1 aprile 2008

Il 2 aprile di tre anni fa moriva Giovanni Paolo II: lo speciale dell'Osservatore Romano


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Fede e coraggio di un Papa

Tre anni fa si spegneva Giovanni Paolo II, al termine di un declino fisico vissuto con una fede e un coraggio impressionanti. E davvero la morte del Papa venuto da "lontano" colpì moltissime persone in tutto il mondo, come subito fu evidente dalle reazioni moltiplicatesi nei giorni successivi e poi dalla celebrazione dei funerali. Tanto che alcuni storici hanno ricordato quelle che seguirono, in circostanze del tutto diverse, la morte di Pio IX e, in tempi più vicini, l'agonia di Giovanni XXIII.
La stessa fede e lo stesso coraggio avevano del resto caratterizzato tutta la vita di Karol Wojtyla e hanno poi segnato il suo lunghissimo pontificato, urbi et orbi: così come davanti "alla città e al mondo", da piazza San Pietro, risuonarono il 16 ottobre 1978 le parole vigorose del cinquantottenne cardinale arcivescovo di Cracovia appena eletto Papa e quelle gravi del sostituto della Segreteria di Stato che il 2 aprile 2005 ne annunciarono la morte.
Prete dal carisma indiscusso, nominato già da Pio XII vescovo a soli trentotto anni, poi da Paolo VI promosso, ancora giovane, metropolita della storica sede polacca e quindi creato cardinale, Wojtyla è stato un vero protagonista della seconda metà del Novecento. E, "avvicinandosi il terzo millennio", tertio millennio adveniente, come "pastore universale della Chiesa" ha saputo - con una visione mistica e politica - accompagnare i fedeli cattolici e i cristiani, ma più in generale credenti e non credenti, in un arco di tempo segnato da mutamenti rapidi e inattesi: dalla crisi e dal crollo del comunismo europeo all'imporsi del fenomeno mondiale che va sotto il nome di globalizzazione. Con una nuova attenzione alle donne, alle quali per la prima volta dedicò diversi documenti e interventi.
Così la critica serrata all'ideologia materialista e disumana del comunismo da parte del Papa venuto dalla Chiesa del silenzio - che ora grazie a lui aveva ripreso a parlare - andò di pari passo e fu seguita da quella al materialismo pratico delle società ricche sempre più scristianizzate, povere di ideali ma pervasive con i loro avvilenti modelli di vita. Di fronte a nuove guerre e alla crescita dei fondamentalismi religiosi, in particolare quello islamico, la predicazione di Giovanni Paolo II riprese e rafforzò l'opera di pace della Santa Sede, ininterrotta almeno da oltre un secolo, ponendo la Chiesa cattolica all'avanguardia della difesa dei diritti umani e cercando un'intesa tra le grandi religioni. E dinnanzi alle minacce per la vita umana nascoste nelle biotecnologie Papa Wojtyla individuò e denunciò i pericoli per la dignità dell'essere umano.

Soprattutto, sulle vie indicate dai predecessori e dai concili, appassionato di Cristo e devoto alla Madre di Dio, Giovanni Paolo II ha percorso i cinque continenti senza stancarsi - e senza lasciarsi intimorire dall'attentato che nel 1981 lo ridusse in fin di vita - per dare visibilità e infondere coraggio alla Chiesa. Che per questo, iniziando da Benedetto XVI, è grata a Papa Wojtyla, prega per lui e alla sua preghiera si affida nella comunione dei santi.

g. m. v.

(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2008)


Il 2 aprile di tre anni fa moriva Giovanni Paolo II

E la Chiesa del Silenzio parlò

Giornalista e scrittore, l'autore del volume Jean-Paul II - edito da Gallimard (Paris, 2003) e tradotto in italiano per Baldini Castoldi Dalai Editore (Milano, 2004) - ha tracciato un profilo del Pontefice soffermandosi in particolar modo sul ruolo da lui esercitato sullo sviluppo della recente storia europea.

