santa Sede e Stati Uniti d'America dal titolo Imperi paralleli. Vaticano e Stati Uniti. Due secoli di alleanza e conflitto (1788-2005), (Arnoldo Mondadori Editore, 2005, pagine 213, euro 17.50) che sta per essere pubblicato anche negli Stati Uniti da Wday-Random House - di spiegarci la genesi e l'evoluzione dei rapporti tra i due stati, con particolare riguardo alla situazione attuale.
Nel suo libro afferma che le relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Stati Uniti d'America hanno avuto un andamento conflittuale. Come è giunto a questa affermazione?
Per il fatto che Stati Uniti d'America e Santa Sede quando hanno cominciato ad avere, alla fine del settecento, i primi contatti - molto sporadici per la verità e anche molto contraddittori - avevano una conoscenza reciproca approssimativa e condizionata da molti pregiudizi. La Santa Sede riteneva che gli Stati Uniti fossero una terra di missione nella quale c'erano emigrati europei che andavano semplicemente riportati o mantenuti nella fede cattolica. Gli Stati Uniti, dal canto loro, vedevano il Papa come il capo di una religione straniera, che cercava di influire sulla libertà e sull'indipendenza degli Stati Uniti nel tentativo di ridurle. Questa è stata la premessa del rapporto tra le due realtà e naturalmente era una premessa destinata a non farle incontrare, almeno nella fase iniziale.
Ma non avrà influito anche una sorta di preconcetto di origine protestante nei confronti del Papa?
Certamente. Del resto si deve ricordare che la maggior parte dei primi immigrati europei negli Stati Uniti erano protestanti, che, per di più venivano da esperienze di guerre religiose. Dunque nei confronti del papato mantenevano un atteggiamento estremamente reattivo e negativo. Ecco come è nato quel pregiudizio anticattolico che poi ha impregnato la società americana per quasi due secoli. Si capisce perché i presidenti americani fino a Ronald Reagan abbiano faticato a riconoscere la Santa Sede. Del resto nell'opinione pubblica statunitense vi erano frange di elettori e correnti culturali importanti che avrebbero visto relazioni diplomatiche piene con la Santa Sede come una violazione della separazione tra stato e Chiesa.
In effetti, solo dal 1984 gli Stati Uniti d'America hanno nominato un proprio ambasciatore. Come è maturata questa scelta? E perché non prima?
Il 1984 ha segnato in effetti un momento particolare, dovuto soprattutto a un certo avvicinamento dovuto a Giovanni Paolo II e a Ronald Reagan. Ci fu tra di loro una convergenza oggettiva, non un'alleanza, sul problema del rapporto con l'impero sovietico. In fondo, Reagan ha visto nel Papa polacco una delle massime autorità morali, in grado di incidere indirettamente anche sul piano politico sulla caduta dell'impero sovietico. Si è parlato di santa allenza, sebbene sia stata una santa allenza non "voluta" ma semplicemente "accaduta". Giovanni Paolo II e Reagan si sono trovati oggettivamente alleati. Certamente ciò consentì a Reagan di superare le ultime resistenze nel Congresso e quindi di acconsentire finalmente all'invio di un ambasciatore in Vaticano. In realtà fu solo la promozione del suo rappresentante personale, William Wilson, in ambasciatore; e quella del delegato apostolico della Santa Sede a Washington, il cardinale Pio Laghi, in nunzio apostolico negli Stati Uniti d'America.
Nel suo libro lei definisce Santa Sede e Stati Uniti come gli "imperi" che hanno "proiezione planetaria". Può spiegarci questo concetto?
