19 novembre 2007
Beatificazione di Antonio Rosmini: il commento de "Il Foglio"
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DALL’INDICE ALLA BEA TIFICAZIONE
Rosmini, il molto ingerente prete filosofo, diplomatico e politico
Alessandro Turci
Chissà che espressione stupita avrebbe oggi Antonio Rosmini sentendo chi si scandalizza se un uomo di chiesa parla ai politici, ai cittadini o addirittura alle istituzioni.
Lui che ha scritto, polemizzato, fondato ordini, consigliato Papi e primi ministri, che è partito diplomatico, che ha tenuto carteggi, le cui opere sono finite all’Indice, per esserne prosciolte, poi di nuovo condannate per “Quaranta proposizioni” dal Sant’Uffizio in un decreto Post obitum (dopo la morte), e poi finalmente riabilitate nel 2001 da Joseph Ratzinger come capo della Congregazione per la dottrina della fede. Lui, probabilmente,
non capirebbe l’obiezione.
Figlio del XVIII secolo, dotato di un intelletto illuminato ma anche di un sentire tutto romantico, Antonio Rosmini Serbati ha attraversato il ’900 nel cono d’ombra della teologia della storia. Ne è uscito grazie al futuro Benedetto XVI, e passando per il miracolo occorso a una suora di Borgomanero guarita contro il parere di ogni medico, per giungere alla beatificazione che si celebrerà a Novara domani. Stimatissimo da Niccolò Tommaseo, che aveva conosciuto a Padova negli anni di facoltà, maestro filosofico di Alessandro Manzoni, pensatore e scrittore, Rosmini è stato il protagonista di quella questione rosminiana che ha segnato oltre cinquant’anni di storia ecclesiastica e pontificia. Una vicenda terminata con la sconfitta delle sue idee e probabilmente con la vittoria del prete Antonio Rosmini. Per un uomo della chiesa, nella chiesa, il primato dell’auditus fidei.
Ma la vicenda di Antonio Rosmini da Rovereto rimanda all’opera incriminata delle “Cinque Piaghe della Santa Chiesa” e la battaglia che ne seguì contro non meglio identificati ambienti gesuitici, che alla fine riuscirono a far mettere all’Indice, con essa, tutto il corpus rosminiano. Ora è chiaro che la riabilitazione del pensiero di Rosmini fa oggi più forte la chiesa perché reintegra nei ranghi – anche grazie all’enciclica “Fides et ratio” di Giovanni Paolo II – una delle sue menti più forti e coraggiose: giudizi che di regola si riservano agli anticonformisti o a quei soggetti un po’ sognatori che mal si accompagnano con la disciplina e il senso comune. Invece Rosmini può essere ascritto per severità di costumi, di azione e di rigor mentale, non alle schiere dei mistici naïf desiderosi di scompaginare le carte del magistero della fede, quanto piuttosto al tenace e cupo soldato di Cristo che – in termini molto risorgimentali direbbe Luigi Salvatorelli – combina il pensiero e l’azione. Dal ventenne studente appassionato che aveva in progetto di realizzare, in risposta a Diderot e d’Alembert, una “Enciclopedia cristiana italiana”, al teologo autore di oltre venti volumi, dal fondatore di un ordine religioso al consigliere politico di Pio IX e mediatore diplomatico di Cavour, la sua figura
si è sempre alimentata di una vocazione elementare e irriducibile.
Le Cinque Piaghe indicate da Rosmini, cioè la mancanza di unità, verità, carità, libertà e povertà nella chiesa, non suonano eretiche oggi, ma suonavano eretiche nel 1832, quando furono scritte. E’ assodato che se ne rendesse conto lo stesso Rosmini, che infatti aspettò oltre quindici anni e l’elezione al soglio pontificio di Pio IX per pubblicarle, se una pubblicazione anonima di un tipografo di Lugano può essere considerata un uscire allo scoperto. Ma all’epoca dei fatti, siamo nel 1848, qualcuno di altrettanto anonimo aveva già fatto pervenire ai vescovi le “Postille”, ovvero un libretto che riportava oltre trecento proposizioni rosminiane, con le relative censure (le postille appunto), e la preghiera di firmare una lettera di condanna.
L’anomalia Rosmini covava quindi sotto la cenere prima ancora dell’uscita delle Cinque Piaghe, comparsa che riuscì solo a esaltare l’opposizione verso il filosofo, modello dei laici cattolici come il Manzoni, che due anni dopo lo indicava come suo mentore nel “Dialogo dell’Invenzione”.
La questione rosminiana è complessa, articolata – chi ha torto e chi ha ragione non interessa leggerlo in queste righe di veloce consumo – ma certo è che Rosmini ha contribuito, specie nell’Italia del nord, alla formazione di un clero colto, di stampo conciliatorista e aperto alle riforme sia in campo ecclesiastico
che in campo politico. Ecco l’origine dell’opposizione contro il suo pensiero, accusato di rigorismo e di giansenismo; un fronte,
quello polemico, che ha visto contro di lui anche figure un tempo amiche, come quella di Vincenzo Gioberti, pronte a rinfacciargli il
debito formativo nei confronti della filosofia moderna. Forse nasce da qui la fortuna di Rosmini nel mondo anglosassone, con
l’espansione del suo ordine in Inghilterra e in Irlanda, con seguaci e ammiratori negli Stati Uniti, mentre il suo esempio è rimasto nei paesi latini retaggio di pochi, almeno fino alla svolta della “Fides et ratio” del 1998.
Rosmini ha vissuto un bizzarro destino di trincea suo malgrado, che negli ultimi anni nel ritiro di Stresa lo ha visto bersaglio del fuoco incrociato dei cattolici intransigenti come di liberali anticlericali, quasi un antinomia per l’uomo che aveva scelto come principio guida del suo ordine religioso la “passività”.
Dove per passività si intende l’atteggiamento dell’umile servo che attende un cenno del suo signore per mettersi all’opera, un termine
che nella filologia del Vangelo potrebbe essere restituito dal verbo vegliare.
L’isolamento di Rosmini e gli attacchi gesuitici e curiali non devono ingannare sulla sua natura di pensatore eteroclito, perché
proprio Rosmini contribuì alla rinascita del tomismo della fine dell’800, con il primato morale attribuito alle figure eminenti della patristica: su tutte Tommaso che ai suoi occhi aveva sottomesso la filosofia alla Scrittura. E infatti è tutta da dimostrare la tesi che l’affermazione del tomismo voluta da Leone XIII significasse la sconfitta della questione rosminiana.
In un contesto storico in cui l’eclettismo culturale suonava eterodosso, la condanna delle sue posizioni non deve stupire. Ma il suo eclettismo fu piuttosto un’ortodossia che si amalgamava, nel filosofo, con molteplici fervori civili, compresa l’attività di editorialista polemico, attivo addirittura dalle pagine dell’Armonia di Torino contro le politiche troppo laiche del governo piemontese.
La Nota della Congregazione per la dottrina della fede ha chiuso la diaspora rosminiana.
Questa beatificazione è segno di un movimento e di un’attenzione che – di fronte agli scandalizzati per il protagonismo dei chierici
sui temi dell’etica – è ancora capace di spronare la chiesa dal suo stesso interno per darle, se non collocazione, almeno bussola.
© Copyright Il Foglio, 17 novembre 2007
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