di Bernard Lecomte

Se Giovanni Paolo II ha lasciato il ricordo di un pastore eccezionale, di un uomo dalla grande fede, di un intellettuale fuori dal comune, resterà nella storia anche come un Papa molto "politico", soprattutto per il ruolo esercitato sulla fine del comunismo in Europa. Certo, il Papa polacco non ha mai lanciato "crociate" contro l'uno o l'altro regime: "Non faccio politica" ha detto un giorno a un giornalista, "io parlo del Vangelo. Ma se parlare della giustizia, della dignità umana, dei diritti dell'uomo, è fare politica, allora siamo d'accordo!".
Oggi tutti gli storici concordano che se il Papa eletto nell'ottobre del 1978 fosse stato italiano, spagnolo o francese, il corso della storia, sul finire del ventesimo secolo, sarebbe stato diverso.
Appena eletto, in effetti, si vede il nuovo Pontefice moltiplicare segni, gesti e iniziative in direzione dell'Est. Durante la messa per l'inizio del ministero petrino, domenica 22 ottobre 1978, dopo aver lanciato il suo famoso "Non abbiate paura!", il Papa slavo pronuncia saluti particolari in ceco, slovacco, russo, e così via. Chi nota allora che egli invia la sua berretta di cardinale al santuario della Porta dell'Aurora, a Vilnius, capitale della cattolicissima Lituania? Chi osserva che riceve, in primo luogo, il cardinale Frántisek Tomásek, primate di Boemia e futuro padrino della "rivoluzione di velluto" cecoslovacca? "Santità, non dimentichi la Chiesa del silenzio!" gli dice una donna ad Assisi, il 5 novembre 1978. Giovanni Paolo II le risponde: "Non c'è più Chiesa del silenzio, perché parla con la mia voce!".
Il nuovo Papa non ha elaborato alcun progetto, non ha fomentato alcun complotto, per rovesciare il sistema sovietico. È tuttavia portatore di un'esperienza particolare: quella di un sacerdote, di un vescovo, di un cardinale venuto dall'altra parte della "cortina di ferro". Il suo discorso è tanto originale quanto sovversivo: contrariamente alla maggior parte dei responsabili occidentali di allora, egli è convinto che la divisione dell'Europa in due sia un incidente politico e che il marxismo-leninismo non sia altro che una parentesi della storia.
Il cammino spirituale e l'insegnamento morale di Giovanni Paolo II sono stati altrettanti incoraggiamenti per i cristiani dell'Est, come i grandi temi che hanno presto costituito l'armatura del suo discorso politico e sociale:
- innanzitutto il primato della "cultura", che ha colpito tanto le menti nel discorso all'Unesco del 2 giugno 1980, e quell'insistere sul risuscitare la storia confiscata, di tutti i popoli sottomessi;
- la permanenza della "nazione", cellula primaria della comunità internazionale, la cui esistenza e la cui sovranità non devono dipendere dal beneplacito di qualche entità superiore;
- l'opzione per "l'Europa" in quanto associazione di nazioni che custodiscono la loro storia, le loro specificità e anche le loro radici cristiane, ben diversa, quindi, dall'Europa conflittuale di Yalta e di Helsinki;
- infine l'insistenza per i "diritti dell'Uomo", tema centrale dell'insegnamento di Giovanni Paolo II fin dalla sua prima enciclica, Redemptor hominis, la lotta per le libertà individuali e soprattutto per la più intima: la libertà religiosa. Il Papa non si è accontentato di tradurre tali temi in omelie a Roma, ma li ha portati, a volte personalmente, nei quattro angoli dell'Europa. Innanzitutto con i suoi viaggi, a cominciare dalla straordinaria visita pastorale in Polonia nel giugno del 1979, che in qualche modo diede il via all'esperienza di Solidarnosc. Poi, per interposta persona: basti ricordare la missione del cardinale Agostino Casaroli inviato a rappresentare il Papa nelle cerimonie del millenario della Chiesa russa, nel giugno del 1988. Infine, mediante innumerevoli incontri in Vaticano, dalla prima udienza concessa al ministro Andrei Gromyko (gennaio 1979) al caloroso incontro con il dissidente Andrei Sakharov (febbraio 1989).
Il più sorprendente di questi incontri sarebbe stato, naturalmente, quello con Mikhail Gorbaciov, svoltosi in Vaticano il primo dicembre 1989, alcuni giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, come uno straordinario simbolo della fine di un'epoca.
"Varsavia, Mosca, Budapest, Berlino, Praga, Sofia e Bucarest sono divenute le tappe di un lungo pellegrinaggio verso la libertà", avrebbe detto il Papa dinanzi al corpo diplomatico, un mese dopo, prima che Gorbaciov stesso riconoscesse, in un articolo pubblicato nel febbraio 1992: "Nulla di quanto è accaduto in Europa sarebbe stato possibile senza questo Papa".