Vengono definiti "imperi paralleli", sebbene sia la Santa Sede, sia gli Stati Uniti sicuramente rifiutino questo concetto. È naturalmente una forzatura lessicale che serve a spiegare e a dare un senso a una realtà spesso sottovalutata. In occidente, dopo la fine dell'impero britannico, nel ventesimo secolo, le uniche due realtà ad avere una proiezione mondiale sono state gli Stati Uniti e la Santa Sede. La Santa Sede non può essere indentificata con l'occidente perché è per definizione ecumenica; quanto agli Stati Uniti, credo che non amino essere considerati un impero. Ma si tratta di due realtà che corrono su binari paralleli. A volte possono convergere, e magari poi tornare a separarsi: gli Stati Uniti come massima espressione del potere duro (dell'hard power), del potere militare e tecnologico, e la Santa Sede come potere soffice (soft power), sinonimo di mediazione, multilateralismo, diplomazia per antonomasia. Ma sono le uniche due realtà nate in occidente, che abbiano una proiezione mondiale: in questo senso credo che si possa parlare di "imperi paralleli".
Quale situazione troverà Benedetto XVI durante il suo viaggio negli Stati Uniti?
È la situazione di un cattolicesimo molto forte, ma con ancora qualche ferita, più o meno rimarginata, provocata dagli scandali che hanno riguardato alcuni sacerdoti. Sarà interessante vedere come Benedetto XVI saprà conciliare l'esigenza di pronunciare parole forti per l'America con il momento delicato costituito dalla coincidenza con le elezioni presidenziali. Gli Stati Uniti sono ancora molto ancorati alle idee ed alla figura di Giovanni Paolo II. Per loro questo Papa è qualcosa da scoprire; hanno l'idea di un pontificato un po' eurocentrico. Credo che siano comunque molto incuriositi dal modo in cui Benedetto XVI, il "Papa tedesco", si rapporterà con l'America e con gli americani.
Nel suo volume lei cita Edward Luttwak: "Nella cultura italica c'è interesse per tutto quello che fa la Santa Sede. Ma in Usa ce ne freghiamo. Nel nostro universo geopolitico non c'è il Vaticano". Ci spiega il senso di questa affermazione?
Credo che l'affermazione di Luttwak non riguardi solo gli Stati Uniti, ma più in generale il mondo anglosassone. Nel mondo anglosassone, la Santa Sede non è stata considerata attore di politica internazionale per molto tempo. Storicamente è stata ritenuta soltanto un potere morale, con scarsa influenza effettiva. E quando cerca di affermare il proprio punto di vista sul piano della politica internazionale - soprattutto, quando si tratta di conflitti, di guerre, vedi quella in Iraq - viene percepita come un'intrusa. Da parte della cultura anglosassone, c'è ancora la difficoltà di capire il ruolo che un'entità come la Santa Sede può svolgere, soprattutto in una società e in un mondo nei quali il fattore religioso sta diventando sempre di più un fattore politico. Che piaccia o no, non si può non prendere atto dell'influenza enorme esercitata in negativo dal fondamentalismo islamico negli ultimi anni. Ritenere che il capo di una grande religione, come il Papa, non abbia un ruolo in politica estera è una grave miopia, è un grave limite. Il problema è che bisogna abituarsi, in un mondo multipolare, nel quale nessuno ha più le chiavi per capire e governare il futuro. E tra questi non bisogna escludere, e forse è bene che si cominci a esaminarlo, il ruolo delle grandi religioni.
Come sono arrivati Santa Sede e Stati Uniti ad avere relazioni diplomatiche ad alto livello?
È stato senza dubbio un capolavoro diplomatico e politico insieme. Innanzitutto, ho l'impressione che il nunzio Laghi sia stato in grado, sostenuto e guidato dall'allora segretario di Stato, cardinale Agostino Casaroli, e soprattutto, da Giovanni Paolo II di spiegare che la Santa Sede, per quanto fosse una realtà della quale gli Stati Uniti faticavano a comprendere l'identità al di fuori della dimensione religiosa, aveva uno status giuridico proprio e quindi riconosciuto internazionalmente. Aveva già stabilito rapporti diplomatici con decine di paesi. E credo che alla fine anche questo abbia facilitato il riconoscimento della Santa Sede come stato legittimato ad avere rapporti diplomatici pieni con un altro stato. Penso che questo abbia permesso, in qualche modo, non dico di eliminare, ma di correggere e comunque di arginare tutte le remore residue. È prevalso soprattutto l'aspetto politico. Gli Stati Uniti si sono resi conto di quanto la Santa Sede, per il ruolo svolto nei confronti dell'impero sovietico, fosse in grado di agire sul piano morale come grande "lobbista" della libertà religiosa e della democrazia politica.
