16 aprile 2008

L’antica simpatia del Papa per la democrazia americana (Rondoni)


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L’antica simpatia del Papa per la democrazia americana

DAVIDE RONDONI

Arrivando negli Stati Uniti il Papa incontra la nazione che più di ogni altra ha fatto coincidere la propria identità, il proprio messaggio e persino la propria missione perseguita con ogni forza con la parola: democrazia. L’America dice di coincidere e di amare sopra ogni cosa la democrazia, e di questo ha fatto la sua bandiera. Nei suoi film come nei suoi scandali, nelle sue guerre come nelle crisi sociali, nell’immaginario come nelle sue leggi, l’America dice di essere il cuore pulsante e la testa della democrazia. Lo dicono in modo diverso e scontrandosi le sue forze politiche, le sue razze, le lobby, i pensatori, liberals o conservatives. E sullo stato di salute di lei, sul rispetto, o sull’eventuale sfregio di lei, si misurano le opposizioni, gli scandali, le lotte anche feroci. Si potrebbe dire quasi che è una specie di idolo, la democrazia. Nel senso che è per rispetto a lei che si devono rispettare tante cose, persino arrivando a certi eccessi grotteschi del politically correct, o a certe sconfortanti ipocrisie. Arrivando a compiere certi riti che a noi spesso paiono quasi ridicoli. Benedetto XVI ha dedicato da tempo attenzione, anche quando non era ancora salito al Soglio, ai temi della salute della democrazia. Che è minacciata da nemici esterni, come l’avanzata di regimi fondamentalisti, quando pure sappiano mascherarsi con l’ossequio alle regole del consenso; e come lo spostamento del potere reale nelle mani di organismi non eletti o di forze economiche transnazionali. E che è minacciata da nemici interni. Come lo svuotamento di ogni riferimento ad una piattaforma antropologica, ad un insieme di valori che ancorino la democrazia al suo scopo: servire il meglio possibile il bene dell’uomo, e non appena essere un insieme di regole per vivere con meno disordine possibile. Ridotta a pura procedura, slegata da ciò che la tradizione religiosa e culturale di un popolo assicura come riferimento comune, la democrazia diviene solo un vuoto meccanismo di gestione dei consensi, che possono coagularsi anche intorno a pratiche politiche dannose per le persone.
Questo non è un allarme, ma un fatto già successo, e non poche volte. Non è uno scrupolo da anziano prete che teme per la sua perdita di raggio d’azione, no: è tanto sangue già corso, tanti soprusi orrendi già testimoniati, tanti guai del passato e che si profilano. È un papa realista, il nostro. Non fa della democrazia un idolo.

L’ammirazione con cui Benedetto XVI ha parlato più volte delle pagine con cui l’europeo de Tocqueville analizza la democrazia americana indicano la rotta principale del suo pensiero su quel che l’America dice di amare. In quella democrazia, posta a confronto con quella che veniva profilandosi nella sua Francia e in Europa, de Tocqueville vede che il fondamento riconosciuto e onorato di una comune tradizione cristiana­protestante, in quel caso. Questo assicurava che l’ordinamento non implodesse sotto le tensioni degli scontri di opinione.

L’esercizio di una libertà per tutti poteva coincidere con una tensione al bene comune che non si frastagliasse nella ricerca del consenso nei confronti di ciascun possibile arbitrio. Benedetto sa bene che il nemico interno della mancanza a qualsiasi riferimento antropologico comune è ciò che rende la democrazia non solo 'rischiosa' per chi vi abita, in balia delle opinioni della maggioranza anche per ciò che riguarda diritti fondamentali. Ma sa anche che i nemici interni la indeboliscono proprio contro le sfide che i nemici esterni stanno portando, alzando sempre di più il tiro e forse usando anche certi virus per indebolirla e trasformarla in un fantoccio. O in un circo delle opinioni, dove infine l’imperatore può tornare ad essere adorato.

© Copyright Avvenire, 16 aprile 2008

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