(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2008)


Gli ultimi giorni nel ricordo filiale del cardinale Stanislaw Dziwisz

Pensai: l'ho accompagnato per quarant'anni
E ora? Dall'altra parte, chi l'accompagna?


Martedì 1 ° aprile alle ore 18, nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere, si è svolto l'incontro "Ricordando Karol. A tre anni dalla scomparsa di Giovanni Paolo II" con la partecipazione dei cardinali Camillo Ruini, vicario di Roma, e Stanislaw Dziwisz, arcivescovo metropolita di Cracovia, di monsignor Slawomir Oder, postulare della causa di beatificazione e canonizzazione di Karol Wojtyla, dello storico Andrea Riccardi, docente all'università di Roma Tre, e del giornalista Gianfranco Svidercoschi,. già vicedirettore del nostro giornale. In occasione della pubblicazione dell'edizione tascabile Bur del libro di Dziwisz Una vita con Karol. Conversazione con Gianfranco Svidercoschi, l'attore Piotr Adamczyk ha letto alcune pagine del volume e sono state proiettate parti della docu-fiction tratta dal libro e prodotta da Tba. Pubblichiamo un estratto dell'ultimo capitolo nel quale il segretario personale di Giovanni Paolo II racconta gli ultimi giorni di vita del Papa.