Che impatto avrà, secondo lei, sul piano internazionale la visita di Benedetto XVI all'Onu e negli Stati Uniti d'America?
Dipenderà naturalmente da quello che Benedetto XVI dirà. Ho l'impressione comunque che il Papa in qualche modo scinderà la visita, almeno vedendo il programma, in due momenti separati: il primo rivolto agli Stati Uniti, il secondo al mondo. Soprattutto nel discorso che farà all'Onu, conterà molto l'impatto che potrà avere sul piano mondiale. Ma l'impressione è che esista una grande attesa per i gesti e le parole che riserverà agli oltre 60.000.000 di cattolici statunitensi. Sono tantissimi e si aspettano delle parole chiare e dirette, per avere indicazioni precise sul futuro. I cattolici americani non sono così compatti come può sembrare dall'Europa. Hanno problemi di identità che vengono accentuati dalla specificità della realtà statunitense.
Nota una differenza di fondo tra i precedenti viaggi di Paolo VI e di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI?
C'è un fatto storico: è la prima volta che un Papa va alla Casa Bianca da quando sono state allacciate relazioni diplomatiche piene. Giovanni Paolo II ci entrò quando era presidente Jimmy Carter il 6 ottobre 1979. Stette alla Casa Bianca per circa tre ore, ma in realtà l'eco della visita fu relativa, anche perché fu per forza di cose privata. Fu ricevuto come ospite del presidente. Adesso, invece dopo l'apertura di relazioni diplomatiche, il Papa viene accolto con tutti gli onori riservati ai capi di stato: un atto formale, certo, ma non solo. È anche un modo simbolico per chiudere il cerchio della normalizzazione dei rapporti. Ma c'è un altro aspetto, direi curioso. Ora che due secoli di ricerca di rapporti normali tra Stati Uniti e Santa Sede vengono archiviati, su quali basi crescerà il nuovo rapporto? Questo è il punto interrogativo.
Come si accosterannno i cattolici statunitensi a Benedetto XVI che visita per la prima volta la loro nazione?
Intanto lo vedono come il Papa. Penso che ci sarà anche curiosità di conoscere il Papa tedesco che succede a un Papa polacco. In America l'elezione di Benedetto XVI fu accompagnata da qualche segnale di scetticismo: era una novità troppo grande anche per la loro mentalità. A poco a poco però le cose sono cambiate. Io credo che per gli americani sarà comunque una scoperta. C'è sicuramente molta curiosità. Vogliono capire bene cosa questo Papa ha da dire al loro paese.
Che ruolo ha la religione nella società statunitense?
La religione ha un ruolo enorme, probabilmente maggiore di quanto non ne abbia nella nostra Europa odierna. Ha un ruolo anche di religione civile, nel senso che impregna le istituzioni, e le impregna proprio per il fatto che ogni religione è messa sullo stesso piano e dunque garantisce e non limita la libertà. C'è una varietà di fedi, di persone che cambiano più volte religione, cosa che a noi sembra molto strana, ma che in America lo è molto meno. C'è chi passa da una denominazione protestante a un'altra; oppure dal protestantesimo al cattolicesimo o anche viceversa. La religione è qualcosa che attraversa lo stesso tessuto giovanile della società. La Chiesa cattolica guarda a questa realtà come a un possibile serbatoio di ispirazione, sebbene sappia bene che il cattolicesimo americano è imbevuto di protestantesimo: estremizzando forse un po', si può dire che i cattolici statunitensi si sentono prima americani e poi cattolici.
E agli occhi di un laico l'arrivo del Papa cosa rappresenta?