di StanisLAw Dziwisz

Per la prima volta dall'inizio del pontificato, Giovanni Paolo II, pur tornato in Vaticano, non poté presiedere i riti del Triduo pasquale. Il Venerdì Santo volle comunque seguire la Via Crucis al Colosseo da uno schermo televisivo sistemato nella cappella privata. Alla quattordicesima stazione prese nelle mani il crocifisso, come per unire il suo volto a quello di Cristo, la sua sofferenza a quella del Figlio di Dio morto in croce.
Sentii che stava davvero arrivando il momento, il Signore lo chiamava...
A Pasqua, il Santo Padre desiderava almeno impartire la benedizione Urbi et orbi. Si era preparato con cura, poco prima della cerimonia aveva provato a ripetere la formula, e tutto sembrava andare bene. Ma poi, finito il discorso letto in piazza dal cardinale Sodano, il Papa alla finestra rimase come bloccato. Sarà stata la commozione, la sofferenza, ma non riuscì a dare la benedizione. Sussurrò: "Non ho voce", e quindi, sempre in silenzio, fece un triplice segno di croce, salutò la folla, infine con lo sguardo fece capire che voleva rientrare.
Era profondamente scosso, amareggiato, e, nello stesso tempo, come esausto per lo sforzo che aveva tentato inutilmente di fare. La gente, giù, era commossa, lo applaudiva, lo chiamava, ma lui sentiva tutto il peso di quel gesto di impotenza, di sofferenza. Mi guardò negli occhi: "Sarebbe forse meglio che muoia, se non posso compiere la missione affidatami". Cercai di replicare, ma lui aggiunse: "Sia fatta la tua volontà... Totus tuus". Non erano parole di disperazione, ma di sottomissione alla volontà divina.
Mercoledì 30 marzo, il Papa si affacciò di nuovo, in piazza c'erano cinquemila ragazzi dell'arcidiocesi di Milano venuti per la professione di fede. Pensavamo, io per primo, che dovesse dare solo la benedizione. Ma, dopo averla impartita, fece un gesto con la mano, un gesto deciso, per chiedere che gli avvicinassimo il microfono. Voleva dire qualche parola, anche solo una parola, un ringraziamento, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Nell'allontanarsi dalla finestra, non ebbe neppure la reazione di insofferenza che aveva avuto a Pasqua. Ormai sapeva, era pronto...
Il giorno dopo, verso le 11, era in cappella per la celebrazione della Messa. All'improvviso il suo corpo venne squassato da qualcosa che gli era come scoppiato dentro. La febbre era quasi a quaranta, e i medici diagnosticarono subito che era subentrato un gravissimo shock settico con collasso cardiocircolatorio, dovuto a una infezione delle vie urinarie. Stavolta, però, niente ricovero. Ricordai al dottor Buzzonetti la ferma volontà del Papa di non tornare più in ospedale. Intendeva soffrire e morire a casa sua, presso la tomba di Pietro. E, a casa sua, i medici avrebbero potuto benissimo assicurargli le cure indispensabili.
Ora, perciò, Giovanni Paolo II era nella sua camera. Sulla parete di fronte al letto, un quadro di Cristo sofferente, legato con le corde. Una immagine della Madonna di Czestochowa. E, su un tavolino, la foto dei genitori. Al termine della Messa, celebrata lì, ci avvicinammo tutti a baciare la sua mano. "Stasiu", disse accarezzandomi la testa. Poi le suore della casa, che chiamò tutte per nome, e infine i medici, gli infermieri.
Il venerdì fu una giornata di preghiera: la Messa, la Via Crucis, l'Ora Terza dell'Ufficio divino, e alcuni brani della Scrittura letti da un altro grande amico di Karol Wojtyla, padre Tadeusz Styczen. Le condizioni generali erano di una estrema gravità. Il Papa riusciva ormai a dire solo poche sillabe, con difficoltà.
E siamo arrivati al 2 aprile, sabato.
Vorrei poter veramente ricordare tutto.
Nella stanza c'era grande serenità. Il Santo Padre benedisse le corone destinate alla Madonna di Czestochowa nelle Grotte Vaticane, e altre due da mandare a Jasna Góra. Poi si congedò dai suoi più stretti collaboratori, cardinali, monsignori della Segreteria di Stato, responsabili di uffici, e volle salutare Francesco, incaricato delle pulizie nell'appartamento.
Era ancora pienamente cosciente, perché pur esprimendosi a fatica chiese che gli venisse letto il Vangelo di san Giovanni. Non era stato un nostro suggerimento, l'aveva chiesto lui. Anche per l'ultimo giorno, come aveva fatto per tutta la vita, voleva nutrirsi della Sacra Scrittura.
Padre Styczen cominciò a leggere Giovanni, un capitolo dopo l'altro. Ne lesse nove. E nel libro, alla fine, rimarrà il segno nel punto in cui era arrivata la lettura: e, insieme, il segno di quando si era conclusa la sua esistenza.
Ecco, nell'estremo momento, il Santo Padre era tornato a essere quello che fondamentalmente era sempre stato, un uomo di preghiera. Era un uomo di Dio, un uomo in intima comunione con Dio, e quindi la preghiera costituiva incessantemente come il "basamento" della sua vita. Quando doveva incontrare qualcuno, o prendere una decisione importante, scrivere un documento, fare un viaggio, prima si rivolgeva sempre a Dio. Prima, pregava. E anche quel giorno, prima di intraprendere l'ultimo grande viaggio, anche quel giorno recitò, con l'aiuto dei presenti, tutte le preghiere quotidiane; fece l'adorazione, la meditazione, e anticipò perfino l'Officio delle letture per la domenica.