La visita del Papa sarà comunque una verifica. Per i non cattolici probabilmente sarà l'occasione per confrontarsi su molti dubbi, forse su qualche pregiudizio; e forse potrebbe esserci anche attesa per un ripensamento. Tra i cattolici e i non cattolici non dico che in fondo l'aspettativa sia uguale, ma è simile.
Negli Stati Uniti coesiste una cultura della vita con una cultura della morte. Mi riferisco ai movimenti contro la pena di morte e pro aborto. Come spiega questo conflitto?
Lo spiego con la specificità americana. Credo che per quanto riguarda gli Stati Uniti, nonostante la pena di morte sia sempre meno accettata, specialmente in qualche stato, questa cultura rientri nella mentalità americana. È una logica dell'"occhio per occhio, dente per dente", che nasce dal fatto che nei primi anni della fondazione di questa nazione-continente, in fondo la legge e lo stato quasi non esistevano. E nella lunga marcia alla conquista di nuove terre a occidente, ci si sentiva quasi obbligati a difendersi da soli con una reazione violenta e appunto totale, come l'uccisione di chi aveva ucciso qualcuno. È una mentalità che permette di misurare le distanze culturali con l'Europa, ed è fonte di contrasti: così come con la Santa Sede, nonostante molti stati americani abbiano cambiato da anni atteggiamento verso la pena capitale. Su questo l'episcopato statunitense sta facendo molto, anche se credo che stia attento ad affermare il no alla pena di morte tenendo conto della cultura profonda di quel popolo. Non a caso la battaglia all'Onu che l'Europa ha fatto per ottenere una moratoria sulla pena di morte, in alcuni circoli statunitensi non è stata vissuta bene: l'hanno considerata un'operazione attraverso la quale l'Unione europea ha teso a rafforzare la propria identità internazionale in contrapposizione con gli Stati Uniti. Anche se la cosa non è arrivata a livello di opinione pubblica americana, questo è uno dei punti che ancora dividono Stati Uniti ed Europa. È un problema di mentalità che affonda le radici nella diversa creazione dell'Europa rispetto agli Stati Uniti.
Lei parlava nel suo libro delle relazioni diplomatiche con lo Stato pontificio. Rispetto ad allora c'è stata una grande evoluzione. Lei addirittura ricorda del nunzio apostolico Bedini che minacciato di morte dovette fuggire.
Per far capire la distanza abissale fra oggi e il passato, ho parlato di un episodio risalente al 1853, e citato in un rapporto conservato negli archivi segreti vaticani. Era stato scritto da Gaetano Bedini, nunzio apostolico non negli Stati Uniti, ma in Brasile. Era il primo diplomatico inviato dalla Santa Sede nei futuri Stati Uniti per capire cosa fosse l'America del tempo. Bedini stava celebrando la messa in una chiesa a Georgetown, un sobborgo di Washington, quando entrò una donna protestante. Le chiesero cosa volesse e lei disse che era entrata in chiesa per vedere se era vero che i messi del Papa avevano le corna in testa. Insomma in molti ambienti esisteva un pregiudizio profondissimo, ai limiti della superstizione. Vedere adesso che il Papa entra alla Casa Bianca come un capo di stato accettato e voluto da Bush che lo invita a pranzo, a qualcuno darà fastidio, ma sul piano storico è il segno di un cerchio che si chiude in modo positivo.
La visita favorirà anche il dialogo interreligioso?
Credo che il problema con le altre religioni, ma direi di più, con le altre culture, sia un obiettivo fisso di questo pontificato e credo che gli Stati Uniti siano il terreno più fertile per tentare questo dialogo: forse proprio per la varietà delle fedi religiose che ci sono, per la loro vivacità e anche per il fatto che lì i problemi si incrociano in modo meno mediato, se vogliamo più esasperato, rispetto a quanto avviene in Europa. Gli Stati Uniti consentono di misurare in modo più diretto sia il dialogo, sia i limiti del dialogo.
(©L'Osservatore Romano - 16 aprile 2008)
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