A un certo punto, suor Tobiana "sentì" i suoi occhi; si avvicinò con l'orecchio alla bocca, e lui, con voce debolissima, appena percettibile, disse: "Lasciatemi andare dal Signore". La religiosa uscì di corsa dalla camera, voleva raccontarcelo ma continuava a piangere.
Ci ho pensato soltanto dopo, ma è stato straordinario che le ultime parole le abbia dette a una donna.
Verso le 19 il Santo Padre entrò in coma. La stanza era illuminata solo da un piccolo cero acceso, che il Papa stesso aveva benedetto il 2 febbraio per la festa della Candelora.
Piazza San Pietro e tutte le strade adiacenti si erano andate affollando. C'era sempre più gente, e soprattutto c'erano sempre più giovani. Le loro grida - "Giovanni Paolo!", "Viva il Papa!" - arrivavano fin su al terzo piano. Io sono convinto che le abbia sentite anche lui. Non poteva non sentirle!
Erano ormai quasi le 20, e improvvisamente avvertii dentro di me come un imperativo categorico: dovevo celebrare la Messa! E così cominciai a fare, assieme al cardinale Jaworski, all'arcivescovo Rylko e a due sacerdoti polacchi, Styczen e Mokrzycki. Era la Messa prefestiva della domenica della Divina Misericordia, una solennità tanto cara al Papa. Il Vangelo era sempre quello di Giovanni: "Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse "Pace a voi!.."". Alla Comunione, riuscii a dargli, come viatico, alcune gocce del sangue preziosissimo di Gesù.
Erano le 21.37. Ci eravamo accorti che il Santo Padre aveva smesso di respirare. Ma solo in quel preciso momento "vedemmo" sul monitor che il suo grande cuore, dopo aver continuato a battere per qualche istante, si era fermato.
Il dottor Buzzonetti si chinò su di lui e alzando appena lo sguardo mormorò: "È passato alla casa del Signore".
Qualcuno intanto aveva bloccato le lancette dell'orologio su quell'ora.
E noi, come se lo avessimo deciso tutti insieme, ci mettemmo a cantare il Te Deum. Non il Requiem, perché non era un lutto, ma il Te Deum, come ringraziamento a Dio per il dono che ci aveva dato, il dono della persona del Santo Padre, di Karol Wojtyla.
Piangevamo. Come si faceva a non piangere! Erano, insieme, lacrime di dolore e di gioia. E fu allora che si accesero tutte le luci della casa...
Poi, non ricordo più. Era come se fosse calato improvvisamente il buio. Il buio sopra di me, dentro di me. Sapevo bene quello che era successo, ma era come se, dopo, non riuscissi ad accettarlo. O non riuscissi a capirlo. Mi mettevo nelle mani del Signore, ma quando pensavo di avere il cuore sereno ripiombava il buio...
Finché è arrivato il momento del congedo.
C'era tutta quella gente. Tutte quelle persone importanti venute da lontano. Ma, soprattutto, c'era il suo popolo. C'erano i suoi giovani. C'erano quelle scritte, così significative e così impazienti. In piazza San Pietro c'era una grande luce. E adesso era tornata anche dentro di me.
Concludendo l'omelia, il cardinale Ratzinger ha fatto quell'accenno alla finestra, e ha detto che lui stava sicuramente là, a vederci, a benedirci. Anch'io mi sono voltato, non ho potuto fare a meno di voltarmi, ma non ce l'ho fatta a guardare in su.
Alla fine, quando sono arrivati sul sagrato, i sediari che portavano la bara l'hanno lentamente girata. Come per permettergli l'ultimo sguardo verso la sua piazza. Il congedo definitivo dagli uomini, dal mondo.
Ma anche da me?
No, da me no. In quel momento, non ho pensato a me. L'ho vissuto insieme con tutti gli altri. E tutti erano scossi, turbati. Ma per me è stata una cosa che non potrò mai dimenticare.
Intanto, il corteo stava entrando in basilica, dovevano portare la bara giù nella tomba.
E allora, proprio allora, mi è venuto di pensare...
L'ho accompagnato per quasi quarant'anni, prima dodici a Cracovia, poi ventisette a Roma. Sono stato sempre con lui, accanto a lui.
Ora, nel momento della morte, lui è andato da solo.
L'ho sempre accompagnato, ma da qui è andato da solo. E questo fatto, di non averlo potuto accompagnare, mi ha colpito tanto.
Sì, certo, lui non ci ha lasciati. Sentiamo la sua presenza, e anche le tante grazie ottenute tramite lui. E poi, io l'ho accompagnato fino a questo punto della Chiesa.
Ma, da qui, è andato da solo. E ora? Dall'altra parte, chi lo accompagna?

(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2008)

3 commenti:

mariateresa ha detto...

come mi piace la foto che hai scelto Raffaella. E' dolcissima.
Anche l'articolo s'intende.

Anonimo ha detto...

Bella, vero?
Fu scattata nel 1978 subito dopo l'elezione di Giovanni Paolo II :-))

gemma ha detto...

bella anche la testimonianza del cardinale Dziwisz, molto bella..